Marche da bollo

Tra memoria e scoperta, letteratura e aneddoti, un elogio al viaggio minimale. Un invito a ricercare i segni più piccoli della nostra terra. Per conoscerla e conoscersi meglio.

Indice dell'itinerario

Nemo propheta in patria. Per una volta non trattasi di luogo comune: si è girato il mondo e non si conosce la propria terra. Ci sono cascato anch’io. Avevo visitato quasi l’intera Europa e mi ero spinto, come si dice, “oltre le colonne d’Ercole”, ma delle Marche conservavo appena il banale stereotipo delle (poche) città d’arte, dei borghi fortificati, di qualche importante vestigia romana e infine della costa. C’è voluta un’occasione di lavoro, che mi ha costretto a battere a tappeto il territorio, per rivelarmi la mia ignoranza. Nel 1986, con l’entrata in vigore della legge Galasso (per la tutela del territorio), le Regioni furono costrette ad approntare in fretta e furia il cosiddetto piano paesistico, con l’elenco di quanto c’era da salvaguardare: e non si trattava solo di monumenti. La Regione Marche affidò il lavoro a un gruppo di studio dell’Università di Ancona, coordinato dal professor Sergio Anselmi, insigne storico locale, di cui abbiamo già avuto occasione di parlare su queste pagine, essendo altresì l’organizzatore del Museo dell’Agricoltura di Senigallia (vedi PleinAir n. 305). Io e l’amico Fabio Feliziani, che pure i lettori conosceranno per qualche intervento su questa rivista, fummo arruolati per una ricerca fotografica riguardante l’archeologia industriale. Ci diedero mappe ed elenchi di manufatti da rintracciare’ e che ci arrangiassimo! L’inconsueta caccia al tesoro sarebbe stata anche divertente non fosse che, come detto, i tempi erano strettissimi: per giorni ci spostammo da una località all’altra, scoprendo altresì come le indicazioni in nostro possesso fossero imprecise. Gli unici impianti di facile individuazione erano le fornaci, purché fosse rimasta in piedi la ciminiera; per il resto ci toccò quasi sempre chiedere ai nativi, inciampando una volta pure nello scemo del villaggio. Ma il lavoro bene o male andò in porto, e la Regione Marche fu una delle prime a mettersi in regola entro la data fissata.
La collaborazione con il professor Anselmi continuò e mi ritrovai a girare di nuovo la mia terra per altre ricerche e relative pubblicazioni, la più importante delle quali potete trovarla in qualsiasi libreria o biblioteca della vostra città, trattandosi del volume riguardante le Marche nella collana Storia d’Italia, le Regioni dall’unità ad oggi edita da Einaudi nel 1987.
Tutto ciò che ho finalmente scoperto a due passi da casa, e che è stato anche oggetto di alcuni precedenti servizi su PleinAir, lo devo a quella lontana esperienza, e mi piace così dedicare il presente nuovo intervento all’amico Anselmi, che sperabilmente ritroverà nelle mie nuove avventure ed escursioni anche un po’ di ricordi dei nostri comuni vecchi lavori.


Ancona · Aspettando Maigret
Ad Ancona visiterete la cattedrale alta sul porto, la pinacoteca, il museo archeologico, vi imbatterete nel “rinoceronte”, la curiosa grande scultura moderna di Trubbiani, percorrerete l’itinerario vanvitelliano, fra i monumenti e le tracce che Luigi Vanvitelli volle lasciare a questa città, dalla facciata curva della Chiesa del Gesù al Lazzaretto, pentagonale fortino isolato nelle acque del porto, detto per l’appunto “mole vanvitelliana”, all’Arco Clementino, sul molo nord. Spingendovi fin qui, anche per ammirare l’arco di Traiano, la più importante vestigia romana, non potrete esimervi dal dare un’occhiata, lì a fianco, ad una minuscola trattoria. Se fa bel tempo (e non è martedì, giorno di chiusura) i tavoli sotto la pergola saranno all’ora di pranzo quasi tutti occupati: ma c’è sempre modo e spazio di aggiungerne un altro con relative sedie. E’ di certo il momento più bello per godere questo posto, non unico, ma perlomeno insolito alle nostre latitudini (dove si mangia più all’aperto, e persino a novembre o marzo, se capita una giornata di sole). Ma noi preferiamo le atmosfere invernali dell’interno. Nella stretta e relativamente lunga sala (trenta posti a sedere contati, non uno di più) si pranza fianco a fianco su tavolate comuni. Solo due fortunati possono approfittare di quello che qui chiamano “il mansardino”, un piccolo tavolo contro la finestra ove sembra di essere proprio nella dinette del camper. Nel vociare indistinto degli avventori prevale il greco. Tanti sono i camionisti che in ogni stagione passano di qui a rifocillarsi prima dell’imbarco dei loro mezzi su un traghetto (alcuni semplicemente vengono a prendere o a portare il rimorchio di un TIR che ha una motrice gemella sull’altra sponda). Ma passano anche turisti di bocca buona, che non disdegnano questi ambienti caratteristici (ove fra l’altro e, nello specifico, si mangia davvero bene, e ad un prezzo più che onesto). Nel contesto internazionale e poliglotta, sembra allora di essere in chissà quale paese, magari nel porto di Amburgo o sui canali di Francia. Un locale del genere sembra uscito dalla penna di Simenon: e così in una giornata invernale particolarmente cupa si può fare il gioco di aspettare Maigret. Ce lo immaginiamo arrivare col cappotto bagnato di nebbia, l’immancabile pipa in bocca, e ordinare una birra (qui non credo abbiano il Pernod) sedersi a meditare e osservare la gente. “Chèz Irma” potremmo ribattezzare il locale in luogo dell’anonima scritta “Trattoria da Irma”. Ma non sappiamo come la padrona (e bravissima cuoca) prenderebbe il suggerimento: da anconetana di razza ci farebbe probabilmente regalo di una sapida battuta, sovrastando il vociare dei clienti.


Fra Ascoli Piceno e Macerata · La Mecca dei piedi
Per illustrare il sacro testo L’industria calzaturiera marchigiana. Dalla manifattura alla fabbrica, edito dall’Unione Industriali del Fermano nel 1989, mi fu commessa un’indagine nel mondo di quelli che volgarmente sono qui chiamati ‘gli scarpari’, anche se titolari di un’affermata e moderna azienda. Per una ricerca a tema come questa bisogna avere indicazioni più che precise e mettere subito in conto le difficoltà oggettive. I reperti da fotografare non sono sempre accessibil: se i vecchi calzaturifici, con relative scritte, sono lì sulla strada e basta solo individuarli, per i lavatoi coperti, usati per la concia delle pelli, per scarpe, attrezzi, insegne e pubblicità d’epoca bisogna invece scomodare chi sta lavorando, farsi aprire un piccolo museo, avere comunque di fronte gente che neppure afferra il significato del lavoro che stai compiendo. Neanche a farlo apposta, quella volta a Milano c’era una qualche esposizione rievocativa del lavoro italiano di questo secolo, e proprio lì era finito un importantissimo macchinario: dovetti sobbarcarmi un’imprevista trasferta.
Ma la vera curiosità di questa ricerca sono stati i dipinti: in antichi affreschi e pale d’altare compaiono pianelle e scarpe d’epoca e poi… lo sapevate che anche gli scarpari hanno il loro santo protettore? Anzi sono due: San Crispino e San Crispiniano, e nelle loro effigi compare a volte sullo sfondo un ciabattino, con i suoi attrezzi, o semplicemente un qualche strumento che possa rievocare il mondo delle calzature. Un concentrato di queste immagini si trova a San Severino Marche, nelle chiese di San Lorenzo in Doliolo, Santa Maria della Pieve, Santa Maria del Glorioso. Ed è proprio quest’ultima che ci interessa in particolare: l’ostinata attesa di trovarla aperta mi fece scoprire uno di quei posti che noi camperisti, amanti delle notti in solitudine, sempre cerchiamo. Ben segnalata all’uscita orientale del paese, è preceduta da un largo spiazzo fra gli alberi, dove c’è persino una presa d’acqua. L’interno della chiesa conserva un pregevole affresco: era piuttosto malandato quando ci passai, ma lo stavano restaurando. Potrebbe essere un interessante riferimento per chi si avventura alla ricerca di reperti sull’industria calzaturiera nelle Marche. Il resto si trova in fabbrica. Cercate delle aziende storiche, per esempio a Sant’Elpidio a Mare (che, a dispetto del nome, sta in collina!). Troverete quanto meno interessanti pannelli con pubblicità d’epoca, come se ne vedevano sulle riviste o sulla cartellonistica stradale prima e dopo l’ultima guerra. E poi (ma tante, qui e altrove, fra la provincia di Macerata e quella di Ascoli, sono le ditte che hanno lo spaccio interno: giusto per non far torto a nessuno) è l’occasione per comprare, a prezzo di fabbrica, scarpe sulla cui qualità – nota in tutto il mondo – non c’è bisogno di aggiungere neanche una parola. (Se qualche ditta ha apprezzato l’intervento e volesse ringraziarmi per l’insperata e gratuita pubblicità al settore – per non sbagliare, il mio numero di piede è il 43 e mezzo!).


Val Marecchia · On the border
Ci andai da solo, quella volta, arrampicandomi per una desolata strada dell’alta Val Marecchia, fra montagne brulle, alla ricerca della dismessa miniera di zolfo di Perticara. Immaginavo di trovare, e fotografare, solo degli anonimi capannoni in rovina e qualche resto di macchinario arrugginito, e invece mi accolse una visione: troneggiante in mezzo a una radura c’era un traliccio, simile a quello che nei film di pionieri serve a pompare il petrolio; era semplicemente il montacarichi della miniera, ma mi sembrò di essere nel Far West, anzi on the border (qui siamo alle frontiere del mondo conosciuto, pensai). Lì accanto, i capannoni che mi aspettavo: uno in rovina, l’altro adibito, era scritto sulla porta chiusa, a saltuarie esposizioni. Quella prima impressione, accentuata dall’estrema solitudine del sito, non era poi tanto sbagliata. Siamo davvero ai confini delle Marche: la Val Marecchia è per metà Romagna e ancora Romagna è al di là dello spartiacque. Ci tornammo, qualche anno più tardi io e Ivana, era Pasqua e nel capannone ora aperto si poteva ammirare una mostra storica sulla miniera: attrezzi e tante belle foto. Uscì uno straordinario tramonto proprio contro il traliccio che ci indusse a restare lì per la notte, malgrado fossimo ormai soli, chiuso il capannone e partito il custode della mostra. Fu bello assaporare nuovamente quest’atmosfera di frontiera.Ci siamo tornati infine nel ’96, per singolare coincidenza di nuovo a Pasqua. Hanno restaurato il traliccio: un po’ troppo e quasi non sembra più lui, ma si erge sempre solitario nella radura; attorno, vecchi macchinari in bella mostra. La novità più interessante, comunque, è l’apertura di un vero museo: accanto alle foto e agli attrezzi già visti, i carrelli della miniera e la ricostruzione di un tratto delle gallerie. Tutto ben ordinato, ben segnalato e poi, proprio perché era Pasqua, tanti visitatori. Stavolta, vista anche l’ora, non siamo rimasti a dormire: ma forse era perché non ci sentivamo più on the border. In ogni caso, aria di frontiera o no, andateci: il museo di Perticara, testualmente dichiara il dépliant d’invito, “è riconosciuto come una delle più pregevoli strutture nazionali di documentazione della pratica mineraria”.


Valcarecce · Il mulino funziona ancora
Nel novero di reperti da scovare, in quella lontana ricerca sull’archeologia industriale delle Marche, i più ostici si rivelarono i mulini ad acqua, semplicemente per la loro “invisibilità”. Molti di essi, infatti, sono diventati abitazioni e solo l’occhio esperto, studiando il terreno attorno, può riconoscere il manufatto originario. Altri furono convertiti in piccole centrali elettriche, a loro volta dismesse con la nazionalizzazione dell’energia nel 1963, e questi sono più facili da individuare perché molto spesso le apparecchiature esterne non sono state rimosse. Altri infine, situati in posizione impervia, sono stati lasciati andare in malora: con l’acqua non più sotto controllo è bastata la prima alluvione o soltanto la piena di un torrente a sfasciare tutto.Fu pertanto una grandissima sorpresa imbatterci, sullo sterrato che da Apiro scende al Musone, nel mulino detto di Valcarecce dal nome della vicina frazione, riconoscibilissimo per la grande vasca che ci apparve dal tornante della strada, ma anche (incredibile!) dai sacchi di macinato appoggiati contro l’uscio aperto. Il mulino funzionava, e funzionava ad acqua! Ci sono tornato, stavolta con mia moglie, poco tempo fa; erano passati troppi anni e nessun sospetto che la chiusura di porte e finestre fosse dovuta al giorno festivo. «Vedi, questo è il mulino di cui ti parlavo, peccato che l’abbiano abbandonato». Chiesi conferma alla donna che stava uscendo dalla casa di fronte, e questa offesissima: «Come, abbandonato’». In quella si era fermata una macchina targata Pesaro. Dei curiosi come noi’ Macché. Sono entrati decisi nel manufatto prontamente aperto dalla donna di cui sopra: e noi dietro.
Bene, il mulino detto di Valcarecce funziona ancora, coi suoi vecchi macchinari (1863 è scritto su una tramoggia), l’immancabile immagine sacra bene in vista su una parete (nel caso specifico la Madonna Nera di Loreto), i sacchi ma soprattutto quell’odore di macinato che solo chi l’ha conosciuto può ricordare. Salvo sorprese dell’ultima ora (nessun impianto è più a rischio di questo, per ragioni economiche, fiscali e di sicurezza), può costituire punto di riferimento per una facile escursione (ora la strada è asfaltata) nonché per rifornirsi di farina macinata all’antica. Costa ovviamente un po’ di più che al supermarket, ma ne vale davvero la pena. Noi, per festeggiare l’evento, abbiamo comprato della farina da polenta che si è dimostrata ottima: parola di Ivana. Poco più avanti, ben visibile in amena posizione nel verde c’è un secondo mulino, detto della cava (per la cava di ghiaia che vi si contrappone). Questo è però dismesso da anni, e lo era anche all’atto della nostra precedente ricerca. Non era stavolta Pasqua il giorno della nostra strabiliante scoperta, ma l’aver visto risorgere dall’avello, in cui solo la nostra perduta fede l’aveva cacciato, un mulino ad acqua, perdipiù funzionante e non solo per gioco (o per didattica), ha compensato tutta la fatica delle nostre precedenti ricerche, rivelatesi il più delle volte un’inutile via crucis.


Ostra · Ricordi di guerra
Basta un qualsiasi pretesto per farmi tornare ad Ostra (questa volta, le nuove Cantine Aperte, una festa nella vicina Morro d’Alba), giusto per poi finire col camper davanti al santuario della Madonna della Rosa. Il piazzale isolato e tranquillo sotto i pini e in fondo a una discesa bordata da cespugli di rose (immaginare che spettacolo nella stagione giusta!) è già inserito nel Portolano di PleinAir, tante sono state le occasioni di segnalarlo come punto sosta pressoché perfetto. Ha una presa d’acqua (una banale cannella sostituisce la gloriosa pompa a mano che si azionava girando una ruota: se ne trovano ancora da queste parti, ma ahimè quasi tutte in disuso) e persino dei gabinetti pubblici, pulitissimi e aperti anche di notte. Ma non è la funzionalità del sito ad attrarmi. Ostra è il paesello della mia infanzia di sfollato. Nel cielo sopra i campanili del santuario vidi passare in formazione le “fortezze volanti”: chi ha sentito da bambino quel rombo tremendo, se lo porta dietro per tutta la vita. Continuando la strada oltre il piazzale non ho più ritrovato la casa colonica in cui mi portavano a giocare, semplicemente perché l’hanno rifatta come tutte le altre; Gianfranco, il mio compagno di allora, è finito chissà dove. In compenso dalla strada (pochi metri da fare a piedi) si gode una magnifica visione del paese, alto sulla collina di fronte.Su quegli spalti, posso permettermi di visitare il rifugio (per una volta autentica cantina trasformata in bar e praticabile tutto l’anno) in cui ci salvammo dai bombardamenti, ma solo per caso: quello che è un sotterraneo per chi sta in piazza, diventa un pianterreno con vista sulla valle per chi scende sulle mura. E gli alleati sparavano proprio da quella parte, mentre leggenda vuole che i tedeschi prendessero il sole protetti dall’edificio sotto cui noi facevamo da bersaglio. All’interno del santuario si venera la Madonna della Rosa. Anche a non essere credenti, si è quanto meno affascinati dalle penombre e dal silenzio del tempio, naturalmente se non ci sono cerimonie o arrivano i pellegrini: la foresteria (che prima non c’era), del cui piazzale abbiamo approfittato per defilarci dall’improbabile traffico notturno, la dice lunga su come in certe giornate possa essere sconvolta la pace di questo luogo. In tutti questi anni ho avuto la fortuna di non incontrare mai nessuno, nemmeno di domenica, per cui l’unica cerimonia che ricordo resta quella lontanissima di ringraziamento per lo scampato pericolo, dopo il passaggio del fronte. La Messa fu celebrata in una cappella laterale, illuminata dal primo sole che batteva sull’unica finestrella. Oggi vi si possono ammirare, tutt’intorno sulle pareti, interessanti e anche curiosi ex voto, e non solo riferiti ad eventi bellici. Si era di maggio, quella volta, come di maggio e giugno si ritorna (ma anche di settembre) per ritrovare le rose e il silenzio scoprendo, anche a non essere pellegrini della propria storia, uno degli aspetti migliori del nostro abitar viaggiando.


Apecchio · Fossili e tartufi
Di nuovo ai confini delle Marche, eccoci in quest’ultimo avamposto sulla statale 257, detta per l’appunto ‘Apecchiese’, che attraverso l’agevole valico di Bocca Serriola porta in Umbria, a Città di Castello. Apecchio, benché meno nota della vicina Acqualagna, rivendica il primato della produzione di tartufi, in specie del pregiato tartufo bianco, che esporta fino in Piemonte e di cui pare si facciano belli i mercati della zona. Siccome non è possibile seguire i percorsi di ogni singolo ricercatore, né porre barriere sui confini comunali, la polemica si basa su una semplice osservazione: se là c’è roccia e qui c’è bosco, anche un cane raffreddato sa dove puntare.
Neanche a farlo apposta, la Comunità Montana ha allestito una serie di percorsi che attraversano in lungo e in largo il territorio. Gli anelli (sono ben 11) intersecano il Sentiero Italia che su questi Appennini attraversa le Marche, nonché la viabilità ordinaria, dove ben visibile è la segnaletica ‘Trekking dei 5 Comuni’. Targhe riassuntive, con prospetti panoramici dell’intera zona, si trovano nelle aree di sosta (ci sono cinque camper service in un raggio di pochi chilometri) e in particolare in quella che il Comune di Apecchio ha realizzato in riva al fiume e sotto gli alberi, di fianco al bellissimo ponte a schiena d’asino (proprio qui verrà organizzato in autunno, e in corrispondenza della fiera del tartufo, un raduno di camper). Se la ricerca del preziosissimo tubero è meglio lasciarla agli esperti (risparmiando fra l’altro una figuraccia al cane che avete a bordo), nell’apprendere che il Monte Nerone è ricco di fossili per una storia geologica complessa e neppure troppo chiara (qui un tempo c’era il mare), armati di mazzetta e scalpello vi verrà voglia di far da soli, ma anche qui ci vuole l’occhio allenato per individuare il sito giusto. Meno faticoso sarà visitare il Museo dei Fossili e dei Minerali, allestito nei sotterranei di Palazzo Ubaldini, dove per prima cosa salta agli occhi una collezione di ammoniti unica per le dimensioni e il numero degli esemplari; peraltro l’ordine delle sale e la visita guidata (che vivamente raccomandiamo) permettono di ripercorrere la storia del nostro pianeta, rinfrescando le nozioni che, ad esclusione degli addetti ai lavori, tutti noi abbiamo lasciato sui banchi di scuola. Apecchio è l’ennesimo borgo ben conservato, nonostante i terremoti subiti nella sua storia (il più grave dei quali nel 1781). Il monumento principale è il succitato Palazzo Ubaldini, progettato come il coevo del Palazzo Ducale di Urbino dall’architetto Francesco di Giorgio Martini: ci colpiscono in particolare l’austero cortile porticato (le cui colonne sono andate tutte fuori squadra proprio a causa del terremoto di cui sopra) e la neviera, una camera sotterranea dalle pareti di incredibile spessore, utilizzata un tempo come ghiacciaia naturale. Ma quel che più ci affascina è il ponte a schiena d’asino, come i tanti che abbiamo incontrato nei nostri viaggi: l’acciottolato a gradini, benché restaurato, ci fa pensare ai nostri progenitori, viandanti e pellegrini, pastori e mercanti che affrontavano questo passaggio obbligato per scavalcare il Biscubio, spingendo animali e carri. Tutto qui sembra fermo nel tempo; ma poi, ridiscendendo la valle, ecco in cima a una collina spuntare un globo colorato: non sono atterrati i marziani, semplicemente uno spirito bizzarro ha voluto costruirsi il cosiddetto Mappamondo della Pace, di dimensioni tali da essere visitabile all’interno, e da entrare di diritto nel Guinness dei Primati.


Montecarotto · Quando arrivano i briganti?
Nel giorno dell’Epifania Montecarotto, uno dei “castelli di Jesi”, noto per la produzione e la qualità del Verdicchio, si sveglia al suono degli organetti: è la Pasquella. Ci siamo tornati, parcheggiando come al solito il camper nel viale alberato sotto gli spalti, giusto per fugare legittime perplessità. Questo canto di questua infatti, a differenza della Passione di Polverigi e del Cantamaggio di Morro d’Alba (manifestazioni evidentemente primaverili), si tiene in gennaio e inizia di buonora nelle campagne a temperature non certo ottimali per musici e cantori che, come si sa, sono perlopiù gente anziana (vedi anche PleinAir n. 269). Ma qualcuno ha risolto il problema andando a frugare nel baule della nonna (anzi del nonno).Così, nel terso mattino d’inverno, le stradine del borgo si popolano di individui intabarrati e con cappelli a tese larghe che vanno in gruppo e si fermano davanti alle porte delle case. In questo scenario fuori dal tempo, dove non possono entrare le automobili né comparire moderne insegne (i negozi sono tutti da un’altra parte), l’illusione è perfetta: siamo tornati a cent’anni fa, e solo l’assenza di armi (ove il trombone, se compare, non è lo schioppo di Frà Diavolo ma proprio lo strumento musicale) e il cesto delle offerte, perentoriamente mostrato a chi apre l’uscio o si affaccia alla finestra, tolgono la paura che si tratti di briganti.La tradizione ha trovato la sua uniforme, dal pupazzo di legno del Passatore che nelle fiere sembra far la guardia al camion delle piadine, alla sagoma pubblicitaria del noto porto di Oporto (inevitabile il gioco di parole), alle mille manifestazioni folkloristiche tenute d’inverno sull’arco alpino a cominciare dal Carnevale di Bagolino. Ma talvolta i travestimenti sono superflui per dare la misura dell’atmosfera che si respira in un piccolo centro, quale per l’appunto è Montecarotto, ove la tradizione convive nel quotidiano con le attività moderne. Basta affacciarsi dai resti del camminamento di ronda coperto che dà sulla piazza: gli uomini del paese che ciondolano nei vestiti della domenica, sogguardando appena quanto si svolge poco più in là, sembrano essere lì da sempre e, non ci fosse il distributore di benzina a imporre le sue insegne, si potrebbe scattare un bel falso in bianco e nero. Dopo il pranzo collettivo che l’amministrazione comunale offre ai vari gruppi, altra occasione di ritrovo e di festa ove passa quasi in secondo piano la rituale cerimonia di premiazione con targhe ricordo e omaggi (immancabile il cartone del buon vino locale), si ritorna per le strade: la notte arriva presto, il 6 gennaio, e l’inagibilità del teatro comunale ha dato paradossalmente un nuovo impulso alla manifestazione, che invece di finire imbalsamata su un palcoscenico può proseguire tra caldarroste e vin brulé attorno ai piccoli fuochi accesi nei rari slarghi del centro storico.


Belvedere Ostrense
C’è a Belvedere Ostrense, altro borgo fortificato a cavallo fra le valli dell’Esino e del Misa, il piccolo Museo dell’Immagine Postale. Non si tratta, come si potrebbe pensare, di una collezione filatelica: ci sono anche i francobolli, ma il tema dell’esposizione è un altro. Sapreste dire di che colore sono, cosa portano scritto, che disegno c’è sopra i veicoli di servizio delle Poste Italiane? Ancora (questo è più facile): come si individua da lontano l’ufficio postale? Probabilmente non ci avete mai pensato, visto che lo sportello dei versamenti è sempre quello sotto casa, l’uso del telefono ha ormai ridotto quasi a zero la corrispondenza, e comunque i francobolli si comprano dal tabaccaio: già, ma come si riconosce la cassetta delle lettere dal cestino dei rifiuti? Questo è facilissimo, è rossa: poi non guardate bene e vi trovate davanti quella di servizio chiusa a chiave e senza la buca per infilare la lettera (ma perché non le fanno di un colore diverso?). Tutto risolto, dunque, se si resta nell’ambito del territorio nazionale. Dopodiché uno va all’estero, cerca dove imbucare le cartoline per gli amici… e stavolta rosso è davvero il cestino dei rifiuti; crede di aver trovato l’ufficio postale perché c’è un’insegna che sembra la nostra, e invece sono i telefoni di stato. Così si impara a riconoscere e individuare un semplicissimo elemento chiamato logo: come per un qualsiasi prodotto commerciale, un disegnino azzeccato può rendere superfluo il nome sulla confezione o uno slogan, risparmiando persino i costi di una campagna pubblicitaria. E fra i nostri ricordi di viaggio ci sono anche le foto col colore dei colorati furgoni postali con il logo sulla fiancata, o dell’insegna che ora non confondiamo più tra le tante di una strada. Tutto questo è raccolto nelle poche stanze del museo: accanto a un manichino vestito da portalettere che ha ai suoi piedi dei sacchi di corrispondenza (qualcosa di “spettacolare” si deve pur mettere, se non altro per le scuole in visita) e alle bacheche di francobolli (con le serie emesse dai vari paesi), ecco in bell’ordine i logo di tutto il mondo, e ci si può divertire a constatare come la fantasia si sia sbizzarrita attorno a un unico elementare soggetto (le Poste siamo noi), immaginando peraltro quanti bozzetti saranno stati scartati per ognuno che è stato scelto. E per il turista distratto o che comunque non aveva pensato a fotografare il logo postale del paese visitato, ecco l’immagine dimenticata che da sola basta a rievocare un viaggio! Tutto ciò è stato realizzato in estrema semplicità, grazie al solito tenace collezionista che come sempre è alla base di queste iniziative. E, quanto a visitare il museo, in barba agli orari esposti siamo andati direttamente in Municipio, in un qualsiasi mattino feriale; qui hanno trovato le chiavi, e un addetto (un obiettore di coscienza aggregato al Comune) ci ha condotto nelle sale e detto due parole: un esempio per analoghe situazioni, ove è stato più facile allestire una struttura che renderla visitabile… Per concludere, la sosta. Non avevamo mai pernottato a Belvedere Ostrense: il breve viale sotto le mura è oggi pedonale, ma all’imbocco c’è una comoda e tranquilla piazzetta. La nostra insolita presenza è stata un diversivo per gli ospiti della prospiciente casa di riposo.


Loreto · Incontro fra i popoli
Loreto è a tutti nota quale importante riferimento e meta di pellegrinaggio per il popolo cristiano, ma tutti sembrano ricordare solo il grande santuario, ben visibile da lontano per la cupola del Sangallo e il campanile del Vanvitelli, quasi ignorando gli altri monumenti che ornano l’armonica piazza, dal Palazzo Apostolico progettato dal Bramante alla statua di Sisto V, alla seicentesca fontana ornata da aquile, draghi alati, putti, tritoni e delfini; per non parlare poi dei possenti bastioni sotto i quali, per una notte, non c’è problema a parcheggiare il camper. Ma quello che solo i locali conoscono, oltre agli appassionati e agli addetti ai lavori, è l’importante appuntamento che si rinnova ad ogni Pasqua. In data variabile, ma comunque nel mese di aprile, si svolge qui una rassegna internazionale di canto polifonico con la partecipazione delle cosiddette Cappelle Musicali. L’esibizione delle corali avviene principalmente nella basilica, ma anche nel Municipio, in teatro, e infine in piazza. Ed è proprio quest’ultimo momento che consigliamo ai nostri lettori. Se la suggestione del canto in chiesa, amplificato dalla perfetta acustica delle volte, rapisce anche chi non è introdotto in questo tipo di musica, il ritrovo del sabato mattina con i gruppi nel costume tradizionale del rispettivo paese è una vera festa anche per i fotografi. Il repertorio esibito è ora meno solenne, si assegnano targhe ricordo, e la folla riempie la piazza: dai nativi che non mancano mai, perché lo spettacolo è ogni volta diverso, ai turisti sorpresi dall’inatteso extra. E, alla fine, tutti insieme per la tradizionale foto ricordo sui gradini della grande fontana, in un simbolico gesto di fratellanza tra i popoli che val più di tanti inutili discorsi.

PleinAir 329 – dicembre 1999

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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