Laguna in due atti

Su il sipario, e Caorle va in scena nelle performance a cielo aperto del Festival Internazionale del Teatro di Strada, a due passi dai magici silenzi delle valli da pesca che custodiscono una genuina civiltà marinara.

Indice dell'itinerario

Sul lungomare, tra il santuario della Madonna dell’Angelo e il rotondo campanile della cattedrale, il settembre di Caorle si apre tra le eclettiche visioni di una galleria d’arte che si specchia nell’Adriatico. Dal 1993, ogni anno i frangiflutti di trachite euganea si trasformano, per mano di artisti giunti da tutto il mondo in occasione del simposio internazionale di scultura all’aperto, in animali, ellissi, gusci, spirali, corpi, volti: opere parlanti, intrise di salsedine, che sorgono al di là della prospiciente Piazza Vescovado, trasformata in una sorta di salotto dai lavori per l’ultimo Giubileo.
E’ in questa bomboniera architettonica che si tengono i suggestivi spettacoli di uno dei più bei festival del teatro di strada. Sul grande palcoscenico allestito in notturna proprio sotto la torre campanaria, simbolo della città lagunare, si alternano le grandi performance dalle scenografie più impegnative; mentre angoli più raccolti tra calli e campielli – Campo Orlondi, Negroni, Castello, San Marco, Pio X – ospitano esibizioni più intime, seguite da capannelli di attenti spettatori. Caratteristica della manifestazione è quella di riservare ogni spazio a un tema: qui va in scena il teatro di ricerca, là il comico, in una piazzetta c’è il teatro di narrazione, nell’altra quello di danza o di strada. E’ in questo modo che si realizza una perfetta simbiosi tra la città e l’arte, tra la struttura urbanistica e le scenografie di un teatro universale senza tetto né confini.

I canneti di Hemingway
Con tutto il peso del suo nobile passato, Caorle sembra fatta apposta per questo genere di esperimenti: e infatti ogni anno una folla numerosa (100.000 presenze nell’edizione del 2003) accorre nel suo centro storico, tra le case multicolori dalle tinte forti e contrastanti. Le abitazioni, orlate di lunghi camini che partono da terra, assomigliano sempre più a quelle di Burano, dove i colori si riflettono in mille sfumature sull’acqua dei canali. Fino a pochi anni fa gli intonaci originali erano invece in una tenue bicromia, che assolveva in parte a precise esigenze funzionali: la porzione più alta degli edifici si presentava slavata per via di muffe e umidità marina, tutt’al più tinteggiata con il rosso veneziano e il giallo ocra dei tipici bragozzi da pesca dell’Alto Adriatico, quella bassa invece era imbiancata a calce per tenere alla larga gli insetti delle valli. Girando senza meta per i vicoli ci si imbatte anche in qualche nostalgico ricordo architettonico: vecchi portoni di legno, chiavistelli e serrature arrugginite di edifici abbandonati al proprio destino.
Il volto della città, in ogni caso, è completamente mutato a partire da metà Ottocento e non si immagina certo, camminando oggi per le strade del centro, che un tempo Caorle era percorsa da un fitto reticolo di canali come Chioggia e Venezia, con ponti ad arco e barconi in lenta navigazione su vie fluviali interne che si chiamavano Rio delle Beccarie, Rio di Mezzo, Rio Castello. Di quel mondo completamente sepolto da comode strade carrozzabili resta solo il porto peschereccio gremito di imbarcazioni, che si chiamava Riello: è da qui che parte ogni giorno la flotta caorlina, di antichissima tradizione, una delle più attive dell’alto Adriatico. Le barche sbuffano verso il mare aperto e tornano nel primo pomeriggio, sotto lo sguardo curioso dei turisti, riversando nel mercato all’ingrosso ottimo pesce di laguna. Orate, sogliole, branzini, spigole, scampi, calamari vengono aggiudicati all’asta e finiscono sulle tavole dei ristoranti nei prelibati piatti della cucina tradizionale: il broeto caorlotto (zuppa di pesce), lo speo de bisato (spiedini di anguilla), il risotto al nero di seppia, le sarde in saòr (sardine fritte macerate in olio e cipolla) da innaffiare con il DOC locale, il noto Lison-Pramaggiore. Dato che gli spettacoli si tengono di sera, c’è tutto il tempo di godersi la giornata a zonzo per la città, nuotare lungo i 15 chilometri del litorale sabbioso di Porto Santa Margherita e Duna Verde oppure avventurarsi nel piccolo mondo antico dei casoni che ancora cinge Caorle in tutta la sua struggente bellezza. Basta percorrere lo sterrato di 3 chilometri (accessibile anche ai camper) che parte dal cavalcavia in Via Aldo Moro, proprio accanto allo stadio e al luna park, per entrare in un universo silenzioso di acque, canali, lagune. Si percorre Via Casoni costeggiando l’argine e si arriva alla cosiddetta Isola dei Pescatori, un piccolo angolo di natura dove la civiltà della pesca è ancora miracolosamente intatta: a parte il borbottio di qualche barcone di passaggio, qui si odono solo il fruscio dei remi contro l’acqua, il guizzo dei pesci, il battito d’ali di folaghe, aironi, garzette, gru, gabbiani. Sembra di tornare agli anni Cinquanta quando Ernest Hemingway si trovava in laguna, ospite del barone Raimondo Franchetti, in cerca d’ispirazione per il suo romanzo Di là dal fiume e tra gli alberi (anche se in realtà passava molto tempo a caccia di anatre selvatiche, come facevano gli stessi nobili veneziani che in massa si recavano in Val Grande per le battute).
Tra migliaia di ettari di canneti e placide distese d’acqua emergono i tipici casoni di forma conica: la struttura in legno e la tradizionale copertura in canna ne sono l’elemento caratterizzante, nonché preziosa testimonianza storica e culturale del territorio. Se ne trovano diversi esempi sparsi qua e là, oppure solitari sul filo della laguna, sopraelevati come vedette che avvistano l’arrivo delle maree; ancora oggi si vedono pescatori che armeggiano al loro interno tra reti da sbrogliare, mazzi di lavanda di palude e secchi di pesce da sistemare sulla brace per un piacevole picnic tra le valli. E chissà, forse con la pancia piena si riflette meglio sul tempo non lontano in cui intere famiglie facevano la fraima: partivano in gruppo l’8 settembre, giorno della Madonna dei Fagoti, a bordo di barconi ormai scomparsi – le caorline da trasporto merci che usavano gli ortolani della laguna di Venezia e le batee a coda di gambero – e si trasferivano nei casoni fino alla vigilia di Natale per la lunga stagione della pesca. Erano anni duri, ma molti anziani li rimpiangono.
A sera, tornati in città con l’animo rigenerato, si finisce dunque con l’apprezzare meglio il fine ultimo degli spettacoli del festival: ovvero la valorizzazione di un teatro di emozioni, intriso di partecipazione e di comprensione. Un teatro poetico, amano dire gli organizzatori, che si contrappone a quello dell’imitazione, instaurando una forma di linguaggio trasversale che abbracci le più disparate culture artistiche. E’ questo il vero teatro di strada: nudo nella sua disarmante semplicità, in grado di scrollarsi di dosso i luoghi comuni riportando la fantasia al mistero delle origini.

PleinAir 384/385 – luglio/agosto 2004

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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