Laboratorio dell'Eden

Una natura generosa e bizzarra, che conserva specie botaniche vecchie di milioni di anni, rende l'isola di Socotra un intatto e primordiale paradiso. E qui, in un angolo di mare tra Asia e Africa, la vacanza pleinair è davvero quella di una volta: in tenda, scoprendo passo passo la straordinaria magia e gli incredibili paesaggi di una terra senza confronti.

Indice dell'itinerario

Le acque del Golfo di Aden la bagnano a est, quelle del Mare Arabico a ovest. Bastano queste poche coordinate a suggerirci che Socotra deve avere qualcosa di speciale: e l’impressione si fa ancora più forte se aggiungiamo che si trova a circa 300 chilometri dal Corno d’Africa, il continente al quale la geografia fisica più volentieri la assegna. Per la geografia politica si tratta invece dell’isola principale dello Yemen, la repubblica araba cui fa da avamposto sull’Oceano Indiano insieme a poche altre isolette sparse in direzione della costa somala.
A dispetto della remota collocazione, alcuni recenti ritrovamenti potrebbero indicare la presenza di ominidi già dall’Età della Pietra. Socotra, per di più, era nota ai Greci ed è citata da Marco Polo, ma fino a pochi secoli fa era pressoché inaccessibile. Raggiunta da esploratori portoghesi nei primi anni del ‘500 ed entrata poco dopo a far parte di un sultanato, nel 1834 venne occupata dalla Gran Bretagna e nel 1886 fu annessa al protettorato britannico di Aden: da quel momento seguì le sorti dello Yemen, resosi indipendente nel 1970 e tuttora unico stato repubblicano della Penisola Araba, dopo aver vissuto una parentesi socialista. Con la costruzione dell’aeroporto, una decina d’anni fa, Socotra si è finalmente aperta al mondo e ha conosciuto i primi turisti, anche grazie al fatto che l’arcipelago è stato inserito dall’Unesco fra i patrimoni dell’umanità.
All’arrivo ci troviamo subito circondati da un paesaggio che sembra uscito da una fiaba, e non è un’esagerazione. Come Alice nel Paese delle Meraviglie, spalanchiamo la bocca dallo stupore di fronte a piante e fiori dalle fogge bizzarre, come la rosa del deserto che qui non è la nota formazione minerale, bensì un buffo alberello dal tronco morbido e pingue: simile a un otre di gomma, nasce quasi in riva al mare o spunta sulle pareti rocciose, come a voler ingentilire il panorama brullo con i fiori rosa che ne ornano i delicati rametti. Il fico di Socotra, che alligna sulle creste montane, è invece simile a un piccolo baobab, mentre il cucumber tree è un albero dell’altezza media di 6 metri che produce frutti simili a cetrioli. Difficile poi rimanere impassibili di fronte all’euforbia gigante o all’albero del sangue di drago, vero simbolo di Socotra dato che è l’unico posto al mondo in cui cresce: un ombrello gigante la cui geometrica perfezione è retta da un magnifico intreccio di rami nodosi, in cima ai quali spunta un fitto tappeto di aghi verdi simili a quelli dei pini di casa nostra. Il nome deriva dalla linfa color rosso porpora che stilla dalla corteccia, usata dagli indigeni come medicinale ma anche come inchiostro e colorante.
Di questi alberi se ne trovano a decine sull’altopiano del Daksem, dove un silenzio assoluto avvolge il limite di uno strapiombo dalle pareti di granito rosso a tratti coperte da lastre grigie di lava fossile. E’ la bocca sprofondata di un vulcano spento da secoli, i cui canali un tempo percorsi dal magma ora sono palmeti lussureggianti che ombreggiano sul fondo una limpida piscina naturale. Anche le falde montuose che salgono al Daksem sono un tripudio di vegetazione capace di evocare storie e leggende lontane: le magnifiche sculture naturali formate dall’aloe vera, la Boswellia o albero dell’incenso (che qui cresce in sette specie diverse e tutte endemiche) e gli arbusti dai quali si ricava la mirra. Egizi, Greci e Romani venivano fin qui per procurarsi queste preziose sostanze, quelle stesse che i Re Magi portarono in dono. E poi lo sguardo scivola verso la costa, dove i cespugli nani di croton sembrano quasi ricordare la macchia mediterranea.

Montagne di sabbia
Il mare di Socotra vira dall’indaco al turchese e allo smeraldo, con le onde che lambiscono spiagge memorabili come quella di Qalansiyah. I fuoristrada delle guide che ci accompagnano non possono arrivare fino alla riva e ci lasciano all’inizio di una salitella, in cima alla quale il respiro si ferma davanti a uno scenario a dir poco incredibile: l’alta scogliera, di un caldo color ocra, precipita su una spiaggia candida che s’insinua con un ghirigoro nell’acqua immobile. Qui la natura si è divertita senza badare a spese.
La spiaggia di Qalansiyah è immensa, protetta da una corona di rocce che al tramonto s’infiamma in un rosso da brivido, mentre inizia il viavai dei granchi che si dirigono verso l’acqua lasciando le tane scavate a spirale nella rena. D’estate, quando i monsoni soffiano con violenza rendendo l’isola inaccessibile, la finissima sabbia corallina si solleva e si addossa alle falesie, sedimentando poco alla volta sino a formare vere e proprie piramidi. Chiamarle dune è riduttivo: sono vere e proprie architetture naturali, che da lontano sembrano fatte di sale o di neve. Non c’è posto migliore per piantare la tenda e dormire, anche se il sonno tarda ad arrivare quando ci si può stendere sulla spiaggia a guardare un cielo fitto di stelle che vorremmo veder cadere per esprimere mille desideri.
Le piramidi sabbiose si formano per lunghi tratti sulla costa occidentale di Socotra, com’è facile notare facendo un giro in barca verso un’altra magnifica spiaggia, quella di Ahrar. Più avanti, mentre procediamo verso Shuab, ci scorre davanti agli occhi un’alta scogliera in cui il vento e il tempo hanno scolpito grotte e faraglioni che danno rifugio a popolose colonie di uccelli. Per non dire delle acrobazie dei delfini, che si tuffano e riemergono a due bracciate dalla riva senza nemmeno interrompere la loro corsa, quasi un fiume argenteo nel mare di smeraldo. La limpidezza dell’acqua è assicurata lungo tutti i 350 chilometri di costa e la barriera corallina, addirittura più corposa di quella del Mar Rosso, orla bassi fondali abitati da un gran numero di pesci e di crostacei.
Anche la spiaggia di Shuab offre sabbia candida e spazi aperti. Un’autentica oasi di pace dove può capitare di essere accolti da un pescatore che vive in una grotta a mezza costa e che offre, su un semplice vassoio di legno, tranci di pesce da lui stesso ha cucinato. Un altro indigeno propone invece l’acquisto di conchiglie pazientemente pulite e lucidate: l’isola ne è ricchissima, come pure di madreperle, di fossili, di spugne, e la tentazione di portar via un souvenir è forte, ma non va assecondata. Un atto dovuto, per rispetto alla bellezza dei luoghi e allo spiccato senso di ospitalità di chi ci vive.

Civiltà primitiva
I circa 40.000 abitanti di Socotra sono frutto di una miscellanea di razze, con una prevalenza di pescatori di origine africana insediatisi lungo le coste e pastori nomadi arabi nell’interno. Anche i materiali da costruzione differiscono a seconda della zona: di corallo vicino al mare, di sassi e fango nell’entroterra. Tutti però parlano la stessa lingua autoctona, un complicato idioma semitico, e professano una rigorosa fede islamica.
E’ singolare che una terra così appartata dal resto del mondo, rimasta isolata per millenni, abbia una popolazione più spigliata e comunicativa rispetto allo Yemen continentale. Persino i costumi femminili tradizionali, anziché la cupezza del nero, sfoggiano le tinte accese di bellissime stoffe tessute dalle stesse socotrine; niente velo a coprire i bei volti, solo un drappo sui capelli. Le donne, tuttavia, risiedono perlopiù nei villaggi insieme ai figli e spesso devono percorrere chilometri a piedi per accompagnarli nell’unica scuola dell’isola. Solo un ristretto numero di esse abita nel capoluogo, dove ha sede la Socotra Women’s Development Association: una delle sue attività è un negozio in cui si vendono incensieri in terracotta dipinta con la linfa rossa dell’albero del sangue di drago, ma anche sassolini d’incenso e creme di bellezza a base di aloe vera.
Gli uomini, dal canto loro, indossano quasi sempre la juta, un pareo tenuto fermo in vita, e un foulard annodato sul capo a mo’ di turbante. Girano ovunque, a piedi o alla guida dei fuoristrada, l’unico veicolo adatto a spostarsi sull’impervia rete di stradine che solcano l’isola. In città, a Hadibu, siedono davanti alle case, alle botteghe o nei pochi bar: chiacchierano, bevono succo di mango e passano il tempo giocando con una sorta di dama. E’ normale vederli masticare foglie di qat, un arbusto sempreverde, aggiungendone continuamente di fresche sino a formare una palla che viene tenuta in bocca creando il tipico rigonfio sulla guancia. L’uso di questa leggera droga dagli effetti lievemente euforizzanti è un’abitudine largamente diffusa in tutto lo Yemen, una tradizione antica – risalirebbe almeno al XIV secolo – ma anche una piaga economica, se si pensa che in diverse famiglie il consumo di qat assorbe fino al 70% del denaro guadagnato ogni mese; malgrado ciò, la vendita è del tutto ufficiale e alla luce del sole, a mazzetti confezionati in involucri di plastica.
In un contesto sociale e culturale che procede sempre più rapidamente verso la modernità ma non ne ha ancora recepito gli aspetti più consumistici, lo sviluppo del turismo non ha stravolto l’aspetto dell’isola. Le stesse strutture di accoglienza non sono certo ai livelli di tanti lussuosi (e artificiosi) resort dei Caraibi o del Pacifico: la cosa più simile a un albergo è il funduq, un tipo di alloggio con camere molto ampie, dove il livello d’igiene lascia un po’ a desiderare. Il Taj Socotra sembra essere il più conosciuto a Hadibu, forse l’unico, dotato anche di uno spartano ristorante che propone piatti a base di pesce o di carne di capra.
Il modo più consono per godere appieno di Socotra è però quello che caratterizza il viaggiatore pleinair, vivendo a contatto con questa meravigliosa natura. Basta scegliere un luogo in cui piantare la tenda per ritrovarsi immersi in una solitudine quasi totale, di fronte a paesaggi di una bellezza indimenticabile: non solo le spiagge, ma anche l’altopiano di Diksam o la foresta di Fermhin, fitta di alberi del sangue di drago. Ed è facile capire perché Socotra, in sanscrito, significhi isola della felicità.

Testo e foto di Teresa Carrubba

PleinAir 460 – novembre 2010

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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