Madonne di gesso

Grazie di Curtatone, piccolo borgo fluviale sul Mincio, ospita ogni anno a Ferragosto un raduno internazionale di madonnari, i pittori da strada maestri del gessetto.

Indice dell'itinerario

Dal 1973, anno del primo raduno, i madonnari arrivano da tutto il mondo: Stati Uniti, Ecuador, Spagna, Germania e via dicendo. Pochissimi i maestri, pochi i qualificati, la maggior parte madonnari semplici.
Guardandoli lavorare sembrano padroni solo di sé stessi, silenziosi, immersi in mille piccole solitudini. In realtà interpretano nel modo migliore il senso profondo del raduno. Il loro incontro multietnico è un messaggio di solidarietà, pace e coraggio e anche un invito ideale alla tutela e alla conservazione di quest’antica forma d’arte, sacra e popolare insieme.
Alcuni anni fa, ne arrivò un nutrito gruppo dalla California. Per questi artisti d’oltreoceano mostrare una fotografia che li ritrae al lavoro davanti al santuario di Grazie è segno di prestigio e spesso un notevole lasciapassare professionale.
Tutti i madonnari, italiani e stranieri, incominciano a realizzare i loro capolavori sul far della sera del 14 agosto, subito dopo che il vescovo di Mantova, Monsignor Egidio Caporello, ha effettuato la rituale benedizione dei gessetti.
Un po’ di anni fa, nel giugno del 1991, venne in visita al santuario niente meno che Papa Giovanni Paolo II, il quale addirittura si inginocchiò e tracciò sul selciato dei piccoli segni grafici che oggi fanno parte del logo del Centro Italiani Madonnari.
Dopo la benedizione, quando il sole è tramontato e il caldo si fa più tollerabile, i madonnari incominciano a lavorare nel quadrato loro assegnato e chi ce la fa tira diritto per tutta la notte, alla luce dei fari, uno di fianco all’altro in file parallelle.
Per Nedo Consoli, presidente dell’Associazione Madonnari d’Italia, è una vista che apre il cuore. Loro del resto sono artisti che vengono a dare spettacolo di pittura, e vanno ammirati mentre lavorano.
Davanti a tutto c’è lo splendido colonnato del santuario, che ha anche un bellissimo chiostro con un pozzo al centro e, all’interno, la sacra immagine della Madonna delle Grazie realizzata dalla mano di un ignoto artista del Quattrocento, forse della bottega del Mantegna.
Ma la storia del santuario, della fede che lo circonda e dell’affollata Fiera delle Grazie, che si svolge anch’essa a metà agosto, si perdono nelle nebbie del passato.
Tanto tempo fa, proprio qui sulle rive del Mincio, non lontano da Mantova, tra canne palustri e inestricabili canali c’era un rudimentale tempietto con dentro l’immagine della Vergine.
Chi abitava nel vicino, piccolo borgo, perlopiù boscaioli e pescatori, veniva spesso ad adorare la sacra effigie, a chiedere qualche grazia, e a volte la Madonna li esaudiva. Così loro, per ringraziare, ritornavano ogni volta a pregare e a offrire ex voto. La fama della Madonna del Mincio che faceva miracoli tra voli d’uccelli e guizzi di pesci, valicò ben presto quei piccoli confini. Così incominciarono ad arrivare anche mercanti, nobili, persino principi e sovrani.
Uno di loro, Francesco Gonzaga, per scongiurare l’incubo della peste, era il 1399, fece addirittura il voto di innalzare un sontuoso tempio. E già nel 1406 l’edificio disegnato dal famoso architetto Bartolomeo da Novara era pronto per stupire.
Vi si insediò un’operosa e devota comunità di francescani, mentre sul grande piazzale del santuario, di pari passo con l’affluire dei pellegrini, crebbe a dismisurta una fitta, brulicante attività di commercianti, girovaghi e avventurieri.
Era un caos, tanto che l’11 agosto 1425 il marchese Gianfrancesco Gonzaga istituì il libero mercato delle merci di Grazie, pubblicando la prima grida che regolamentava i traffici. Per esempio stabiliva la distanza della fiera dal santuario, il tipo di merce che si poteva esporre e il relativo prezzo.
Oggi come allora, davanti al tempio, nel cuore dell’infuocata estate mantovana, il sacro e il profano s’incontrano: i madonnari coi gessetti da una parte, la festa con le bancherelle dall’altra.
Come dicono quelli del Gruppo Artistico il Castello, i madonnari sono gli eredi dei pittori di icone bizantine del tardo Medioevo, quei personaggi sempre al verde ma pieni di estro che adoperavano i colori ricavati da terre e pigmenti naturali, senza collante, per riprodurre le opere dei grandi maestri del rinascimento, esponendoli alla vista degli uomini di tutte le categorie sociali. Uno di questi bazzicava Venezia intorno al 1500, si chiamava Domenico Theotokópulos, ma tutti lo chiamavano El Greco (!).
La loro era una sorta di inconsapevole missione spirituale che purificava e istruiva di porta un porta, di villaggio in villaggio. I madonnari del nuovo secolo, quelli doc (ma sono ormai sempre più rari: lo scorso anno al raduno di Grazie ce n’erano appena tre su cento), sono “cantastorie di strada” e come i girovaghi di un tempo vivono delle offerte dei passanti. Perciò sono spesso visti come accattoni senza meta da guardare con sospetto. Solo da poco sono stati tolti dal ghetto dell’emarginazione grazie ad alcuni interventi del Ministero dei Beni Culturali. Sono diventati artisti con una dignità professionale, ma resta ancora molto da fare.
In ogni caso, se andrete al raduno di Grazie, ne vedrete un gran bell’assortimento. E’ anche il modo di entrare in un’altra dimensione. Girando intorno ai madonnari ci si accorge presto che il mondo visto dal basso ha proprio tutta un’altra prospettiva.
Vi capiterà di veder spuntare dal cemento un’icona mariana dell’ottavo secolo, una Madonna del Perugino in una magica atmosfera virginale, la mano protesa della Madonna di Raffaello o qualche Vergine del Settecento liberamente interpretata.
Il tema del raduno, l’iconografia cristiana, è rigidamente stabilito fin dalle origini: non è mai cambiato. E i madonnari di ogni latitudine, anche se di diversa religione, si adattano sempre alla regola. Realizzano opere di soggetto sacro o devozionale, riproducono con maestria i capolavori del passato o traggono ispirazione dalla Bibbia, dal Vecchio o dal Nuovo Testamento.
L’importante è stupire, lasciare su piazze e marciapiedi una effimera ma gradevole impronta che attiri l’attenzione e desti meraviglia, prima di dissolversi nel nulla.

PleinAir 360/361 – luglio/agosto 2002

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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