Lonely world

Nel bel mezzo del Nevada fra cittadine minerarie e incisioni rupestri lasciate dai pellerossa, gite nel deserto a bordo di treni d'epoca e fossili di rettili preistorici. E' la Interstate 50, la strada più solitaria d'America.

Indice dell'itinerario

Dove inizia la strada più solitaria d’America? Sembra ridicolo porre questa domanda a chi percorre al volante i deserti tra il Nevada e lo Utah dove si susseguono rettilinei lunghi 10 o 20 miglia, i camion in viaggio si vedono un quarto d’ora prima di incrociarli, le insegne dei distributori e dei motel ammiccano da distanze che sembrano infinite. Anche le nuvole che vagano in cielo, le rare vacche al pascolo, le antilopi che fuggono quando un’auto si avvicina suggeriscono che qui la solitudine è la regola.
Ma la strada più solitaria di tutte esiste, ed è certificata da pubblicazioni e cartelli. Fu il settimanale Life, nel 1986, a far entrare nel mito la Interstate 50, che taglia da est a ovest il Nevada costeggiando le montagne del Great Basin. Secondo l’autore questa era la Loneliest Road, la strada più solitaria d’America : nell’articolo si spiegava come lungo il tracciato non ci fosse nulla da vedere o quasi, e come i conducenti dovessero avere capacità di sopravvivenza per affrontarla.
Ma in America guidare per ore non ha mai spaventato nessuno, e sulla Interstate 50 i motivi di interesse non mancano affatto. Sul percorso s’incontrano ad esempio uno splendido museo ferroviario, straordinari paesaggi rocciosi e la più bella duna di sabbia bianca degli States, la città mineraria ottocentesca di Eureka con i suoi edifici storici e i suoi commoventi cimiteri, i petroglifi tracciati dai pellerossa sulle rocce di Hickison Pass e Grimes Point. Con brevi deviazioni si raggiungono la miniera abbandonata di Berlin ottimamente restaurata dai Nevada State Parks, il vicino giacimento che ha restituito decine di scheletri di ittiosauri, gli acquitrini di Fallon dove sostano uccelli rari di ogni tipo, senza dimenticare il parco nazionale del Great Basin dove si può visitare con i ranger la calcarea Lehman Cave, e dove il Wheeler Peak veglia su desolate morene, su un piccolo ghiacciaio e sui bristlecone pines, alberi più vecchi delle sequoie che superano in qualche caso i 4.000 anni di età. Poco dopo la fine della Loneliest Road c’è Carson City, la tranquilla capitale del Nevada, con gli edifici ottocenteschi del Capitol (il Campidoglio, cioè il palazzo del Governo) e del Parlamento dello Stato, che ha provveduto a restaurare e valorizzare le sue splendide case in legno del XIX secolo, mentre librerie e sale da tè contrastano con il traffico, le sale da gioco e quelle per i matrimoni lampo, la folla di Las Vegas e della vicinissima Reno.
Il viaggio verso la Loneliest Road inizia dal cuore dello Utah. Chi arriva da Salt Lake City deve dirigersi per un’ora o poco più verso sud, poi piegare verso i campi irrigati di Delta e il deserto. Chi arriva da sud, e quindi dai parchi di Zion e di Bryce, deve dirigersi a nord e poi piegare verso ovest. Le strade che tagliano il deserto sono poche, sbagliarsi è pressoché impossibile.«Life ci ha provocato e noi abbiamo accettato la sfida, iniziando a proporre la Loneliest Road come un’attrazione turistica» spiega Ferrel Hansen, ex direttore della camera di commercio della Contea di White Pine, con sede a Ely. Chi vuole può ritirare una tessera, farsela timbrare durante il viaggio, ottenere alla fine un diploma. Non si tratta di un itinerario celebre come la Route 66 o la Interstate 1 che segue la costa dell’Atlantico dalle Keys della Florida alle nebbiose foreste di abeti del Maine: pian piano, però, l’arteria che taglia al centro il Nevada è diventata fra le più ambite degli States.
Il benvenuto arriva al confine del Nevada, 88 miglia dopo Delta. La linea retta che separa lo Utah dei Mormoni dal Nevada delle slot machine taglia la strada proprio davanti alla Border Inn, un’area di servizio che merita il suo nome dato che l’invisibile frontiera divide il piazzale e le costruzioni. Dal lato dello Utah ci sono la pompa di benzina (che lì costa meno) e il motel, da quello del Nevada il bar, il ristorante e la grande insegna luminosa, che nella notte del deserto appare da decine di chilometri di distanza.
«Tutto è iniziato nel 1953 quando il primo proprietario ha comprato un pezzo di terreno accanto alla Interstate, che allora era sterrata, e ci ha piazzato una pompa di benzina e una baracca adibita a motel. Io sono arrivata nel ’77, subito dopo l’asfalto» ricorda Denys Koyle, titolare del Border Inn, che ha trasformato la prima stazione di servizio della zona in un monumento molto amato dagli automobilisti di passaggio. Colta e sorridente, Denys approfitta del visitatore italiano per lanciarsi in una conversazione su Primo Levi, racconta dei vaccari che vivono chissà dove nel deserto e arrivano una volta alla settimana a riempire di carburante le taniche e di birra la pancia, parla con passione della luce, dei silenzi, del vento e poi, con una fragorosa risata, racconta del sindaco di Ely, mormone, che ha posto il veto a una mozione per la chiusura dei bordelli proposta all’unanimità dal consiglio comunale.
Appena imboccata la Loneliest Road è già ora di lasciarla per puntare verso Baker e il Great Basin National Park, una delle gemme nascoste della natura del West. Il villaggio, mettendo insieme il Visitors’ Center del parco, il negozio di alimentari e il caffè, i due motel (rispettivamente tre e sei stanze), il distributore e l’ufficio postale, ospita una quarantina di anime. Prima di arrivare, in una piana sferzata dal vento, meritano una passeggiata i resti di un villaggio indiano di otto secoli, scavato dagli archeologi fra il 1991 e il 1994.
Una buona strada nella steppa si alza di quota, passa a poca distanza dalla carcassa arrugginita di un’auto al cui interno è stato sistemato lo scheletro di un cavallo, entra nel parco, lascia a sinistra le Lehman Caves e continua a salire a larghe svolte. Un belvedere e un nuovo tratto a mezza costa portano ai posteggi ai piedi del Wheeler Peak. I buoni camminatori da qui possono affrontare il faticoso sentiero (un migliaio di metri di dislivello, almeno tre ore di salita) che si alza a svolte e poi per un sassoso crinale verso i 3.982 metri della cima più elevata del parco, dove è possibile avvistare un’aquila dorata in volo o un piccolo branco di capre bighorn al pascolo.
Un percorso più comodo conduce in un’ora di cammino al Brown Lake e alle dorsali sassose dove compaiono all’improvviso i tronchi contorti dei bristlecone pines. Fino agli alberi più belli, tra andata e ritorno, si procede per un’ora e mezzo o poco più. Proseguendo in un desolato vallone si arriva all’unico ghiacciaio del Nevada, ai piedi delle friabili pareti del Wheeler Peak. Solide, levigate e luminose sono invece le stalattiti e le stalagmiti delle Lehman Caves, le grotte calcaree scoperte da un ex minatore nel 1885 che sono la più nota attrazione del parco.
Lasciato il Great Basin, la Loneliest Road merita ancora meglio il suo nome. Un centinaio di chilometri di saliscendi portano alla cittadina di Ely, dove il Nevada Northern Railroad Museum permette ogni giorno ai visitatori di provare i vecchi convogli ferroviari trainati da motrici a vapore o diesel con una gita nel deserto. Più avanti, accanto alla Interstate 50, iniziano a comparire la pista e i resti delle stazioni di posta del Pony Express, il più celebre servizio di fattorini della storia, i cui cavalieri trasportavano in dieci giorni, per 1.800 chilometri, le lettere spedite dal capolinea di Saint Joseph, in Missouri, fino a Sacramento, in California.
Provoca qualche brivido da film western l’apparizione, al margine della strada, di cartelli che offrono 1.000 dollari di taglia a chi denuncia ladri di bestiame o bracconieri, o che vietano l’autostop perché c’è un penitenziario nei pressi. Tra le coppie di pensionati in camper, i camionisti di lungo corso, i californiani e gli inglesi che seguono la Interstate 50 in bicicletta non vediamo ceffi con l’aria di ergastolani evasi, ma forse sanno nascondersi bene.A Eureka, il filone di piombo e argento scoperto nel 1864 (il nome è proprio il greco ho trovato! ) fece crescere la città fino a 10.000 abitanti, ma con l’esaurimento delle miniere si chiuse bottega già nel 1891. La deliziosa Opera House, tutta stucchi, è stata restaurata e oggi accoglie spettacoli e feste: sui muri spiccano le foto autografate delle non-celebrità che si sono esibite negli ultimi anni, da Eddie Rabbit a David John and The Comstock Cowboys. Un quarto d’ora a piedi oltre la redazione del giornale (The Sentinel, stampato dal 1870) oggi adibita a ufficio turistico e museo porta alla collina dove si affiancano i quattro cimiteri di Eureka: in quello cattolico, tra croci e angeli di marmo, spiccano tombe di famiglie spagnole come gli Etchegaray e gli Estella, e quelle degli italianissimi Vaccaro, Gibellini, Borgna e Bonetti.
Altre desolate conche separate da alte montagne sassose conducono ai petroglifi tracciati dagli indiani diecimila anni fa sulle rocce di Hickison Pass e di Grimes Point. Più avanti si incontra la cittadina di Austin, poi il bivio per le miniere restaurate di Berlin e lo straordinario lastrone roccioso su cui spiccano gli scheletri fossili di una ventina di ittiosauri.
Nel cimitero di Dayton, quasi al termine della strada, merita una sosta la lapide di un certo James Fennimore, vissuto dal 1810 al 1865. Vi si può leggere che una notte, mentre era ubriaco fradicio, fu portato per scherzo al cimitero e sepolto in una tomba poco profonda: al risveglio si alzò, si guardò intorno e gridò è la mattina della resurrezione, e sono il primo in piedi! . La seconda volta, lascia immaginare la lapide, fu quella definitiva.
Chi ama davvero la natura non dovrebbe avvicinarsi all’imponente Sand Mountain, la più grande duna di sabbia bianca del Nevada, che si affianca alla Loneliest Road una ventina di miglia a est di Fallon, nei pressi di una stazione in rovina del Pony Express e di un bordello in abbandono. Perfetta quando la si vede dalla Interstate (il telefono pubblico sul bivio è stato ovviamente soprannominato “the Loneliest Phone in America”), la duna si rivela percorsa, man mano che ci si avvicina, da una miriade di rumorosi ATV, i piccoli fuoristrada monoposto che scorrazzano su e giù dal sorgere del sole al tramonto. Ragazzi arrivati da tutto il West si sfidano in gare lungo i pendii più ripidi, tra il rombo dei motori e gli schizzi di sabbia che si alzano dalle ruote. Ai piedi delle dune sono posteggiati camper, furgoni che vendono materiale, noleggi che permettono di provare il brivido per 100 dollari ogni venti minuti. Per non ritrovarmi a menare le mani evito di chiedere a questi ragazzi se esiste qualche gruppo ambientalista che vuole trasformare la loro palestra in un santuario. Passeggio, faccio qualche fotografia, saluto, accetto la Budweiser offerta dal muscoloso Bill e dalla sua bionda Darlene che arrivano da San Francisco. Parliamo del più e del meno, mi chiedono dell’Europa su cui hanno idee vaghe, mi vedono perplesso. Alla fine, è Darlene a esibirsi in una spiegazione da ricordare. Rumore? Bellezza sprecata? Volgarità? Coraggio e divertimento a braccetto? Tutto insieme, ovviamente. «This is America, this is Nevada!».

PleinAir 418 – maggio 2007

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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