Le vie dello spirito

I maestosi templi di Giava, custodi di una tradizione millenaria, sono i punti cardine di un trekking alla scoperta di cultura e paesaggi dell'isola al centro del vasto arcipelago indonesiano.

Indice dell'itinerario

Nel buio che precede l’alba gli odori si levano nell’aria più intensi del solito dalle case e dalle campagne di Giava. Fra tutti spiccano quelli del petrolio delle lampade, della frutta dolce, del fumo di legna. La salita sulle pietre scure del tempio di Borobodur non è difficile: basta muoversi lentamente sui gradini diseguali, riuscendo solo a intuire le forme fantastiche di un esercito di personaggi e animali scolpiti sulle pareti. Sulla terrazza più alta, tra le piccole cupole degli stupa costruiti in onore di Buddha, un thermos di tè caldo è il benvenuto per attendere il momento in cui la luce si leverà sopra l’orizzonte. Il chiarore aumenta poco alla volta, facendo uscire dall’ombra prima le statue più vicine, poi il mosaico delle risaie nelle nebbie della piana di Kedu, che si stende a perdita d’occhio fino alle pendici del vulcano Merapi. Un raggio di sole, all’improvviso, divide il mondo in due metà uguali e contrarie fatte di giorno e notte, poi sparisce, lasciando il cielo grigio dei Tropici a dominare il nuovo giorno che inizia.
Borobodur si trova a 40 chilometri di distanza da Yogyakarta, che insieme a Solo (oggi Surakarta) è stata una delle città più importanti nella storia della Provinsi Jawa Tengah, come viene chiamata in indonesiano la provincia di Giava Centrale. Distante poco più di 600 chilometri da Jakarta, la capitale dell’Indonesia, Yogya – come la chiamano i suoi abitanti – è ancora oggi residenza di un sultano e meta culturale di grande importanza, al centro di una regione celebre per le sue piantagioni di tè e caffè, per le impressionanti guglie dei templi hindu di Prambanan e per le architetture dello stesso Borobodur. Restaurato fra il 1975 e il 1984 su iniziativa dell’Unesco, non è un tempio vero e proprio: costruito tra l’VIII e il IX secolo, questo maestoso monumento era infatti la rappresentazione di un itinerario spirituale che può condurre il credente, oggi come allora, dall’immersione nella vita terrena alla luce dell’illuminazione. Un lungo percorso a cerchi concentrici risale lungo le sue terrazze in senso orario e permette di ammirare l’infinita serie di rilievi (sono quasi 2.700) che, una balconata dopo l’altra, narrano principalmente le storie del Buddha, da prima della discesa su questo mondo agli episodi della sua avventura terrena, e il Gandavyuha, complicata vicenda del pellegrinaggio di un giovane mercante. Qui, spiegano gli archeologi, i fedeli non dovevano avere più bisogno della guida dei maestri e delle immagini di pietra, che anche oggi tuttavia meritano di essere ammirate con l’assistenza di accompagnatori esperti per non perdersi nella miriade di storie, simboli e ripetizioni. Giunti finalmente in cima dopo un lungo cammino chiuso fra i rilievi e una balaustra, una fitta teoria di statue di sereni Buddha si affacciano verso un panorama ampio e luminoso. L’ascesa verso la montagna della consapevolezza è finita: e la conoscenza, dal colmo della terrazza di Borobodur, può spaziare davanti allo spirito e agli occhi che si riempiono dei dolci panorami della campagna giavanese.

Il signore della danza
Se quella di Borobodur è un’architettura dello spirito, i templi induisti di Prambanan, ad est di Yogyakarta, offrono uno spettacolo completamente differente. Qui il tema centrale è quello della celebrazione, della potenza, dell’immensità, che si riflettono in un complesso di particolare imponenza. Dopo aver superato una serie di templi minori, quando si raggiunge Loro Jonggrang si stagliano sulla piana le guglie, alte 50 metri, del tempio centrale del complesso dedicato a Siva, al centro di una serie di terrazze affollate da ben 224 piccoli santuari minori. Davanti all’ingresso del parco la confusione è sempre notevole: taxi e pullman si fanno largo a suon di clacson tra le bancarelle dei venditori di souvenir, di spuntini e di frutta, tra guide più o meno autorizzate e venditori di ombrelli. Ma all’interno, seguendo i grandi viali che tagliano i prati verdissimi, il colpo d’occhio sui templi di scura roccia vulcanica diviene sempre più impressionante. La foresta di cuspidi dei tre edifici principali dedicati alla Trimurti, la trinità induista, svetta verso il cielo creando un effetto ottico che ne amplifica l’altezza, e nel tempio centrale (magari aiutandosi con una torcia elettrica) vale la pena di esplorare l’interno con le quattro camere che ospitano le statue di Siva, Agastya, della crudele Durga e del paffuto Ganesh con la proboscide. I rilievi narrano la complicata e affascinante storia del Ramayana, e anche qui vale la pena farsela raccontare da una delle guide locali, mentre una serie di raffigurazioni di ballerini ricordano il terribile compito di Siva: danzare alla fine di ogni era per distruggere il mondo affinché possa essere ricreato.

A casa del sultano
Al centro di quest’area ricca di arte e storia, Yogyakarta è una città piacevole, caotica quanto basta, ricca di motivi di interesse. Il monumento più importante è il Keraton (che significa semplicemente palazzo) costruito dal fondatore di questo centro alla fine del XVIII secolo. Cuore dell’edificio è un grande cortile che ospita un padiglione aperto su tutti i lati, realizzato per ospitare il sultano e la sua orchestra di gamelan, strumenti a percussione della musica tradizionale di Giava. Il Padiglione d’Oro era il luogo in cui il principe si rivolgeva ai suoi dignitari: sorretto da quattro pilastri di tek, simbolizza il rispetto e il riconoscimento della varietà di religioni da parte del sovrano. Il colore rosso rappresenta la l’induismo, i fiori di loto dorati alla base il buddismo e una scritta in arabo ricorda il primo versetto del Corano, Non c’è altro dio all’infuori di Allah .
Attorno al Keraton, in tutte le stagioni, si svolgono una serie di cerimonie e processioni e, con un pizzico di fortuna, può capitare di imbattersi nel lento incedere di personaggi in ricchi costumi. Da queste parti il caldo in ogni periodo dell’anno può essere decisamente intenso: per questo motivo una delle strutture più interessanti è il Taman Sari ovvero il giardino fragrante, un complesso di piscine e aree verdi che si estende su un terreno che in passato era allagato dalle acque di un bacino artificiale. In alto, a cogliere anche i refoli più leggeri, la stanza del sultano si affacciava sulle grandi vasche e sulle corti private per controllare, come spiegano con una strizzata d’occhio le guide, tutti i movimenti e le attività delle sue concubine.
Fuori dalle ombre del grande palazzo, l’intera zona circostante è fitta di botteghe che producono tessuti colorati artigianalmente con la tecnica del batik, ovvero ricoprendo di cera le parti che non devono assorbire la tinta. Si tratti di piccoli tagli da incorniciare o di grandi stoffe da arredamento, una passeggiata tra le viuzze del quartiere è un’ottima occasione per fare acquisti, tra una tazza di tè e l’altra, se si ha la pazienza di discutere e trattare quanto basta. Il Pasar Burung, sempre in questa zona, è invece il mercato degli uccelli dove, se si riesce a districarsi tra montagne di gabbiette, sacchi di semi e il frastuono del cinguettare di migliaia di volatili, ci si può fare davvero un’idea realistica della confusione di un mercato giavanese e dei suoi odori forti e speziati.

A cup of Java
Oltre all’agricoltura del riso, la ricchezza dell’isola poggia da sempre le sue basi sul tè e sul caffè, piante che vennero importate sull’isola in vari momenti nei secoli passati. La zona delle colline che si estendono a nord di Yogyakarta, racchiuse nelle loro vallate dalle sagome dei grandi vulcani Merapi (2.911 m), Merbabu (3.142 m) e Sumbing (3.371 m), venne sfruttata a fondo dagli olandesi, che fino alla Seconda Guerra Mondiale controllarono l’Indonesia. Canna da zucchero, piantagioni di caffè e, sulle alture più fresche e umide, di tè si estendono a perdita d’occhio e danno la possibilità di scoprire come nascono e si lavorano le piante all’origine di queste bevande così comuni e apprezzate anche nel mondo occidentale.
Nell’immenso complesso di Tambi, a 1.400 metri di quota, il clima è decisamente più fresco che a Yogyakarta, anche se l’umidità non è poca e ogni paio d’ore uno scroscio di pioggia bagna la foresta. Ordinate come in un giardino all’italiana, le piante di tè crescono fitte disegnando i dislivelli delle colline, con appena lo spazio tra l’una e l’altra per far passare i raccoglitori con le loro grandi ceste di vimini sulle spalle. Uomini e donne, ogni dieci giorni, raccolgono le foglie appena nate dalle piante per poi passare alla pesatura ed essere pagati in base al raccolto. Nella fabbrica rimbombante che produce uno dei tè più rinomati di Giava, le foglie vengono divise in due filiere di lavorazione: il raccolto che non viene trattato diviene tè verde, mentre le foglie ossidate nelle grandi macchine della fabbrica, una volta seccate, finiranno nei pacchetti colorati del tè nero, con la simpatica faccia di Ganesh.
Non molto lontano dalle colline verdeggianti di Tambi, l’arrivo alla piantagione di Rawaseneng riserva qualche sorpresa. Nella guardiola all’ingresso, un frate si affanna a rispondere al telefono e ad accogliere i visitatori. Gestita da padri trappisti, la coltivazione di piante di caffè si estende su circa 180 ettari e produce varie qualità: oltre alle celebri robusta e arabica, una parte delle piante sono della varietà java, che ha avuto una discreta notorietà nel corso del ‘900 tanto da diventare, nel mondo anglosassone, sinonimo di caffè. A cup of Java suggerivano le pubblicità dell’epoca. E, se ci fate caso, quando il vostro computer fa girare il programma che si chiama Java, l’icona che appare è quella di una tazza di caffè fumante.

PleinAir 439 – Febbraio 2009

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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