Marca gioiosa

Il fior fiore di Treviso si coglie nelle strade del centro, fra i monumenti che testimoniano una storia di prospera serenità. E naturalmente in tavola, per assaggiare il rosso radicchio che qui, più che un cibo, è quasi una religione.

Indice dell'itinerario

“…Trevigi è città posta in pianura, di situazione lieta, d’aria temperata e salubre, e abbondante di chiare, fresche e dolci acque” scrisse il geografo veneziano Salomon. Con i suoi rivoli stretti fra le case e i grandi salici che scendono a lambirli, i vecchi ponti e i palazzi affacciati sul Sile, Treviso ha tutto il fascino delle città d’acqua ma anche dei centri densi di storia e ricchi di opere d’arte. Il capoluogo della Marca è tra quelli d’Italia che presentano la maggior continuità di sviluppo nel corso dei millenni: numerosi reperti rinvenuti a Sant’Andrea e in Piazza dei Signori confermano l’esistenza di insediamenti umani fin dalla media età del Bronzo (a partire dal 1.600 a.C.).
Circa le origini del nome esistono varie ipotesi. Secondo alcuni storici deriverebbe dal termine celtico tarvos, toro, mentre per altri l’etimologia potrebbe risalire a tres vici, con riferimento alle tre alture sulle quali sorgevano dei villaggi. In epoca romana la città, benché eretta a municipium con il nome di Tarvisium, ebbe un ruolo secondario perché sorgeva in prossimità di altri centri strategici come Altino, Montebelluna e Asolo e per la lontananza dalla Postumia e dall’Annia, le grandi vie consolari che attraversavano questo territorio. Grazie alla sua ubicazione fu però risparmiata dalle invasioni barbariche, e con il dominio dei Goti e dei Longobardi divenne un fiorente ducato noto per le attività manifatturiere (in particolare concerie, cartiere e tintorie) evidentemente favorite dalla notevole presenza di rii e canali.
Per tutto il periodo carolingio Treviso fu sede di una delle più importanti zecche d’Italia: si cominciò a battere moneta intorno alla seconda metà dell’VIII secolo e si continuò fino alla seconda dominazione veneziana quando si coniò l’ultima moneta trevigiana, il bagattino. Nel 1164 gli ordinamenti comunali furono riconosciuti dall’imperatore Federico Barbarossa; la città visse un momento particolarmente prospero che le valse il nome di “Marca gioiosa et amorosa”, del quale numerosi ricordi si conservano nella letteratura medioevale.
Nel 1388 cedette spontaneamente alla Serenissima che le procurò un lungo e fecondo periodo di pace, durante il quale furono costruite le mura che ancora cingono il centro storico. L’arte e l’architettura ricevettero particolare impulso con la realizzazione di palazzi, chiese come quella di Sant’Agnese e splendide ville patrizie sul fiume Sile e nella campagna della provincia. Monumenti quali il Palazzo dei Trecento e la Loggia dei Cavalieri sono stati seriamente danneggiati nel corso delle due guerre mondiali, ma un attento restauro li ha fortunatamente restituiti all’antico splendore.
Le bellezze della città sono alla luce del sole, facili da scoprire in una passeggiata nelle vie del centro: dalle mura cinquecentesche agli edifici rinascimentali, dai barbacani alle abitazioni patrizie decorate con garbo e talora con magnificenza. Giovanni Comisso, il celebre scrittore e giornalista nato proprio a Treviso nel 1895 e qui scomparso nel 1969, così le descrive rievocando anche un altro genere di fascino: “…Quelle case con le vaghe facciate dipinte non avevano altro scopo che anticipare le belle donne che le abitavano e diffondere nelle strade la gaiezza del vedere, che è la sola consigliera dell’amore, in una città come Treviso che in quei secoli, dopo il Mille, doveva essere una metropoli dell’amore, se nella parlata del tempo, l’atto di amare veniva chiamato danza trevigiana…”.
Le graziose fanciulle ancora prosperano, e così gli affreschi che impreziosiscono gli interni dei palazzi pubblici e delle chiese come pure gli esterni di molte abitazioni in Via Tolpada o in Via Palestro. I motivi più rappresentati sono episodi leggendari, putti grassottelli, cavalieri che affrontano animali fantastici o semplici geometrie. Straordinari i dipinti della sala del Capitolo dei Domenicani, realizzati nel 1352 da Tommaso da Modena: raffigurano quaranta prelati, intenti alle loro occupazioni quotidiane, tra i quali si distingue Ugo di Provenza impegnato nella lettura di un testo sacro. La curiosità è che il cardinale indossa degli occhiali, e si tratterebbe della più antica immagine di quest’oggetto riprodotta in un’opera pittorica.Alcune tele custodite nella pinacoteca del Museo Civico offrono invece uno spaccato di come si presentavano la città e la campagna nei secoli scorsi. Bernardino Bisson ritrae le Beccherie viste dal Portico dei Soffioni, Barbisan il canale dei Buranelli con le donne al lavatoio. Nino Springolo, con Il Sile alla Fiera, ci riporta agli anni in cui il fiume era un’importante via di collegamento: da qui partivano i burci, quei robusti barconi ai quali era affidato il trasporto delle merci da e per la laguna di Venezia.
Prima di arrivare alla fiera il fiume lambisce alcune ville, le mura, gli eleganti palazzi della Riviera Santa Margherita e Ponte Dante nei pressi del quale riceve le acque del Cagnan di dantesca memoria ( e dove Sile e Cagnan s’accompagna , Paradiso, IX, 49). Con i suoi bracci il Cagnan s’insinua nel cuore della città, creando scenari squisitamente veneziani in terraferma: il canale dei Buranelli e l’isola della Pescheria, ristrutturata di recente. Qui si può acquistare pesce freschissimo – anche di fiume – come la bisata (ovvero l’anguilla), ingrediente principe di molti piatti tradizionali.

Di cotte e di crude
Durante l’inverno, sulle tavole dei veneti, il radicchio la fa da padrone. Il fiore che si mangia , a cui il capoluogo della Marca dedica persino una mostra, è prodotto in numerose varietà soprattutto nella parte centro-meridionale della regione: il Rosso di Treviso Precoce, il Tardivo (quest’ultimo, qualificato dal marchio IGP, è il più pregiato e il più costoso con un raccolto di circa 6.000 tonnellate all’anno in un’area compresa fra le province di Treviso, Padova e Venezia) e ancora il Variegato di Castelfranco, il Rosso di Chioggia, il Rosso di Verona. Questa singolare cicoria presenta foglie lanceolate di colore bianco con bordi rossi; dopo le prime gelate il radicchio viene raccolto, riunito in mazzi, posto con le radici in acqua corrente di risorgiva e qui, tenuto al riparo dal gelo, riprende a germogliare. Dopo circa 20 giorni viene privato delle radici e delle foglie esterne, e così il cuore è pronto per essere consumato. Da quasi un secolo, nel weekend che precede il Natale i contadini s’incontrano in Piazza dei Signori per esibire le migliori varietà. Crudo con un filo d’olio e una spruzzata d’aceto, cotto alla griglia o passato in padella, il radicchio trevigiano è sempre delizioso, specie se accompagnato da un buon bicchiere di vino.
Per apprezzare l’anima conviviale dei trevigiani bisogna entrare in un’osteria, dove la gente s’incontra per ciacolar davanti a un’ombra di vino. Si beve volentieri soprattutto il prosecco, l’allegro vino dal colore giallo topazio prodotto sulle colline di Conegliano e Valdobbiadene, a cui si affiancano fantasiosi assaggini chiamati sbecotìn: cicale di mare bollite, baccalà mantecato, fondi di carciofi passati in padella, uova sode tagliate a metà e condite con sale, pepe e acciuga. Chi ama i sapori più robusti potrà scegliere un panino con la porchetta o un quadratino di polenta abbrustolita con sopra una bella fetta di soppressa nostrana, un grosso salame ottenuto con carne di maiale scelta. Si chiacchiera davanti a un buon calice, come pure in Calmaggiore (il cardo maximus dei Romani) o all’ombra della Torre Civica, in Piazza dei Signori. E’ qui che il cuore della Bella Contrada del Petrarca pulsa di vita a tutte le ore del giorno ma soprattutto dopo il tramonto, quando si trasforma nel piacevolissimo salotto di una Treviso che racconta a ogni angolo le sue grandi e piccole storie.

PleinAir 403 – febbraio 2006

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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