La strada delle nuvole

Viaggio avventura per le strade andine dell'Argentina settentrionale. Un altro modo per volare tra profondi canyon e laghi salati, praterie e vulcani innevati, resti archeologici e città coloniali

Indice dell'itinerario

Il viaggio comincia sotto una buona stella. Lungo il tragitto compreso tra Salta e Angastaco, nel nord-ovest dell’Argentina, non una ma ben tre volpi ci hanno attraversato la strada: due nei pressi della Garganta del Diablo (la Gola del Diavolo), la terza prima di Cafayate.
«Portano fortuna, specie se vanno da destra a sinistra…» afferma senza esitazioni Elvio, la guida che mi accompagna. Un pizzico di buena suerte aiuta sempre, ma in particolare in questo viaggio che affrontiamo con una Fiat Duna rossa. «…Opportunamente privata del filtro dell’aria, per permetterle di procedere più agevolmente anche in alta quota» spiega Ramón, autista nonché meccanico e responsabile del veicolo.
L’obiettivo è scoprire l’anima del nord-est andino e in particolare le province di Salta e di Jujuy, quelle che più di altre hanno mantenuto forti legami con le tradizioni andine. Per raggiungere la puna salteña (deserto d’altura, nella lingua indigena quechua) e le sterminate saline sospese a oltre 4.000 metri d’altezza, bisogna risalire valli splendide e selvagge. Il paesaggio lungo la Ruta 68, che collega Salta a Cafayate, ha qualcosa di primordiale; il vento e le piogge hanno eroso la Quebrada de las Conchas, scavato profondi canyon, modellato pareti di roccia dalle forme e dai nomi bizzarri: El Anfiteatro, El Sapo (la Rana), El Fraile (il Frate), Los Castillos (i Castelli). Gli scenari cambiano all’improvviso; per rendersene conto è sufficiente salire su una collina, addentrarsi in una gola, spingersi al margine di uno sperone di pietra. E’ una terra splendida, poco generosa, ma affascinante e inaspettatamente varia: dalle floride pianure dei gauchos si risale ai vigneti di Cafayate, dal deserto rosso della valle di Calchaquies al vasto altopiano andino, dominato da vulcani perennemente innevati.
A volte, mentre arranchiamo verso San Antonio de los Cobres, si ha la sensazione di compiere un viaggio nello spazio e nel tempo. In quest’angolo d’Argentina, stretto tra il Cile e la Bolivia, i legami con il passato sono evidenti. Non solo per la presenza di siti archeologici precolombiani e di architetture coloniali, ma anche per il forte legame con tradizioni antichissime. All’ombra di montagne alte più di seimila metri, è ancora vivo il culto della Pachamama, la divinità da cui dipende la fertilità del suolo, la crescita del mais, la fecondità del bestiame, la prosperità degli esseri viventi. Nessuno si permetterebbe di attraversare un valico senza offrire alla Madre Terra alcuni chicchi di mais, delle foglie di coca o un po’ di aguardiente (acquavite). E’ fede, non superstizione. Da secoli, all’inizio di agosto, gli abitanti delle Ande scavano delle buche dentro le quali riporre abbondanti offerte per propiziarsi la benevolenza della Pachamama. Il sacro si mescola al profano: in ottobre a Jruya (a nord di Salta), per la festa della Vergine Maria, oltre alla processione e alla Messa, sono previsti numerosi riti di ringraziamento alla Pachamama. Al ritmo dei tamburi si balla e si beve abbondantemente, prima di annunciare pubblicamente le convivenze prematrimoniali. Per l’occasione, i contadini si recano al mercato per vendere i prodotti della terra e le pelli di lama, ma anche i simulacri di terracotta raffiguranti la dea, le foglie di coca e le piante officinali. «L’uso delle erbe fa parte della nostra cultura; dai nostri antenati abbiamo imparato a conoscere le piante, le radici, i fiori e i segreti per preparare unguenti, sciroppi e altre medicine naturali. Conoscere ciò che la terra ci offre rafforza il legame che abbiamo con la Pachamama e con i nostri avi. Sempre nel rispetto della volontà di Dio, naturalmente» spiega doña Balbino Condorí di Selcantas, un paesino adagiato nei pressi di Molinos, sulla Ruta 40.L’anziana curandera ha il viso scolpito dagli anni, la pelle bruciata dal sole dell’alta montagna, gli occhi ancora vispi, ma condannati alla cecità. Si muove perfettamente all’interno della sua casa, nella sala dove accoglie gli avventori, nel giardino dove sotto una tettoia di rami continua a lavorare al telaio. A doña Balbino si rivolgono malati veri o immaginari, uomini e donne dal cuore spezzato, tutti in cerca di un rimedio naturale o semplicemente di una parola di conforto. Da pochi giorni l’ormai ottantacinquenne curandera ha ricevuto la lettera di un bolognese, che da anni vive in Argentina. Ha scritto per raccontarle le sue pene e le vicissitudini di una vita afflitta dalla mala suerte, ma soprattutto per chiederle consigli e conforto. Dopo aver letto la missiva, doña Balbino ci accomiata con un gesto della mano e un sorriso. Riprendiamo il cammino lungo la Ruta 40, la storica carretera che taglia in due il paese da nord a sud; un tempo era una delle più frequentate vie di comunicazione del paese; oggi, almeno la parte che sta a nord di Cafayate, ha perso importanza perché molti preferiscono seguire la Ruta 9 asfaltata.
Prima dell’abitato di Cachi, deviamo lungo la statale 42 per visitare il Parque Nacional de los Cardones. Con i suoi 70.000 ettari, si sviluppa lungo la strada che collega direttamente Cachi a Salta; prende il nome da una particolare varietà di cactus gigante, il cardón, che cresce abbondante in quest’area desolata, molto simile al deserto di Sonora in Arizona. Oggi si cerca di tutelare i cardones, il cui fusto in passato è stato largamente sfruttato dall’industria mobiliera. Tornati sulla Ruta 40, il viaggio riprende in salita fino a La Poma, ultimo villaggio prima dell’altopiano andino. Qui, per la terza volta buchiamo una gomma, ma grazie a doña Flores che ci ha affittato una stanza per la notte e all’interessamento del capo della polizia riusciamo nell’arco di qualche ora a rimettere in carreggiata la Duna. Da qui la strada per il vasto altopiano andino è tortuosa, dissestata e priva di parapetto. Nonostante le nostre perplessità, l’auto riesce a raggiungere senza difficoltà il passo Abra del Acay, alla ragguardevole quota di 4.895 metri sul livello del mare. Da qui si accede alla puna e ai grandi salares, che in epoca coloniale videro passare merci e soldati. Raccapricciante è il racconto di Diego de Almagro, primo europeo che attraversò la puna: …Molti uomini e molti cavalli morirono assiderati perché né i loro indumenti né le loro armature potevano proteggerli dal vento glaciale. Molti di coloro che erano morti rimanevano così, gelati, ancora in piedi e appoggiati alle rocce, e i loro cavalli, anch’essi congelati, non putrefatti, bensì ancora freschi come se fossero appena morti… .
Al passo Abra del Acay si respira un’atmosfera irreale, il vento gelido spazza le rocce, le montagne più alte sembrano a portata di mano, ma è l’aria estremamente tersa a trarre in inganno. Ai margini della strada, una semplice costruzione di sassi (pacheta) raccoglie anche le nostre offerte per la Pachamama: un paio di sigarette, del tè, alcune foglie di coca. Dal passo scendiamo a San Antonio de los Cobres; lungo il tragitto non ci sono né case né monumenti, incontriamo solo sparuti gruppi di vigogne e una processione di indios che salgono al passo per pregare, nella giornata dedicata al ricordo dei defunti. Prima di arrivare in paese buchiamo, per la quarta volta; mentre Ramón si preoccupa di trovare un gommista, salgo sul Tren a las Nubes e raggiungo la vicina Polvorilla: uno spettacolare viadotto alto più di sessanta metri e lungo 240. Il treno turistico collega Salta a San Antonio de los Cobres e alla Polvorilla, poi torna indietro (solo biglietti di prima classe, circa 100 dollari); il viaggio, circa 400 chilometri tra andata e ritorno, dura almeno 14 ore.Il Tren de Carga trasporta merci e passeggeri; tutti i giorni lascia Salta attorno alle 10.30, è decisamente più economico, ma nessuno sa esattamente quando arriva a San Antonio de los Cobres né quando prosegue per San Pedro de Atacama, in Cile.
Il viaggio riprende in macchina lungo la Ruta 40, al margine del Gran Salar, una sconfinata distesa di sale. A parte qualche croce in memoria di camionisti usciti di strada, il paesaggio è assolutamente piatto, bianco e azzurro, desolato ma straordinariamente affascinante. All’inizio del XIX secolo il salnitro raccolto era largamente usato come fertilizzante, oggi in parte è stato sostituito da prodotti chimici industriali. Molti mineros si sono trasferiti e hanno cercato un’altra occupazione; restano le loro case e i loro villaggi fantasma. La Ruta 40 è poco frequentata da quando hanno pavimentato quella che collega Salta a Quiaca, al confine con la Bolivia. «Vale la pena percorrerla perché attraversa un territorio veramente selvaggio, di straordinaria bellezza. Durante la stagione delle piogge bisogna informarsi sulle condizioni delle strade e guidare con prudenza, soprattutto nel tratto che porta al passo Abra del Acay. In questo periodo, durante la stagione secca, si può invece percorrere la mitica Ruta 40 sin ningún inconveniente…». Le parole tuonano come una sentenza. Terminata la conversazione, spento il registratore, la nostra Duna incontra un banco di sabbia, esce di strada e si cappotta due volte. Ramón è disperato per aver danneggiato l’auto, Elvio lamenta forti dolori alla rotula, chi scrive se l’è cavata con qualche botta. La buena suerte è stata dalla nostra parte e miracolosamente l’auto riparte senza difficoltà, nonostante abbia tutti i vetri rotti, la parte anteriore e il tetto seriamente danneggiati. Così, mentre il sole cala sulla puna e il freddo diventa pungente, torniamo a San Antonio de los Cobres. Arrivati in ospedale comincia la lunga attesa, seguita dalla conversazione con un medico più interessato al tema del nostro reportage che alle condizioni del dolorante Elvio: «Dov’è avvenuto l’incidente? Ah, sulla Ruta 40, verso l’abitato di Tres Morros? Carretera muy peligrosa…». Poi finalmente il responso: «Finché non arriva l’ortopedico non si possono azzardare ipotesi, ci vogliono le radiografie, ma il radiologo non c’è, è andato a una festa» comunica il medico di turno. In America Latina si può far di tutto e il contrario di tutto, si possono scalare montagne di quasi settemila metri, coinvolgere un intero paese per liberare un’auto bloccata nel fango, ma è assolutamente impensabile interrompere una festa. Dall’ospedale ci trasferiamo in questura dove il capitano è già stato informato dell’incidente e ci aspetta nel suo ufficio. Una stanza spoglia, dove si contano decine di coppe enormi, sistemate senza un ordine preciso sopra una scrivania e su un paio di mobiletti di lamiera, simili a quelli degli spogliatoi delle palestre di provincia. Prima di redigere il verbale, il grasso capitano ci informa, senza celare un certo orgoglio, che tutte quelle coppe sono state vinte dalla squadra di football di San Antonio de los Cobres.
Avvolto nella sua nera giacca di piuma, comincia a chiedere le nostre generalità e, chissà perché, anche quelle dei nostri genitori. «Dov’è avvenuto l’incidente? Ah, sulla Ruta 40, verso l’abitato di Tres Morros? Carretera muy peligrosa…» precisa anche lui, prima di riprendere a picchiettare con i due indici sui tasti di una vecchissima macchina per scrivere. All’improvviso s’interrompe, come se avesse avuto un’intuizione, guarda Elvio che giace dolorante seduto su una sedia e chiede : «E così siete saliti da La Poma; alla pacheta del passo Abra del Acay che cosa avete donato alla Pachamama?». Probabilmente le foglie di coca erano poche…L’altro mondo in cinque tappe
L’itinerario proposto comprende lunghi tratti di strada non asfaltata e di piste non sempre evidenti, pertanto è indispensabile un veicolo a trazione integrale; si può noleggiare presso gli uffici dell’Avis a Salta, in aeroporto o in città (Alvarado 537, tel. 087 317575). La patente internazionale e, a volte, la carta di credito sono necessarie per il noleggio.
Vi consigliamo d non viaggiare di notte, di partire sempre con il serbatoio pieno, di avere una tanica di carburante di riserva e di chiedere in loco informazioni sulla percorribilità delle strade. Nei paesi più popolati è possibile pernottare in alberghetti o pensioni a conduzione familiare; tenda e sacco a pelo possono essere utili per far fronte a un bivacco imprevisto. Chi scrive ha passato una notte in macchina grazie a un buontempone che aveva spostato un cartello sulla strada di Jruya. I tempi segnalati sono assolutamente indicativi e si allungano di molto durante la stagione delle piogge.

Prima tappa
Salta è una delle città coloniali più belle dell’Argentina. Vi consigliamo di visitare: Plaza 9 de Julio con la cattedrale, il Museo Histórico del Norte (da martedì a venerdì, ore 9.30/13.30 e 15.30/19; sabato e domenica, al mattino), la chiesa di San Francesco (XVIII secolo) e il Museo Antropológico Leguizamon in Calle Caseros (da lunedì a venerdì, ore 8.30/12.30 e 14/18.30). Da Salta seguite la Ruta 68 che attraversa la rigogliosa Valle de Lerma; dopo un centinaio di chilometri inizia la Quebrada di Alemania, che poi si collega alla bellissima Quebrada de las Conchas, fiancheggiata da belle pareti rocciose. Arrivati a Cafayate (190 chilometri da Salta; da vedere il Museo Arqueológico Calchaquí) deviate sulla destra per la R40 in direzione nord nord-ovest, per la Valle del Río Calchaquí.
Ad Angastaco vi conviene sostare per visitare il museo cittadino e, a circa 8 chilometri, la chiesa del Carmen (chiedere informazioni su dove trovare le chiavi della chiesa all’Hostal de Angastaco). Proseguite lungo la R40 in direzione di Cachi. A Molinos potete acquistare manufatti tessuti a mano e visitare la chiesa di San Pedro de Nolasco del 1639 (monumento nazionale). Sempre lungo la R40 si arriva a Cachi (2.280 m) dove vi consigliamo di visitare il museo archeologico, uno dei più interessanti del nord-ovest (aperto da lunedì a sabato, ore 8/18; domenica 9/12). Questa tappa, di circa 380 chilometri, si svolge in buona parte su strade bianche e richiede poco più di 11 ore.

Seconda tappa
Proseguite lungo la R40, che s’inerpica prima fino a La Poma e poi al passo Abra del Acay (4.895 m); da qui scendete fino a San Antonio de los Cobres (3.775 m, 91 km da La Poma). Oltre al paesaggio questo pueblo di minatori offre ben poco; conviene vedere il viadotto La Polvorilla, dove passa il Tren a las Nubes. Si trova a 4.200 metri, circa 20 chilometri a ovest di San Antonio. La tappa, lunga circa 180 chilometri, richiede da 7 a 8 ore.

Terza tappa
Da San Antonio procedete verso nord, dopo una ventina di chilometri lasciate sulla sinistra la R38 e continuate sulla destra per la R40, in direzione di Salinas Grandes. Lungo il tragitto sono visibili alcuni villaggi abbandonati, ma ancora ben conservati. Dopo Tres Morros (2.800 m) incontrerete un altro bivio: ignorate la strada che scende sulla destra a Purmamarca e continuate lungo la panoramica R40, che si collega alla R9 poco prima di Abra Pampa. Il percorso di circa 200 chilometri si svolge su piste poco frequentate e insidiose per i banchi di sabbia. Sono necessarie una decina di ore.

Quarta tappa
Se avete tempo a disposizione, da Abra Pampa vi consigliamo di raggiungere la Laguna di Pozuelo, famosa per i fenicotteri rosa. Seguite prima la R7, poi deviate per la R69. Vi consigliamo di chiedere informazioni sulla percorribilità della strada al comando di polizia. Dalla Laguna di Pozuelo proseguite lungo la R69 fino a Torquero, dove si devia sulla destra per La Quiaca, al confine con la Bolivia (complessivamente circa 6 ore, 200 km).

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Quinta tappa
Da La Quiaca continuate verso sud lungo la R9 fino a Humahuaca (da vedere le rovine precolombiane, il museo del folklore e il Museo del Carnaval Norteño. Continuate verso sud lungo la R9 fino a Tilcara dove vi consigliamo di visitare il museo archeologico e, fuori dal centro, il giardino botanico e i resti di una fortificazione precolombiana (Pucará). Ripresa la R9, dopo circa 26 chilometri deviate sulla destra per il paese di Purmamarca, posto alla base del Cerro de los Siete Colores. Altrimenti, potete proseguire lungo la R9 fino a San Salvador de Jujuy (da vedere la Plaza Belgrano con la cattedrale e il palazzo del Governo) e Salta. Circa 400 chilometri, che richiedono dalle 8 alle 10 ore.

PleinAir 368 – marzo 2003

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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