Manuale di zoologia fantastica

Quattro adulti, quattro ragazzi, due accompagnatori e un cuoco, in tenda e fuoristrada nelle aree protette della Tanzania. Un viaggio organizzato - ma all'insegna del fai da te - per cercare i luoghi, le situazioni e soprattutto gli animali simbolo della natura africana.

Indice dell'itinerario

L’Africa contagia con il suo male proverbiale, incanta come le sirene di Ulisse: dopo i grandi parchi meridionali, che abbiamo visitato in anni passati, ci prende il desiderio di aggiungere alla nostra collezione quelli della fascia orientale. Alle ben note aree protette di Serengeti e Ngorongoro, che visitammo nel 1989 dopo un pionieristico tour del Kenya a bordo di una piccola vettura a noleggio, abbiamo voluto aggiungere le riserve di Selous, Ruaha e Udzungwa, situate nel sud della Tanzania e meno conosciute dal turismo internazionale: tanto per dare un’idea, mentre ogni anno un milione e mezzo di turisti visitano il parco Kruger in Sudafrica e 120.000 il Serengeti, meno di 6.000 sono le presenze a Selous, che ha una superficie complessiva pari a quella della Svizzera. Oggi molte cose sono cambiate, sia per noi che per la Tanzania. La famiglia si è ingrandita, un’altra si è aggregata (quattro adulti e quattro ragazzi adolescenti rappresentano un numero perfetto per questo tipo di viaggi, con il giusto livello di compagnia senza l’effetto comitiva), il noleggio di auto senza conducente non è facile come nell’Africa meridionale, il tempo scarseggia, c’è qualche soldo in più ma non troppo… Dopo qualche riflessione abbiamo optato per un tour organizzato su misura da una compagnia locale, e non ci siamo pentiti: due fuoristrada muscolosi e affidabili (le mitiche Toyota HZJ78, il meglio del meglio per gli overlander), due autisti-guide competenti e simpatici, un cuoco straordinario (che non è scorporabile dal pacchetto, ma ne vale la pena). Per risparmiare e per godersi a fondo gli ambienti naturali si dormirà in tenda nei parchi e in pensioni dignitose durante i trasferimenti: il tutto organizzato con Barbara della Safarimakers, una piccola agenzia di Arusha, attraverso una serrata corrispondenza via posta elettronica. L’esperienza, diciamolo subito, è stata molto positiva: i nostri accompagnatori, cordiali ed espansivi come solo gli africani sanno essere, ci hanno fatto conoscere la realtà locale e hanno saputo scovare tutti gli animali del nostro catalogo mentale, cose che non sarebbero state possibili con un viaggio diversamente organizzato.

A zonzo nei parchi
La città di Arusha, alle pendici del Kilimanjaro, è il campo base di tutti i safari tanzaniani. Situata nel baricentro del continente, come ricorda la torre dell’orologio nella rotatoria al centro del nucleo urbano, ospita numerose agenzie ed è raggiungibile dall’Europa con voli diretti per il Kilimanjaro International Airport oppure attraverso Nairobi (alcune ore di autobus, prenotato dall’agenzia stessa): è solo una questione di costi e di posti disponibili sui vettori.
Ngorongoro, Serengeti e Tarangire sono i parchi toccati dal tradizionale giro turistico – altrimenti noto come “circuito nord , circa 1.500 chilometri – che non vogliamo comunque perdere perché comprende patrimoni naturali inestimabili.
Il cratere di Ngorongoro è il risultato del crollo dell’enorme caldera di un antico vulcano. Il bordo di questa grande padella è attorno ai 2.200 metri di quota mentre il fondo piatto, 400 metri più in basso, è un microcosmo in miniatura, con il lago, la prateria, il boschetto, un microclima speciale e tutta l’arca di Noè degli animali africani: un vero santuario per gli animalisti, che effettuano il loro pellegrinaggio all’alba e al tramonto, religiosamente eretti sui propri fuoristrada. La vista di questo eden dal ciglio superiore del cratere è emozionante, il campeggio poco distante è invece affollatissimo e gelido. Due tettoie ospitano le strutture logistiche: una trentina di gruppi in refettorio, una trentina di cuochi in cucina, una trentina di automezzi parcheggiati ai bordi della tendopoli. —- All’alba, la cosmopolita comunità si sveglia con la giacca a vento in un nebbioso paesaggio alpino, alla faccia dei luoghi comuni sul caldo africano. Poco lontano, la gola di Olduvai, depressione inclusa nella Rift Valley, è definita dalle guide la culla dell’umanità perché vi si sono trovati importanti resti di australopitechi e impronte fossili risalenti a quasi quattro milioni di anni fa. Un piccolo e interessante museo accoglie i reperti ed è l’occasione di una sosta ristoratrice sul bordo del burrone.
Il parco nazionale Serengeti, seconda tappa del circuito, è famoso per la migrazione degli gnu e per aver ispirato il Re Leone di disneyana memoria. La cosiddetta grande migrazione si svolge su un lungo percorso circolare che segue la disponibilità di acqua e di pascoli sconfinando in Kenya: ma i tempi sono scanditi dalle stagioni e purtroppo la nostra presenza non è sincronizzata con questo calendario cosmico. King, la nostra guida, si muove come un esperto cacciatore e, anche con il supporto della radio, trova gli animali in base alle nostre richieste: un leopardo che dorme sull’albero, una famiglia di ghepardi, una leonessa con i cuccioli, una colonia di ippopotami immersa nel proprio brodo. Nel frattempo, al campo, il cuoco Jumaa prepara manicaretti impensabili utilizzando un’attrezzatura rudimentale.
Il percorso di ritorno verso il parco Tarangire e Arusha passa dal lago Natron, una vasta distesa di acqua e soda nella Rift Valley. Basta uscire dai confini del parco e compaiono i villaggi di paglia e fango, le mandrie di mucche, i greggi di pecore, i pastori masai vestiti di rosso. Arrivati al lago, si cammina sulle sue croste di sale, prima nere, poi bianche, poi rosse: quando cedono sotto i piedi ne esce un’acqua che sembra sangue. Sullo sfondo, la sagoma conica e fumante del vulcano Oldoinyo Lengai, alto 2.875 metri e il cui nome in lingua masai significa monte di Dio. Nella zona ci sono anche delle cascate di acqua tiepida, che consentono una spettacolare doccia. Il circuito nord si conclude tra i baobab e gli uccelli del parco Tarangire, nelle vicinanze di Arusha.
Il secondo anello, ovvero il più impegnativo circuito sud lungo circa 3.200 chilometri, ci porta nella Tanzania meridionale. La lunga galoppata su asfalto fino a Morogoro prende l’intera giornata, con vedute ravvicinate del Kilimanjaro, coltivazioni infinite di sisal, collinette vulcaniche coperte di strana vegetazione. Da Morogoro a Ruaha serve un altro giorno, costeggiando il fiume omonimo sulla strada che porta in Zambia. Gli ultimi 100 chilometri sono su una pista polverosa, con villaggi di lamiera e terra, ciclisti solitari, bambini chiassosi.
L’ingresso del parco nazionale Ruaha marca il cambiamento di paesaggio e di atmosfera: un placido fiume, qualche baobab, qualche palma, il sole del tramonto, ippopotami, coccodrilli, cervi d’acqua. L’area protetta è immensa ma tutto si svolge lungo il fiume, che costeggiamo per due giorni alla ricerca degli animali. L’ultima sera ci imbattiamo in un gruppo di leoni acquattati che osservano di nascosto una mandria di bufali, aspettando il momento migliore per l’attacco: un gruppo di anziani e facoltosi turisti (probabilmente ex leoni della finanza!) osserva gli osservatori, con altrettanta pazienza in una curiosa catena di osservazioni reciproche dove ognuno, immobile, guarda la sua preda.
Il giorno dopo, uscendo da Ruaha, cerchiamo i ricordi del grande capo Mkwawa degli Hehe, che alla fine dell’800 mise in seria difficoltà i disegni coloniali tedeschi in Africa orientale. Oggi Mkwawa è visto dai tanzaniani come un eroe nazionale, una specie di Garibaldi: famosa è la vicenda della sua testa, che finì in un museo tedesco nel 1899 e venne restituita alla Tanzania solo nel 1955. Il teschio di Mkwawa è conservato nel piccolo museo di Kalenga, mentre la tomba monumentale sul luogo della sua ultima e fatale battaglia si raggiunge con una pista quasi invisibile che scatena le abilità fuoristradistiche degli autisti. —- Il parco nazionale dei monti Udzungwa, seconda tappa del circuito meridionale, è un parco di montagna, ai margini di un territorio ricco di acqua e coltivato a canna da zucchero. E’ la giornata dedicata all’escursione a piedi e, dato che siamo in una foresta pluviale, piove. Si sale il pendio come dei vietcong attraverso una foresta lussureggiante; i torrenti si passano a guado, con l’acqua sopra il ginocchio, togliendosi le scarpe e sperando in bene. La meta è il punto superiore della cascata di Sanje, che con un salto di circa 200 metri precipita verso la pianura sottostante. Il parco offre anche altre possibilità per gli amanti del trekking, con itinerari più impegnativi (fino a sei giorni) da percorrere obbligatoriamente con la guida.

Selous Game Reserve
è un’immensa riserva di caccia creata nel 1896 per ordine del Kaiser Guglielmo II e si estende su quasi 50.000 chilometri quadrati nel bacino del Rufiji, il fiume più importante della Tanzania. Solo una piccola parte della riserva, sul lato nord del corso d’acqua, è aperta al turismo non venatorio; la maggior parte del territorio è invece data in concessione per battute di caccia controllate che, per quanto esecrabili, costituiscono l’80% dei redditi dell’area protetta e contribuiscono a limitare il fenomeno del bracconaggio (che in passato ha funestato la zona, decimando specie protette come il rinoceronte). L’accesso via terra prevede diverse ore di strada sterrata attraverso i monti Uluguru, rilievi conici con singolari formazioni di gneiss. Si passa veloci tra casette variopinte, galline con pulcini, ciclisti che usano la bici come un carretto (ritornano alla mente i tre movimenti della rivoluzione cinese, bicicletta, macchina da cucire e orologio, anche se qui l’orologio è sostituito dall’ubiquitario telefono cellulare). All’ingresso est della riserva passato e presente si confrontano: una vecchia macchina a vapore tedesca rievoca memorie coloniali dure e difficili, mentre una piccola pista in terra battuta consente l’atterraggio dei piccoli aerei dei nuovi esploratori, turisti danarosi diretti ai favolosi lodge nascosti lungo il fiume. Noi ci accontentiamo di un più modesto campeggio, con rudimentali servizi igienici nascosti tra i cespugli, e nonostante la rusticità della sistemazione il bravo Jumaa continua a sfornare menù sempre più sorprendenti.
Gli animali presenti a Selous hanno un comportamento più sfuggente, perché hanno conservato l’originale diffidenza verso l’uomo. Questo non impedisce però di incontrare, sul bordo del labirinto di laghi che caratterizza il parco, numerose colonie di leoni complete di cuccioli, gruppi di licaoni, elefanti, coccodrilli. Le viste sono così ravvicinate da non richiedere l’uso dei teleobiettivi e da consentire veri e propri esami ortodontici ai coccodrilli. Le guide stampate raccontano di 4.000 leoni, 60.000 elefanti, 40.000 ippopotami, 150.000 bufali, la maggior parte dei quali residente nella zona chiusa al turismo: con questi e molti altri si arriva a un milione di animali, che ripristinano con l’uomo un rapporto numerico da Età della Pietra.
Tra le lagune di Selous si chiude la parte cruciale del viaggio: ora non ci rimane che il lungo trasferimento di ritorno ad Arusha, occasione per ripensare alla vita semplice e intensa di queste tre settimane e per organizzare i ricordi di un altro meraviglioso pezzo di Continente Nero.

PleinAir 427 – febbraio 2008

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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