La terra dei totem

In pick-up sull'isola di Vancouver, quasi un viaggio mistico fra natura e cultura della British Columbia: tra gli antichi totem della tradizione indiana e i nuovi simboli del benessere, compresi i grandi tronchi dell'industria del legno, la prima del paese.

Indice dell'itinerario

Dai finestrini dello Sky Train, la monorotaia che collega il centro di Vancouver con i sobborghi, i grattacieli della Downtown si rimpiccioliscono velocemente lasciando spazio a colorate casette di legno seminascoste nel folto verde urbano. Eccoci nella British Columbia, la vasta provincia montuosa del Canada Occidentale tra gli Stati americani di Washington e Alaska. Il Canada è cinquantaquattro volte più grande dell’Italia e la British Columbia non è più piccola di un paio di nazioni europee messe insieme: o si macinano migliaia di chilometri nel tentativo di visitarla tutta, o ci si limita a vederne una sola parte, come è successo a noi. Nel programmare il viaggio avevamo previsto un lungo itinerario nell’interno ma, sorvolando le interminabili foreste canadesi, ci rendiamo conto della vastità del territorio e delle distanze da percorrere e così, aperta la cartina sul cofano del pick-up, decidiamo di far rotta sull’isola di Vancouver, 400 chilometri di lunghezza per 80 di larghezza. E questa scelta, anche se contenuta, si dimostrerà assolutamente fantastica.

Una città per tutti
Imbarcato il camper sul traghetto che collega il continente all’isola, dopo un paio d’ore di navigazione e qualche chilometro di autostrada raggiungiamo Victoria, capoluogo della British Columbia situato all’estremità sud di Vancouver Island. L’imponente edificio del Parlamento e la tipica architettura anglosassone dell’Ottocento che caratterizza l’intera città fanno da cornice alla baia dove decollano e ammarano gli idrovolanti, il più comune mezzo di trasporto canadese.
Guidare nel traffico cittadino non è un problema quando tutti rispettano le regole, ciclisti e pedoni compresi; si nota subito che non c’è fretta e tutti cercano di agevolare lo spaesato turista anche lungo le affollate strade del centro. Ampi posteggi con sosta consentita per 24 ore permettono una visita tranquilla senza timore di multe o scadenze di parcometri e dischi orari: e notiamo decine di v.r., perlopiù pick-up ma anche tanti motorhome, parcheggiati nelle aree cittadine senza alcun problema.
L’atmosfera è vivace e animata, con tante cose da vedere a ogni angolo. Per le strade e sul lungomare gruppi musicali e solisti intrattengono il pubblico con diversi repertori, dal country folk alle sinfonie settecentesche; poi, al tramonto, quelle stesse strade si svuotano mentre si riempiono le decine di locali old style dove si gusta soprattutto pesce alla brace accompagnato da ottimo vino. Tra visite ai musei e puntate nei negozi volano i primi due giorni del nostro viaggio.
Ora proseguiamo sull’autostrada costiera A1 in direzione nord. Le strade sull’isola di Vancouver non sono molte, anzi c’è un unico tracciato che percorre da estremità all’altra il versante est; le altre sono piste sterrate che penetrano a pettine nelle zone boschive centrali per raggiungere la costa e le spiagge del Pacifico.
Decidiamo per un veloce trasferimento fino alla punta settentrionale per poi ridiscendere zigzagando verso sud: in questo modo avremo la possibilità di visitare velocemente tutte le principali località costiere scegliendo dove soffermarci più a lungo durante il ritorno. Ma tra il dire e il fare… ci sono di mezzo totem e murales.

Colori del tempo
La prima sosta è a soli 40 chilometri da Victoria nella cittadina di Duncan, sede di una delle maggiori comunità indiane dell’isola. Nel centro culturale Quw’utsun, dove i ragazzi di famiglie indiane imparano la storia e le antiche tradizioni delle tribù Cowichan (i primi abitanti di queste terre), sono raccolte numerose testimonianze di questa cultura come canoe, tende e bellissimi totem. Quest’ultimo rappresentava, non solo fra le tribù indiane americane ma anche presso i Maori neozelandesi e diverse popolazioni asiatiche, il centro culturale del villaggio; incisi a fuoco vi si leggono i simboli più o meno sacri in cui la comunità credeva o si rappresentava. Alcuni raccontano le vicissitudini della tribù, altri sono commemorativi, funerari o araldici, con la descrizione delle discendenze e delle famiglie dei capi; molti hanno forme umane, altri umanizzano animali comuni in questi territori come orsi, aquile, alci, salmoni e balene. Ma al di là del significato o delle storie che i totem raccontano, ci sorprendono la bellezza degli intagli, la vivacità dei colori e le espressioni delle raffigurazioni. Oggi un percorso a piedi che parte dalla stazione ferroviaria e si snoda nella parte vecchia di Duncan permette di scoprire l’arte delle antiche popolazioni Cowichan attraverso decine di totem esposti nei giardini e lungo i viali del centro storico.
Poco più a nord un’altra segnalazione ci obbliga a cambiare programma: Chemainus, il villaggio dei murales. Impossibile non fermarsi ad osservare sulle facciate dipinte le vicende degli immigrati sbarcati in questo sperduto angolo di mondo alla ricerca di lavoro e ricchezza. Le tribù indiane, i primi treni a vapore, i velieri che risalivano fiordi e fiumi, le pericolose miniere, le prime falegnamerie, le Giubbe Rosse, i fondatori della città sino alla Prima Guerra Mondiale: tutta la storia di questa comunità è illustrata nelle vie e nelle piazze di Chemainus. Gli oltre quaranta murales sono numerati e nel piccolo ufficio informazioni della cittadina vengono distribuiti interessanti opuscoli con la descrizione di tutte le opere esposte.
Per non stravolgere ulteriormente il programma di viaggio decidiamo di raggiungere subito la punta nord dell’isola: una tappa di 300 chilometri d’autostrada fino a Port Hardy, un piccolo villaggio di pescatori dove facciamo provvista di cibo, acqua e gasolio per poi proseguire su sterrato fino a Cape Scott. In paese ci dicono che la strada bianca non presenta alcun problema, se si eccettuano i camion dei boscaioli.

Attenti a quei truck
La pista in terra battuta, larga e dritta, taglia in due la foresta. All’inizio un grande cartello, che rivedremo spesso, invita gli autisti alla massima cautela: ‘Strada percorsa da Timber Truck’. Dopo una decina di chilometri un altro avvertimento più esplicito, che raffigura un’auto schiacciata da un enorme tronco. Ma il tracciato è abbastanza ben tenuto e non si riesce a comprendere quale pericolo nasconda, fino a quando in lontananza un denso polverone si innalza allargandosi sopra la foresta, e l’arcano è presto svelato: sono i giganteschi truck, che trasportano il legname dalle foreste alle segherie lungocosta, il vero pericolo. Il polverone avanza velocemente sollecitandoci a cercare uno slargo per accostare. Pochi minuti dopo, ecco il boscaiolo: la cabina del truck sembra davvero piccola rispetto ai tronchi che la sovrastano, ma quando il veicolo si avvicina le imponenti dimensioni delle ruote e l’uomo alla guida che ci osserva da 4 metri di altezza rivelano il reale ingombro del mezzo che marcia a velocità sostenuta occupando tutta la pista rasente agli alberi. In pochi secondi tutto si ricopre di una densa polvere bianca che, come la nebbia, oscura il sole e avvolge l’idilliaco scenario boschivo: meglio perciò essere prudenti e, alle prime avvisaglie, farsi da parte, chiudere finestre e oblò e attendere che la polvere si dissolva depositandosi.
Holberg, alla fine dell’omonimo fiordo, è l’unico paese presente sulla pista: una manciata di casette di legno incastonato tra mare e foreste, un vero paradiso di pace e tranquillità abitato da pescatori e boscaioli.
Visitate le foreste e il parco di Cape Scott tra sentieri e spiagge oceaniche, torniamo a Port Hardy per poi riprendere lo sterrato fino a Port Alice, situato su un fiordo che per 40 chilometri s’incunea verso il centro dell’isola. Il paesetto compare all’improvviso quando si esce dalla fitta foresta: una decina di casette di legno allineate lungo la strada, tra grandi prati all’inglese che ricoprono le colline sino a scendere sulla riva del mare. Ogni casa ha parcheggiato nel giardino un motorhome o un trailer, segno dello spirito nomade e avventuriero degli abitanti di queste terre. In effetti basta parlare con la gente che si incontra lungo la strada per avere conferma della precarietà del concetto di casa: d’inverno la neve ricopre ogni cosa e ci si sposta solo con le motoslitte, mentre in autunno piogge e mareggiate sferzano le coste, tanto da spingere la gente a spostarsi alla ricerca di nuove aree di pesca o di lavoro. Piccole case di legno facilmente vendibili e grandi roulotte sempre pronte all’uso sono un abbinamento perfetto per gli itineranti canadesi. Ritornati sulla statale 19, ecco Telegraph Cove e Sayward, due mete mitiche sempre presenti nei documentari naturalistici su orche e balene. Ovviamente per poterle vedere bisogna capitarci nel momento giusto, ovvero da giugno a settembre, quando questi grandi mammiferi marini risalgono le acque dello stretto di Johnstone per raggiungere le fredde coste dell’Alaska, ricche di pesci. In maggio, invece, lo stretto è percorso da enormi zattere di tronchi affiancati che, dalle foreste del nord, scendono con la corrente verso le segherie del sud per essere trasformati in legname da costruzione, il principale prodotto d’esportazione del Canada.

Ritorno al Pacifico
Da Campbell River, quasi al centro della costa est, si diparte verso ovest la cosiddetta via dell’oro, una strada asfaltata e ben tenuta che, costeggiando il Campbell Lake, raggiunge il fiordo di Muchalat: fu tracciata dai cercatori alla ricerca delle pepite che, secondo la tradizione popolare, rotolavano sul fondo dei torrenti verso il lago. Alcuni campeggi ben attrezzati e diverse aree di sosta quasi a filo d’acqua consentono di trascorrere giornate di relax, magari pescando trote e salmoni.
Si ritorna ancora sulla 19 passando dalle spiagge di Saratoga e Miracle Beach, quasi interamente ricoperte da tronchi spiaggiati, e si raggiungono le cittadine di Comox e Courtenay per rituffarsi subito dopo nella foresta seguendo lo sterrato che costeggia il lago Comox. La segnaletica è scarsa, anzi le uniche indicazioni sono dipinte con vernice blu direttamente sugli alberi; pochi sono i turisti che vi si addentrano ma, a parte la possibilità di incrociare i camion di legname, le piste sono assolutamente percorribili e ben tenute. Nei rari bivi che s’incontrano basta cercare sui tronchi la scritta ‘Alberni’ e dopo una cinquantina di chilometri si arriva a Port Alberni e alla statale numero 4 che conduce alle località turistiche di Tofino e Uclelet, sulla costa del Pacifico.
Tofino è una delle località più note della British Columbia, soprattutto per il clima mite e per le attrazioni turistiche e naturalistiche. Ce n’è davvero per tutti i gusti: da maggio a ottobre si vedono le balene che dalla California risalgono la costa per andare in Alaska, mentre da aprile a giugno gli orsi bruni, usciti da poco dal letargo, gironzolano per spiagge e boschi alla ricerca di granchi e bacche. Si possono inoltre effettuare gite in kayak, per navigare e campeggiare tra gli isolotti della baia, ed escursioni in idrovolante su fiordi e spiagge. Numerosi e ben organizzati i campeggi, con tanto di barbecue personale ed enormi cataste di legno da ardere non solo per cucinare, ma anche per scaldarsi nei repentini e frequenti cambiamenti climatici.
Tornando a Port Alberni si ha l’occasione di rientrare nelle fitte foreste percorrendo il tratto più lungo di pista sterrata, oltre 150 chilometri di selvaggio ovest, costeggiando laghi, fiumi e fiordi con paesaggi spettacolari. Qualche turista s’incontra lungo le sponde del lago Cowichan per poi rientrare nella solitudine, o quasi, lungo la pista che conduce a Port Renfrew, sulla costa del Pacifico. E qui, ripresa la nazionale 14, tra spiagge e scogliere il nostro itinerario si avvia alla conclusione: prima del rientro ci aspetta ancora qualche giorno nella vivace e festosa Victoria, per qualche allegra serata di arrivederci tra indiani metropolitani e nostalgici cowboy.

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