La Valle galeotta

Da un lato il Monte Pelmo e il gruppo del Bosconero, dall'altro la Moiazza e il versante meridionale della catena del Civetta; al centro il torrente Maé e la splendida Val di Zoldo, perla poco nota delle Dolomiti Bellunesi, da scoprire in camper e soprattutto a piedi.

Indice dell'itinerario

Dalla Val di Zoldo rimasero affascinati illustri viaggiatori vittoriani del secolo scorso, come John Ball, botanico ed esploratore irlandese, autore della prima e più autorevole guida delle Alpi. Fu anche il primo ad aprire la via al Monte Pelmo, circondato da da prati e boschi e molto frequentato dagli alpinisti. Denominato caregon del Padreterno per la forma a trono, il Pelmo è la prima montagna delle Dolomiti ad apparire sulle carte ufficiali con il nome di Sass de Pelf. Raggiungere la croce di vetta (3168 m) non è banale, neanche oggi. Il tratto più difficile, il celebre “passo del gatto”, anche se facilitato da alcuni chiodi, richiede attenzione. La cengia in quel punto si strozza e obbliga a strisciare carponi in una fessura orizzontale, o a tenersi all’esterno su rocce lisciate. Da tutti i lati, la montagna oppone pareti apparentemente inespugnabili. Ma Ball individuò un complesso sistema di cenge che gli permise di evitare gli strapiombi iniziali e di raggiungere l’infernale catino diretto alla vetta. Era il 19 settembre del 1857, una data storica che segnò l’avvento dell’alpinismo sui “Monti Pallidi”.
Chi non se la sente di affrontare la scalata potrà ammirare la mole del Pelmo dal Rifugio Venezia, posto alla base della montagna. Se salite al rifugio da Passo Staulanza, dopo circa un’ora incontrerete un sentiero che s’inerpica sulla sinistra, su un ripido ghiaione. Vi porterà ad un masso squadrato. Su quella roccia grigia ci sono strane buche allineate: sono le orme di dinosauri vissuti circa 220 milioni di anni fa, nel Triassico superiore. Allora, le Dolomiti non esistevano; la regione era coperta da mari caldi che a volte formavano dei litorali sabbiosi sui quali i rettili lasciarono le loro impronte. Sul masso si distinguono cinque “piste” relative a tre animali; la più evidente è stata tracciata da ornitischi, rettili dal bacino simile a quello degli uccelli. Le impronte più numerose, invece, apparterrebbero a coelurosauri, carnivori di modeste dimensioni, probabili antenati dei tirannosauri.
Il primo gruppo di monti che s’incontra sulla destra risalendo la Val di Zoldo è il Bosconero. Sono montagne severe, ”che destano vivamente l’impressione di aver fatto da modello a singolari profili in più di un disegno di Tiziano”, rilevò Josiah Gilbert nella seconda metà dell’Ottocento. Fino a quarant’anni fa l’unica via di collegamento diretta tra la Val di Zoldo e la pianura era una tortuosa carrareccia parallela al Maé, un impetuoso torrente che scende a Longarone tra gole strettissime. All’epoca dei dogi, sulle acque del Maé scivolavano il legname e le zattere con il carbone dirette al Piave e a Venezia. Ogni anno, fluitavano verso la città lagunare oltre tremila zate cariche di combustibile prodotto, secondo un’antica tecnica, nelle pojat (carbonaie) zoldane.
Nei secoli scorsi la vita degli zoldani fu legata alle foreste e all’allevamento. Poche le coltivazioni consentite dal clima: grano saraceno, saggina, miglio, patate. Per necessità gli abitanti della valle divennero cacciatori, seguendo le prede sui monti, sulle creste e sui celebri viàz. Il termine, squisitamente zoldano, può essere tradotto come sentiero impervio ; in realtà non si tratta di sentieri, né di vere e proprie vie di arrampicata, ma piuttosto arditi camminamenti su cenge scoscese e creste impervie. Hanno nomi suggestivi come Viàz de l’Ors (un tempo presente nella zona), Viàz de le Ponte (i numerosi pinnacoli delle Rocchette de la Serra) o Viàz del Fônch (una roccia a forma di fungo). Alcuni di questi singolari itinerari sono disertati da anni; altri, di recente, sono stati riscoperti dagli alpinisti della zona. Sono percorsi privi di indicazioni, richiedono intuito, esperienza e capacità d’orientamento, però consentono di scoprire zone veramente selvagge.
Alla caccia, all’agricoltura e alla pastorizia, nel Trecento si affiancò l’attività mineraria. Il ferro e il piombo riaccesero la speranza; qualcuno parlò d’oro, in tanti lo cercarono ma nessuno lo trovò. Grazie alle miniere di Coi, di Val d’Inferna e di Col dal Fer gli zoldani divennero minatori, fabbri e ciodaròti specializzati nella forgiatura dei chiodi. Con il cosiddetto “ferro agnello”, celebre perché non arrugginiva, si fabbricavano i chiodi per le gondole e quelli per le costruzioni. Sappiamo dal contemporaneo padre Giovan Battista Barpo che nel Quattrocento e Cinquecento si producevano 75.000 libbre di acciaio e 11 centinaia di migliaia di ferro dolce l’anno. Minatori, fabbri e carbonai lavoravano a pieno ritmo, e presto la forza del torrente Maé venne sfruttata per azionare i macchinari. Per far funzionare i forni delle fonderie ci voleva carbone, per lo più prodotto nelle pojat. Alcuni aiàl, radure dov’era allestita la carbonaia, sono ancora visibili sui monti del Bosconero. Ad esempio sul sentiero tra la Casera di Castelin e il bivacco Baita del Popo, ricovero in passato utilizzato dai carbonai e recentemente ricostruito da un gruppo di cacciatori. Nell’Ottocento le cose cambiarono; le officine zoldane non poterono competere con le moderne fabbriche della pianura. Alla fine del secolo scorso, una drammatica alluvione distrusse tutto: fusinèle (chioderie), ponti, case, mulini, stalle. Delle fornaci, oggi restano solo il ricordo e alcuni toponimi: Fusine, Forno, Fornesighe e Fernovo.
La gente fu costretta ad abbandonare la valle; alcuni scesero in pianura, altri emigrarono in Germania, in Olanda o in Francia. Tanti partirono con il biglietto di sola andata per le Americhe. Gli emigranti si fecero onore ovunque; molti divennero gelatieri, tra i più bravi d’Europa.
Oggi Forno conta circa 3000 anime, la metà di quelle censite il secolo scorso. Ci sono più anziani che giovani, ma chi è rimasto non vuole abbandonare la valle e scommette sul turismo. Quest’angolo verde delle Dolomiti nasconde tesori antichi, come la parrocchiale gotico-romana di San Floriano a Pieve, con preziose opere lignee di Andrea Brustolon e di Valentino Pancera Besarel. Gli abitati di Fornesighe e di Coi sono invece rinomati per i tabià, antiche costruzioni rustiche in legno e pietra dove erano tenuti gli animali. Sopra la stalla c’era il fienile e alcuni ballatoi esterni utilizzati per essiccare il grano e i legumi. Alcuni deliziosi tabià, in parte ben restaurati, li troverete a Coi, all’ombra del Pelmo e del Pelmetto. Molte architetture tradizionali sono andate distrutte, il ferro non è più estratto, ma alle soglie del nuovo millennio la Val di Zoldo ha scoperto una ricca miniera: l’ambiente. L’antropizzazione contenuta e la morfologia del territorio hanno favorito la crescita di una gran varietà di piante, alcune delle quali endemiche. Nella valle, solo in parte tutelata da riserve naturali, un tempo vivevano orsi e lupi; auspicabile è il ritorno della lince, avvistata nel limitrofo Parco delle Dolomiti Bellunesi. E’ ancora possibile ammirare cervi, caprioli, galli cedroni e l’aquila reale, il cui areale include anche il Bosconero. Le ore più calde della giornata sono le più indicate per scorgere in volo questo elegante rapace, capace di sfruttare al meglio le correnti ascensionali. Vola in alto sulle crode, poi si tuffa sulla preda e torna al nido nascosto tra le rocce; visione spettacolare, ma non inconsueta tra questi monti.

A piedi in Val di Zoldo: l’anello dello Zoldano
E’ un itinerario circolare panoramico tra i gruppi che circondano la valle. Richiede sei giorni, ma può essere anche percorso parzialmente. Ad esclusione di alcuni brevi tratti attrezzati (EEA), il percorso, sempre ben segnato, non presenta serie difficoltà alpinistiche; tuttavia è consigliato solo ad escursionisti esperti, allenati ed equipaggiati per l’alta montagna. Sono indispensabili buone scarpe da trekking, abbigliamento adeguato alla permanenza in quota e attrezzatura da ferrata. Utili una carta topografica e la guida (vedi “Buono a sapersi”).
Ecco in sintesi le tappe del “Signore degli anelli”. Prima tappa, gruppo Mezzodì-Pramper: da Ponte San Giovanni nel fondovalle al Rifugio Angelini (4.30/5 ore, 1150 metri di dislivello in salita, 370 in discesa). Seconda tappa, gruppo San Sebastiano-Tamer: dal Rifugio Angelini al Passo Duran (5.30/6 ore, 750 metri in salita e discesa). Terza tappa, gruppo Moiazza-Civetta: dal Passo Duran al Rifugio Coldai (6/6.30 ore, 1000 metri in salita, 450 in discesa). Quarta tappa, Pelmo: dal Rifugio Coldai al Rifugio Venezia (4 ore, 300 metri in salita, 500 in discesa). Quinta tappa, Col Dur-Rite: dal Rifugio Venezia al Passo Cibiana (5 ore, 470 metri in salita, 900 in discesa). Sesta tappa, Bosconero: dal Passo Cibiana a Forno di Zoldo (5.30 ore, 500 metri in salita, 1200 in discesa).

Da Pontesei al Rifugio Casera Bosconero
In località Pontesei (825 m), nei pressi del bacino artificiale parte il sentiero 490. E’ possibile parcheggiare su un ampio piazzale, posto sulla sinistra salendo da Longarone, poco dopo una galleria. Superato un tratto ripido e sassoso il tracciato, sempre ben segnato, s’inerpica nel bosco e raggiunge Pian del Mugon (1060 metri, deviazione per l’omonima malga). Continuate sulla destra fino ad attraversare un ampio ghiaione; il sentiero continua ripido nel bosco, fino ad una sorgente da cui in un quarto d’orasi raggiunge il Rifugio Bosconero (1457 metri, 1.45/2 ore da Pontesei; tel. gestore 0437/78566). Il percorso, facile (E), supera un dislivello di circa 650 metri.

Da Forcella Staulanza al Rifugio De Luca
Parcheggiare sul piazzale nei pressi della Forcella Staulanza (1766 m), che divide la Val di Zoldo dalla Val Fiorentina. Dal valico seguire verso sud il sentiero che, poco dopo, s’immette nel n. 472 diretto al Rifugio De Luca-Venezia. Inizialmente sale nel bosco di larici, poi passa sotto la parete sud-orientale del Pelmetto.
Attraversata una serie di valloni, dopo circa un’ora di cammino si incontra una deviazione. Lasciate il sentiero principale e continuate sulla sinistra; in pochi minuti arriverete a quota 2050, dove si trova il masso con le impronte dei dinosauri. Tornati sul sentiero 472, proseguite fino al Passo di Rutorto e al vicino Rifugio De Luca-Venezia (1946 metri, tel. 0436/9684).
L’itinerario richiede 2.15/ 2.30 h e supera un dislivello complessivo di circa 200 metri.

PleinAir 315 – ottobre 1998

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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