Mete luminose

La tecnologia ha allontanato i guardiani dai loro fari. Tuttavia i solitari edifici non hanno perduto l'antico fascino. Restano un arredo della costa al quale volentieri si rivolge lo sguardo, e i più isolati, specie quando la stagione ci vincola alla terraferma, possono diventare la meta di ariose passeggiate.

Indice dell'itinerario

Nel 1995 ad Alessandria d’Egitto, nei pressi della fortezza di Qayt Bey, una missione archeologica francese scoprì sul fondo marino alcuni resti di un antico edificio, parti di una statua, pezzi di colonne, un busto femminile, blocchi di granito e altri frammenti. I ricercatori della missione non ebbero dubbi: si trattava dei resti del faro, che dall’isoletta di Faros su cui sorgeva dette il nome a quanti ne sarebbero seguiti. Il più famoso faro dell’antichità fu costruito dai Tolomei nel III secolo a.C. e superò i mille anni di vita perché fu distrutto da un terremoto, sembra nel 956. Ricostruito più tardi dagli Arabi, crollò definitivamente, ancora per un terremoto, nel 1326. Era un edificio alto circa 120 metri sul quale brillava un fuoco perenne visibile, con il sussidio di una lastra di metallo concava, anche a più di quaranta chilometri. Vita molto più breve ebbe un altro faro famoso, quello di Rodi, annoverato insieme a quello alessandrino tra le sette meraviglie del mondo: il Colosso, alto 32 metri, poggiava i piedi sull’estremità dei due moli d’ingresso del porto, facendo così da arco sotto il quale transitavano le navi. Con una mano reggeva una fiaccola che costituiva la lanterna. Costruito nella stessa epoca del faro di Alessandria, crollò esso pure per un sisma dopo appena cinquant’anni.
Naturalmente nella storia dei fari non potevano mancare di un ruolo significativo i Romani, al loro tempo signori dei mari conosciuti, che ne eressero anche fuori dal Mediterraneo, a Dover per esempio o a Julia Briga, l’attuale porto spagnolo di La Coruña. Non tutti coloro che oggi visitano questa città sanno che l’imponente Torre de Hercules, pur modificata più volte nei secoli, è appunto quanto rimane del faro costruito da Caio Servio Lupo. A Ostia, invece, i lavori di scavo per la costruzione dell’aeroporto di Fiumicino confermarono un’antica leggenda secondo la quale, per innalzare il faro che permetteva di riconoscere da lontano l’ingresso al porto, si sarebbe fatta colare a picco una grande nave carica di pietrame destinato a consolidarsi che ne costituì le fondamenta. I resti dello scafo furono in effetti rinvenuti in aree già appartenute al mare e interrate dagli apporti di fango del Tevere. Dei tanti fari italiani, tra quelli di più antico blasone c’è sicuramente la Lanterna, monumento nazionale, che già nel Trecento serviva a segnalare il porto di Genova (ancor prima, nel XII secolo, si parla per quel porto di un “diritto di fuoco”, contributo pagato da ogni padrone di nave per il prezioso servizio). Un elaborato codice di segnali, drappi fatti pendere dalla torre, serviva anche ad informare i cittadini circa i velieri in avvicinamento. Nel Cinquecento, quando la Lanterna fu portata all’attuale altezza di cento metri vi si consumavano annualmente come combustibile una dozzina di barili d’olio. Con olio toscano era alimentato allora anche il faro di Livorno; ma capitava che di frequente restasse spento. Sicché Lorenzo il Magnifico dispose che il prezioso combustibile venisse adulterato per evitarne un eccessivo consumo.

Un aiuto dal sole
Per un paio di millenni, legna, carbone e olio arsero sulle sommità dei fari per indicare ai naviganti le rotte notturne. Tra i problemi che ebbero gli antichi ci fu quello del vento e della pioggia che spegnevano i bracieri, mentre le chiusure con vetri andavano incontro all’annerimento. Le lampade a olio somigliavano a grosse lucerne con stoppino, ma nei paesi nordeuropei l’olio tendeva a congelare. Una grande svolta si ebbe nell’era industriale con l’impiego dei gas, in particolare l’acetilene, dalle ottime caratteristiche di luminosità. Quando poi, nei primi anni del Novecento, lo svedese Gustav Dalén escogitò un sistema per l’accensione automatica del gas al calare del sole sembrò che la tecnologia avesse veramente espresso il massimo. L’intuizione consistette nel dipingere uno di bianco, l’altro di nerofumo, due elementi metallici, determinandone così una differente dilatazione durante il giorno e l’apertura o la chiusura, con un gioco di rinvii, della valvola di erogazione del gas. In località non raggiungibili dalla corrente di rete, in Italia almeno, le bombole di acetilene sono andate in pensione soltanto negli anni Novanta. Si era fatta strada nel frattempo la più ecologica delle alimentazioni, quella da pannelli solari fotovoltaici, che ammortizza il costo degli impianti in soli sei anni e in dieci diventa vantaggiosa rispetto alle altre forme di alimentazione elettrica. Il nostro paese è all’avanguardia in tale settore. Tra i molti segnalamenti che si servono di impianti fotovoltaici, quello di Capo Spartivento raggiunge una portata di ben 18 miglia. Non hanno invece portato ad effetti concreti le prove di impiego dell’energia eolica effettuate in passato presso i fari di Capo San Marco in Sardegna e di Capelrosso nell’isola del Giglio.
Anche nel campo dell’efficacia della fascia di luce un’innovazione basilare si ebbe agli inizi dell’Ottocento, con i sistemi catadiottrici dovuti agli studi sulla rifrazione e riflessione del francese Auguste Fresnel. Questo tipo di lenti equipaggia tuttora i fari di ogni parte del mondo, ruotando grazie a motori elettrici insieme alle lampade (avendo spesso come riserva il vecchio sistema di un peso pendente nella tromba della scala a chiocciola dei fari). Fu lo stesso Fresnel, per annullare l’attrito di rotazione delle pesanti ottiche, a farle galleggiare su un bagno di mercurio piuttosto che su cuscinetti. Somiglianti a singolari sculture translucide, oggi non sono più necessariamente di cristallo o di vetro, ve ne sono in materiale sintetico che raggiungono una trasparenza di gran lunga superiore. D’altra parte l’intensità della luce cresce con la distanza della lampada dalle lenti e non sono necessarie potenze luminose iperboliche, tanto che sulle coste italiane non si superano i 1000 watt per portate teoriche dei fari che possono arrivare a 35 miglia. Per i mari del Nordeuropa, più spesso afflitti da condizioni di scarsa visibilità, giunse notizia anni fa dell’impiego di lampade dalla stratosferica potenza di 5 milioni di watt. Non sappiamo con quali risultati, vista la scarsa penetrabilità (come purtroppo vediamo sulle strade) del muro creato dalle goccioline di nebbia.

Di notte e di giorno
Tra fari, fanali all’ingresso dei porti e altri segnalamenti, contiamo oggi in Italia circa un migliaio di luci, una carta d’identità dei litorali perfettamente funzionante. Ma non fu sempre così. Dopo l’Unità, Vittorio Emanuele II istituì un organismo con la responsabilità su fari e altri segnali costieri. E tuttavia, ancora all’inizio di questo secolo, il portolano britannico informava nero su bianco che “i fari e i segnalamenti marittimi lungo le coste del Regno d’Italia non danno alcun affidamento, onde i naviganti si regolino di conseguenza”. La cosa servì da stimolo ad un’interpellanza alla Camera dei Deputati che nel 1910 trasferì definitivamente le competenze alla Marina Militare.
Osservando gli edifici dei fari, ci si rende presto conto che le loro torri, cilindriche per minore resistenza al vento o a tronco di cono per motivi statici, sono molto più alte sulle coste basse, in modo che il fascio di luce compensando la curvatura terrestre possa essere visibile a maggiore distanza. Per i fari situati in alto un ulteriore innalzamento della lanterna risulterebbe irrilevante, per cui essa poggia non di rado direttamente sulla terrazza dell’edificio adibito ad abitazione e deposito. Proprio con l’intento di estendere la visibilità del fascio di luce, la posizione elevata è stata sovente privilegiata e ciò spiega come molti fari si trovino nei punti più esposti e pittoreschi di coste scoscese. Non sono costruiti in serie e la diversità è anzi una loro dote. Mentre infatti di notte la precisa identificazione è fornita dalle specifiche intermittenze della luce, di giorno il navigante deve poter contare su altri elementi visivi, come il colore della costruzione, un disegno a fasce orizzontali, il fatto che la lanterna poggi su un’antica torre o su un castello, oppure le merlature gotiche dell’edificio, elemento stilistico quasi obbligato per i fari costruiti agli inizi del Novecento. Sugli elenchi ufficiali di fari e fanali usati da chi naviga, la descrizione dei singoli edifici figura perciò tra gli altri dati, anche se si trovano fari il cui nome è scritto in caratteri cubitali sui fianchi stessi della costruzione.
Parallelamente alla funzione di ausilio tecnico per la navigazione il faro tramanda dalla più remota antichità una simbologia di salvezza che sconfina talvolta nel mistico. Significativa al riguardo un’osservazione che chiunque avrà potuto fare navigando tra le piccole isole dell’Egeo, dove all’ingresso dei più isolati rifugi si trovano sempre una bianca cappellina e una lanterna, utili, l’una di giorno l’altra di notte, all’identificazione del ridosso. Il pensiero corre anche a certi fari di terra, come quello che si incontra sul Cammino di Santiago. La piccola chiesa romanica di Torres del Río, un gioiello anche per la decorazione mudejar dell’interno, ha pianta ottagonale. Costruita dai Templari, si sviluppa in altezza e sulla cupola sostiene una lanterna: per guidare nella notte i pellegrini nell’interminabile piana ondulata della Navarra.
Ma, al contrario, ecco i lumi della costa diventare a volte causa di naufragio. Stiamo parlando della consuetudine diffusa in passato presso popolazioni di varie parti del globo di accendere fuochi per trarre in inganno i marinai e razziare i relitti delle navi finite sulla costa. Tra le leggende dell’Egeo c’è quella secondo cui di ritorno dalla guerra di Troia le navi dei vincitori, mentre fuggivano una tempesta, furono mandate in secca da fuochi fraudolentemente accesi sulle coste dell’Eubea. Nel Medioevo non avevano una buona nomea al riguardo né i litorali inglesi né quelli norvegesi.
Su coste come quelle britanniche, dove bassi fondali e scogliere seminascoste dalle acque, unitamente all’inclemenza del tempo, possono costituire un serio pericolo per la navigazione, la stessa costruzione di un faro rappresentò talvolta, pur nella seconda metà dell’Ottocento, un problema terribilmente complicato. Uno dei fari più importanti si trova a ovest della Manica, nelle isole Scilly, ma l’Ammiragliato inglese decise la sua costruzione solo nel 1847 dopo che quelle acque avevano inghiottito nei secoli bastimenti senza numero. Il problema era che lo scoglio più esterno su cui costruirlo, Bishop Rock, offriva una superficie appena sufficiente ad erigere una semplice torre. Perché il faro potesse meglio resistere alle tempeste si scelse l’acciaio, ma il progetto era stato realizzato appena a metà quando un giorno, nel tornare al lavoro, gli addetti non trovarono più nulla: la tempesta della notte aveva spazzato via tutto. La costruzione venne ripresa nel 1851, questa volta in granito, ma resa quasi proibitiva dal fatto che, mare permettendo, i blocchi dovevano essere sbarcati volta per volta da una barca d’appoggio. Quando il faro sembrò finalmente terminato nel 1858, si affacciarono altri problemi, perché la torre era talmente esposta ai frangenti da esserne scossa e vibrare, con gli oggetti all’interno che si spargevano tutt’in giro. Una pesante campana da nebbia venne sradicata dal suo supporto e portata via dal mare. La costruzione, ancora lontana dall’essere sicura, subì altre modifiche e fu portata a cinquanta metri d’altezza. I lavori non si conclusero che a quarant’anni dal loro inizio, ma si scherzò a lungo sul fatto che chi dormiva nella torre di Bishop Rock ne usciva con il corpo a forma di banana. Oggi una piattaforma sulla cima permette di raggiungere il faro in elicottero.Chi viaggia nei paesi del Nordeuropa ha modo di accorgersi come quelle culture riservino ai fari un’attenzione molto maggiore di quanta non se ne dedichi nel nostro paese. A Travemünde, sul Baltico, è visitabile il faro più antico di Germania, naturalmente in mattoni rossi, che risale al Quattrocento; nell’isola di Rügen, a Capo Arkona, sono aperti ai turisti due fari a contatto di gomito. Il più antico, del 1825, fu progettato dal famoso architetto neoclassico Schinkel, ma agli inizi del Novecento fu giudicato troppo basso rispetto alle esigenze. Invece di alterare l’opera di Schinkel si preferì costruirle a fianco un secondo faro alto 35 metri, che è tuttora in funzione. Se poi capitate a Rostock, l’antico porto sul Baltico, troverete proprio in centro un negozio specializzato in fari dove si può acquistare, come si fa con le navi in bottiglia, l’accurato modellino di quello più caro ai propri ricordi.
Di molti fari situati su scogliere esposte al mare si ricordano episodi che mettono in luce la terribile potenza delle burrasche. Chi è stato nelle isole Shetland ed è arrivato alla più settentrionale, Unst, ricorderà che un po’ più su si trova l’isolotto di Muckle Flugga, il lembo più a nord della Gran Bretagna, marcato dalla presenza di un faro. Durante una tempesta il mare giunse lassù, a sessanta metri d’altezza, e riuscì ad aprirne la porta. Negli Stati Uniti il faro di Minot’s Ledge, presso la costa del Massachussets, andò più volte distrutto dal mare durante i lavori di costruzione e quando fu ultimato venne trascinato via insieme ai due guardiani. Di esso non è più rimasto segno. Ma l’episodio più singolare crediamo sia quello del faro di Flemans, un’isoletta a sedici miglia dall’ultima delle Ebridi. Risale al dicembre 1900, epoca in cui non si poteva ancora contare su collegamenti senza fili e qualche faro dei più difficili veniva dotato, per spedire e ricevere messaggi, di colombi viaggiatori (che comunque durante le tempeste trovavano più comodo rifugiarsi sugli alberi dei bastimenti). Ma nemmeno di colombi disponeva il faro di Flemans. Dopo una decina di giorni travagliati dalle tempeste, visto che il faro restava spento, l’imbarcazione addetta alle riparazioni e ai rifornimenti raggiunse infine lo scoglio. Si può immaginare la sorpresa dell’equipaggio quando scoprì che il luogo era completamente deserto. All’interno dell’edificio tutto in ordine, non un segno di colluttazione o di qualsiasi altra anormalità, un messaggio, niente. Dei tre uomini non si sarebbe mai più avuta notizia.

Navi per lanterne
Fu in Gran Bretagna che verso il 1730 venne applicata per la prima volta l’idea di trasformare in faro una nave da ancorare in punti dove era impossibile costruire un tradizionale faro in pietra. Si trattò di un veliero che, trasformato a dovere, venne stabilmente ancorato alla foce del Tamigi. Nel 1881 le navi faro britanniche erano ben 61, ma molti altri paesi in tutto il mondo se ne erano nel frattempo dotati. Con gli inizi del Novecento, poi, invece di trasformare vecchie unità in legno, si cominciarono a varare navi in ferro espressamente progettate e perciò sprovviste di motore. L’età d’oro di questi battelli durò fino al 1970, quando cominciarono a cadere in disuso a causa degli alti costi di esercizio e per l’avvento delle boe automatizzate. Abbiamo avuto la fortuna di salire su una delle ultime navi faro ormai diventata oggetto da museo, lo “Scarweather”, varato a Darthmouth nel 1947 e lungo più di 40 metri. Come tutte le navi faro, è dipinto in rosso e dalla sua parte centrale si leva all’altezza di 14 metri una torretta con la lanterna. Ma ciò che più colpisce è la robustezza della catena, lunga 360 metri e unita a un’ancora da ben tre tonnellate, destinata a contrastare le peggiori burrasche e ad evitare pericolosi sbandamenti. Nel 1899 la nave faro “South Goodwin” ruppe infatti la catena e restò tre giorni in balia del mare. Ma non doveva essere nata sotto una buona stella perché nel ’54, a causa del vento e dei frangenti, la catena si spezzò di nuovo senza che a bordo se ne accorgessero subito. Il “South Goodwin” finì su una secca e si rovesciò. Si salvò soltanto un ornitologo ventiduenne che venne più tardi raccolto da un elicottero. L’equipaggio si trovava nelle cabine eppure nessun corpo fu mai più ritrovato.
Agli inizi degli anni Novanta una trentina di navi faro era ancora in attività in tutto il mondo, ma non sapremmo dire se oggi ce ne siano ancora. In Europa le ultime, sia pure a riposo, potreste vederle capitando in Francia nei porti di Le Havre o di Dunquerque, o meglio ancora nel grande museo galleggiante della navigazione a pochi chilometri da Brest.

PleinAir 332 – marzo 2000

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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