La strana coppia

Si incontrano per caso nel deserto del Marocco meridionale e decidono di proseguire insieme fino al Tropico del Cancro: un'auto 4x4 attrezzata e un mansardato di buona famiglia.

Indice dell'itinerario

Sahara occidentale, quasi l’ultima frontiera. Un paradiso per noi fuoristradisti che ci avventuriamo sin quaggiù inseguendo sogni fatti da bambini, cercando la famosa Trab Lemtuna, l’antichissimo percorso dei carovanieri arabi verso l’Africa Nera, dove si scambiavano l’avorio col sale e lo zucchero con l’oro e gli schiavi.
Arriviamo verso sera a Goulmine, porta del Sahara dell’Ovest, dopo un giorno di vento e polvere che è l’immagine più vera del deserto. Seguiamo il lungomare, lontano una decina di chilometri dalla città, verso il parcheggio dell’ex caserma militare dove la strada finisce e una pista si perde tra le dune: il posto ideale per passare la notte. Tra colonne di sabbia che accecano, una macchia bianca immobile sul fondo attira la nostra attenzione: non è un miraggio, è proprio un camper quello parcheggiato alla fine del piazzale, un mansardato di grosse dimensioni. Scatta la curiosità e poi, vedendo la targa italiana, nasce quello strano impulso di fare amicizia con i connazionali all’estero; ma non c’è nessuno, il camper è chiuso. Ma quando ormai pensiamo di essere soli ecco un signore attempato, con la sorpresa e la speranza stampate in faccia, gironzolare attorno al nostro fuoristrada e farsi incontro con un sorriso interrogativo. Inizia così l’originale esperienza di viaggio di due fuoristradisti poco più che ventenni e una coppia di camperisti settantenni.
Insieme seguiamo la Rue Royale du Desert, il cui tracciato originario risale al XVII-XVIII secolo quando la dinastia alawita la fece costruire per favorire la colonizzazione del territorio saharawi. La strada, da qualche anno interessata da lavori di ristrutturazione, è a una sola corsia (in pessimo asfalto) e procede rettilinea per 2.000 chilometri verso sud, costeggiando l’Atlantico fino al Tropico del Cancro.
Alterniamo lauti pranzetti in camper mentre la tempesta di sabbia imperversa all’esterno alle escursioni in 4×4 verso oasi, scavi archeologici, graffiti preistorici e necropoli altrimenti irraggiungibili. L’equilibrio è perfetto: la comodità di un gran mansardato, con l’organizzazione di due espertissimi viaggiatori, e l’avventura del fuoristrada, con tutto l’entusiasmo dei novelli esploratori.

La pista degli uomini liberi
La Rue Royale si lascia dietro le alture spruzzate di neve dell’Atlante e si lancia verso l’Equatore, attraverso l’arido hammada di pietre nere o l’assolato deserto di sabbia; ma nel nostro procedere vedremo anche i laghi di sale e le oasi di palme, i tumuli preislamici e le incisioni rupestri, i letti definitivamente prosciugati di fiumi millenari e le spiagge bianchissime, con le scogliere a picco battute dai venti e dalle onde dell’oceano.
Poi, superata Goulmine, c’è solo il Sahara. E con il deserto c’è l’accoglienza ancora pura e disinteressata dei suoi figli. Quando un nomade saharawi ti invita per il tè, l’offerta è sincera: per la prima volta dopo molti chilometri ti accorgi che non vuole venderti nulla, non vuole scambiare niente e soprattutto non invidia nessuna delle cose che rappresenti. Fiero e tranquillo nel suo universo, paragona il resto del mondo alla sua libertà: ama la sua tenda e i suoi cammelli e non desidera case di cemento né caotiche città, grandi magazzini o lavoro d’ufficio. Sdraiati sui grandi tappeti che coprono la sabbia, gli uomini da una parte e le donne dall’altra, si possono passare ore a chiacchierare in un misto di francese e spagnolo, discutendo in tutta calma di quanti figli si hanno, di come colorare le stoffe con l’henna, di quanto costa un dromedario, un matrimonio oppure un divorzio, mentre il padrone di casa prepara couscous e carne di cammello per la cena.
Poco prima dell’ingresso a Goulmine c’è il bivio per la Plage Blanche, 60 chilometri di pista sassosa verso uno degli ultimi paradisi: è l’occasione ideale per mettere alla prova il nostro sodalizio. Lasciamo il camper in città, di fronte alla Gendarmerie, e proseguiamo sempre in direzione ovest fino a imbatterci in un minuscolo paesino. Sulla costa, ecco l’incanto: la foce di un fiume non segnato sulle carte, l’unico non prosciugato nel raggio di chilometri. Le dune di sabbia che impediscono lo sbocco al mare creano una laguna verde e rigogliosa dove i dromedari, insieme a rondini, otarde, aironi, spatole e pellicani, si riuniscono a riposare prima di affrontare il deserto; dall’altro lato, le capanne di palme dei pescatori che ci offrono pesce fresco e una buona guida. E’ qui che i Changla, i fiocinatori nomadi delle coste, vengono a raccogliere la preziosa ambra grigia dei capodogli, che viene impiegata nella preparazione di profumi e cosmetici. Al rientro a Goulmine, nel piccolo piazzale racchiuso da rosse mura che funge da campeggio pur essendo totalmente privo di servizi, cuciniamo soddisfatti seppie e sogliole appena pescate. Poi ci aspetta una serata particolare, a bagno in due vasche di acque sulfuree caldissime e piene di alghe.
La strada procede verso sud e si susseguono le baie riparate e verdissime dei numerosi oued, spiagge dalle lunghe maree, e ottimi posti per fare bivacco sia in auto che in camper; ricca è anche la fauna, con animali di ogni tipo. Ma la vera sorpresa, circa 135 chilometri a sud di Tan-Tan, è la riserva naturale di Naila, catena di impalpabili e bianchissime dune al limite del bagnasciuga che ha creato una lussureggiante laguna. Per visitarla è necessaria l’autorizzazione che si ottiene senza problemi dai gentilissimi responsabili ad Akfhenir (un paesino che si trova lungo la strada una ventina di chilometri più a nord). Ancora una volta il fuoristrada torna utile per visitare i dintorni dell’oasi, così come il nostro entusiasmo che non cala nel chiedere permessi su permessi, nel ritornare sui propri passi, nell’affrontare un guardiano che parla solo arabo.
Intanto il deserto si avvicina e le dune invadono a tratti la strada, ormai ridotta a poco più di una lingua nera tra la sabbia. Nessun problema, le piastre in acciaio del fuoristrada che funzionano da passerella vanno bene anche per il mansardato. A Tarfaya si entra davvero in terra saharawi. Rivendicate dai rivoluzionari del movimento indipendentista per il Sahara Occidentale, queste zone sono attentamente controllate dall’esercito marocchino. Il turista straniero è benvenuto e coccolato, deve solo avere la pazienza di mostrare passaporto e documenti ai vari posti di polizia (ben riconoscibili e in muratura) riempiendo moduli e chiacchierando amichevolmente con le guardie.
Il vero incanto arriva subito dopo Laayoune: chilometri e chilometri di dune maestose racchiudono l’abitato come un’inespugnabile fortezza, incorniciando il piccolo lago azzurrissimo che è la vita per gli abitanti di questo avamposto. Subito fuori dalla città inizia il cammino per l’oasi di El Hagounia, un centinaio di chilometri verso l’interno. Un’esperienza indimenticabile dove l’erg è più vero, ma con la tranquillità di non perdersi: una vecchia strada spagnola che arrivava fino all’oasi, anche se non più transitabile perché invasa dalla sabbia e sgretolata dal sole, è ancora un immancabile punto di riferimento. Lasciamo il camper vicino al posto di polizia all’ingresso della città e iniziamo la nostra piccola avventura. Incontriamo un giovane saharui in motorino che ha bucato una gomma e aspetta tranquillo un passaggio sotto un cespuglio: e noi che avevamo paura di allontanarci con un 4×4!
La Trab Lemtuna continua verso sud per 500 chilometri, oltrepassando Cape Boujour, fino alla baia di Dakhla dove il deserto comincia a prendere il sopravvento. Ancora più a sud, a poche centinaia di miglia dal confine con la Mauritania, proprio sulla linea invisibile del Tropico del Cancro, si apre l’oasi di El Argoub, una baia incontaminata dove affiorano le acque tumultuose di un fiume sulfureo sotterraneo; sulle spiagge bianche e isolate vengono a nidificare le tartarughe marine e si riposa ancora la foca monaca.
In questa zona si notano ancora le tracce di quando il Sahara era ricco di vegetazione e di vita: tumuli preistorici, graffiti rupestri, punte di lancia e macine rudimentali si trovano un po’ ovunque nelle piane che un tempo ospitavano le distese sconfinate e popolose delle savane.
Decidiamo di prendere una guida, in realtà un giovane pastore che mastica un po’ di spagnolo, per avventurarci alla ricerca della necropoli preislamica che sappiamo essere nei dintorni. E di nuovo il fuoristrada ci regala una possibilità unica, quasi a segnare il giro di boa del nostro itinerario. Dopo una decina di chilometri attraverso una pietraia vulcanica assolata, in una piana desolante, scorgiamo attorno a noi innaturali montagnette a distanze regolari: sono i sepolcri, con tanto di ossa calcinate che spuntano qua e là e persino il graffito di un bue su una parete di sasso poco distante. La pista è quasi invisibile, sepolta dalle dune in continuo movimento, i fianchi ripidi e coloratissimi delle montagne tagliano il cammino. Qui, alla fine del mondo, non c’è acqua, vita, villaggi: è questo il Sahara, l’incanto vero, quel sogno per cui siamo partiti.

PleinAir 377 – dicembre 2003

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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