La storia è un fiume

Nella sua lunga corsa verso il Mar Nero, dopo aver segnato il confine con la Repubblica Slovacca, il Danubio taglia l'Ungheria da nord a sud diventando il filo conduttore di un viaggio pleinair intessuto d'arte e di cultura, fra serene campagne, verdi boschi ripariali, pianure che già sanno d'Oriente.

Indice dell'itinerario

Talpra magyar!, avanti ungheresi! Con queste parole sulle labbra morì in battaglia Sándor Petöfi, poeta e combattente in quel magico 1848-1849, quando in Europa giovani d’ogni età si sollevavano contro gli oppressori interni e stranieri. Erano tempi di amicizia e aiuto con i patrioti italiani, avendo lo stesso nemico: l’imperante dinastia degli Asburgo. In Ungheria, d’altro canto, si è sempre lottato per la libertà e la sua storia è quella di un popolo strapazzato da dominazioni turche, germaniche, slave.
Quando c’era solo una bella pianura con grandi fiumi che arrivano dalle Alpi e dall’ampia catena dei Carpazi, giunsero i Romani a portare la civiltà; chiamarono questa terra Pannonia e vi fondarono città presso i fiumi, che sapevano navigare e attraversare. Poi dall’est sopravvennero i barbari distruttori: i Goti, gli Unni guidati da Attila (V secolo), gli Ungari (IX secolo). Con Stefano (X secolo) e Ladislao (XI secolo), re e santi, si diffuse il cristianesimo e dal caos si passò allo stato e alla civiltà feudale, ma sempre con il desiderio di allargarsi: ed ecco che nel XIV secolo i Magiari, conquistate Croazia e Dalmazia, potevano fare il bagno nell’Adriatico. Più tardi, a parte il regno di quel grande militare e intellettuale del Rinascimento che fu Mattia Corvino, nel XV secolo, seguì una storia di sconfitte con l’occupazione degli Ottomani da una parte, degli Asburgo dall’altra. La dominazione turca, in particolare, ebbe come effetto quello di far scomparire le tante belle costruzioni romaniche, gotiche, rinascimentali; si salvarono solo i piccoli beni mobili, oggi reperti da ammirare nei musei.
L’Ungheria rinacque a fine ‘600 con la cacciata dei Turchi, e ricostruì in stile barocco, mentre nell’800 i fermenti nazionalistici provocarono una gara di prestigio con Vienna, la capitale asburgica. Ma anche il dominio austriaco si sarebbe rivelato pesante e ogni tentativo di indipendenza era destinato all’insuccesso, fino a quando si arrivò al compromesso dell’Impero Austro-Ungarico. Così i Magiari si trovarono dalla parte sbagliata nella Prima Guerra Mondiale e ci rimisero un terzo del territorio, benché popolato a larga maggioranza da ungheresi: la fascia oltre il Danubio e le montagne dei Carpazi con la Slovacchia andarono alla nascente Cecoslovacchia, la Voivodina alla Jugoslavia, la Transilvania alla Romania, la regione del lago di Neusiedl contentò l’Austria perché era orto e frutteto di Vienna (si salvò solo, con un referendum, il capoluogo Sopron).
Con la Seconda Guerra Mondiale, di nuovo dalla parte sbagliata, l’Ungheria conobbe il giogo degli amici nazisti e poi quello dei nemici sovietici, diventando nel 1949 una repubblica poi entrata nel Patto di Varsavia. La rivoluzione del 1956 è stata l’ultima lotta per l’indipendenza nell’Europa romantica, con fucili e bottiglie molotov contro i carri armati della potenza straniera. Il sogno di Petöfi si è realizzato solo nel 1989, e da allora gli ungheresi hanno cancellato ogni traccia di comunismo perfino nella toponomastica.

Le città di confine
Lasciando l’Austria si perde il rassicurante riferimento dei profili collinari e ci si inoltra in un terreno piatto con qualche ondulazione, verso un orizzonte che già si apre sull’indefinita vastità dell’Oriente.
A lenire la nostalgia del mare gli ungheresi hanno il grande lago Balaton e il Duna, ovvero il Danubio, un fiume navigabile talmente lungo da unire le sponde di ben otto paesi europei. L’acqua gli arriva dalle Alpi e da metà dell’Europa Orientale, ma il Danubio venne immaginato come un ramo del Mar Nero che penetra nel continente, tanto che il conteggio dei chilometri – più o meno 2.900 – inizia con lo zero alla foce, forse anche perché sui vari rami delle sorgenti nella Foresta Nera e in Svevia i geografi ancora discutono. Visto che il primo tratto del suo corso in terra magiara è stato stravolto dalle opere effettuate negli anni ’80 in Slovacchia (vedi riquadro “Una guerra ambientalista”), all’Ungheria rimane qui il Mosoni-Duna, un ramo che si stacca dal principale a valle di Bratislava, ritrovando il grande fiume più a sud dopo aver serpeggiato in continue giravolte per oltre 120 chilometri contro i 50 in linea d’aria. Nella piatta campagna, coltivata a grano, mais, girasoli, patate, lo si individua per la sottile striscia di bosco ripariale che talvolta s’allarga creando un ombroso spazio naturale: salici, olmi, ontani, pioppi gattici alti, fitti e robusti, con le fronde sull’acqua o al di là di qualche spiaggetta di ciottoli frequentata da grossi gabbiani.
La regione tra il Duna e il Mosoni-Duna forma di fatto un’isola, Szigetköz; al suo interno nasce e muore dopo una trentina di chilometri di giravolte anche lo Zátonyi-Duna, e altri piccoli fiumi appaiono e scompaiono in un terreno che pare una spugna. Chi mettesse in acqua una canoa, finché resta nella pianura coltivata vede i campanili dei paesi e non si perde; ma in direzione del grande Danubio (sul quale anticamente non vennero costruite città, perché la corrente era troppo forte e i rami secondari numerosi e mutevoli) un bosco alto e fitto chiude completamente la vista ed è vietato addentrarsi in quel labirinto. Solo durante le piene d’inverno e in primavera, in ogni caso, c’è l’acqua di un tempo, mentre nelle altre stagioni resta solo quel che non viene sottratto dall’enorme e ingordo canale slovacco.
Il Mosoni-Duna lambisce Mosonmagyaróvár, costruita sulle isole create dai diversi rami dell’affluente Lajta; pur con i suoi venti ponti, non pretende l’appellativo di Venezia dell’Est anche a causa della scarsità del flusso idrico. Un lungo terrapieno che racchiude palazzi e uffici è ciò che resta della fortezza del XIII secolo, mentre il lapidarium ricorda che i Romani si fermavano volentieri da queste parti, soprattutto grazie al fatto di trovarvi le terme che tanto gradivano. Sul corso Fö Utca si allineano edifici barocchi e rococò, perlopiù basse abitazioni talvolta sviluppate intorno a un cortile; sulla piazza centrale sorge la colonna votiva, una piramide di statue protese verso l’alto quale ringraziamento per essere stati liberati dai Turchi. Un secondo corso, pedonalizzato, è la strada del passeggio, dei caffè e dei negozi.
Qualche paese si trova vicino al fiume, ma non sulle rive; i contadini risiedono nei villaggi (qui non usano le fattorie isolate) che si susseguono l’uno dopo l’altro nella fertile campagna. A Hédervár c’è la grande residenza sei-settecentesca del casato degli Héderváry, segno di ricchezza padronale. Quando la strada ritorna nell’aperta campagna, spesso è affiancata dalla pista ciclabile: anche in Ungheria si attrezza il Danubio per i cicloturisti.
Capitale di campagna, ma anche di traffici e industrie, Györ è un’altra città fluviale, alla confluenza del Rába nel Mosoni-Duna più altri due piccoli fiumi e canali di collegamento, tutti ben inseriti nel paesaggio urbano e frequentati da barche e canoe, mentre sulle rive a prato nella bella stagione si prende il sole. L’impronta del centro storico è mitteleuropea e barocca: palazzi nei toni del giallo, dell’ocra, del verde pallido con stucchi bianchi e balconcini aggettanti chiusi da vetrate. A guardia del punto in cui i due corsi d’acqua principali si incontrano, entro possenti bastioni sorgono un castello ricostruito e accanto la cattedrale, in origine del XIII secolo, come le irregolari strade medioevali che li circondano. Nella fascia più esterna corrono strade rettilinee e grandi piazze (quella del mercato, Széchenyi Tér, era il foro della romana Arrabona), e non mancano gli inserimenti d’autorità del XIX secolo come il Palazzo del Consiglio Municipale in Szabadság Tér, con una torre di 58 metri per non essere da meno dei campanili delle maggiori chiese.
Poco dopo Györ il Mosoni-Duna rientra nel Danubio che nei 40 chilometri precedenti, in territorio slovacco, scorre diviso in due con il letto originario affiancato da un drittissimo canale artificiale, sbarrato dalla diga di Gabcikovo. Ma ora il fiume è di nuovo imponente, non si perde più nella boscaglia e, con l’eccezione di due isole, forma una sola corrente su cui si affacciano le terrazze fluviali.
Komárom, patria del compositore Ferenc Lehár le cui operette sarebbero divenute la colonna sonora della Belle Époque, è divisa in due dalla frontiera e al di là del ponte si chiama Komárno. Dai reperti romani si deduce che fosse già un punto di passaggio del fiume e un luogo di soggiorno termale, come adesso: le testimonianze della presenza dell’Urbe sono conservate nella fortezza dove il generale Klapka resistette a lungo agli Austriaci che nel 1849 avevano ripreso il controllo di tutta l’Ungheria. Un altro possente edificio militare si leva sulla sponda opposta, come a sbarrare il passaggio del fiume, mentre il sobborgo occidentale di Szöny è il luogo di un importante insediamento latino, i cui reperti riempiono i musei di Tata e di Budapest. Dopo Komárom i paesi si susseguono a pochi chilometri l’uno dall’altro, con la statale che ora procede lungo il fiume, le case allineate, uno slargo davanti alla chiesa barocca con campanile che a volte culmina nella tipica cipolla. Sulla riva destra appaiono le colline della Selva Baconia (Bakony Erdö) e il paesaggio si fa più interessante, con lunghe isole boscose al centro della corrente.
Prima di Tát il letto si allarga, e in cima a un colle fortificato un’enorme cupola annuncia Esztergom. I Romani vi impiantarono un loro castrum, e qui Marco Aurelio ebbe l’agio di scrivere i dodici libri dei suoi Ricordi. Nel X secolo gli Ungari vi posero la loro capitale; sacerdote e re, Santo Stefano ne fece anche il centro religioso, quindi l’origine della nazione. Chiese e palazzi della cittadella del potere, edificati nel XII secolo, furono distrutti nel 1543 dai Turchi: gli scavi hanno riportato alla luce una cappella, ambienti medioevali e rinascimentali con affreschi, un lapidarium e qualche altro resto della splendida corte di Mattia Corvino. Sconfitti gli Ottomani nel 1683 sulle rive del Danubio viennese, gli ungheresi investirono nel mattone e lo sviluppo barocco oltrepassò la cinta medioevale. A Esztergom si costruì soprattutto sulla riva del Kis-Duna, il ramo che lambisce a sud la rupe; il potere politico si trasferì, ma la città rimase residenza del Primate d’Ungheria e quindi centro d’arte, di cultura, di restauro, come testimoniano arazzi, tessuti, oreficerie, porcellane, vetri con quanto recuperato dell’epoca romana e medioevale nel Museo Cristiano, nel Museo della Città (Bálint Balassa) e nella Bibliotheka. Presso il Kis-Duna si trovano le terme, romane e poi turche, che ora assommano piscine sportive e cure sanitarie. Il centro della città borghese, con i chiari edifici barocchi, è nella piazza Széchenyi da cui si risale Szent Tamás-Hegy, la Collina di San Tommaso, per godere il panorama sui tetti dalla cappella del Calvario. Il Museo del Danubio narra la civiltà lungo il fiume dalla preistoria ai giorni nostri, l’uso dell’acqua e del fiume per l’energia e la navigazione, il lavoro dei pescatori, dei cercatori d’oro, dei carpentieri.
Poiché nell’800 il governo era in mano agli Austriaci, la sede del Primate restò il vero centro e simbolo del paese: per questo valore di orgoglio nazionalistico fu dunque costruita, sulla dominante collina di Várhegy, l’immensa basilica che si scorge a distanza arrivando in città. Di stile neoclassico, è introdotta da un frontone sorretto da colonne corinzie e si conclude nella cupola, che arriva a ben 100 metri d’altezza ed è a sua volta sostenuta da un giro di ventiquattro colonne. All’interno, lungo 118 metri, pregevoli sono il Tesoro, con oreficerie e tessuti straordinari, e la rinascimentale cappella Bacócz del 1506, recuperata da una precedente chiesa. Nel secolo in cui si copiava di tutto e l’esotico era di moda, c’è perfino la cappella sotterranea con le tombe degli arcivescovi in stile egizio.

A nord di Budapest
Il confine con la Slovacchia si allontana lungo un affluente, mentre a Zebegény il Danubio compie una netta curva verso sud, familiarmente chiamata “il ginocchio”, diventando tutto ungherese. I villaggi toccano la riva con approdi e mulini e si dispongono sul pendio, con la chiesa in cima e, più su, le rovine di antiche fortezze. Appaiono le viti, a ricordare che l’Ungheria è una terra di grandi vini. E’ la zona più pittoresca, romantica, turistica del grande fiume, dove si susseguono camping, piccoli hotel e ristoranti per chi arriva da Budapest, ormai non lontana.
Poco prima, sulla riva destra, sorge Visegrád dove Mattia Corvino fece costruire un’enorme reggia; ma ben prima vi si erano sistemati i Romani e, nel Medioevo, i re ungheresi della casa d’Angiò, del cui castello rimane un porticato gotico nella parte superiore della triangolare cittadella. Nel museo qui ospitato c’è anche una parte più ludica a ricreare la vita di corte con le scene in costume, i giochi degli arcieri e, tra i chioschi di souvenir, persino il falconiere che offre guantone e falco ai turisti per la foto. La lunga fortificazione inizia al bastione fluviale salendo sulla collina; appena più in alto c’è la massiccia torre esagonale del 1250, alta 32 metri per cinque piani, mentre il muro di cinta prosegue fino alla cittadella che offre un ampio panorama su Visegrad e sul Danubio, con il corso che si divide in due a circondare l’enorme Isola di Szentendre.
I soliti Turchi distrussero anche la reggia di Mattia Corvino che era lunga 500 metri, larga 150 e si articolava su cinque livelli; ora è stata in parte ricostruita e in parte è sotto scavo per recuperare altri ambienti. L’edificio aveva elementi gotici, come la fontana al livello superiore, e rinascimentali, come la splendida fontana di marmo rosso nel cortile, poiché la diletta moglie del sovrano, Beatrice, era italiana; scomparsi il palazzo della regina e la cappella, non resta che visitare il museo dove, fra reperti e preziosità, i plastici illustrano quel che era la città oggi scomparsa. Di fronte c’è Nagymaros, la località che dà il nome alla battaglia vittoriosa degli ambientalisti ungheresi per salvare il Danubio nel tratto più bello.
I detriti alluvionali hanno formato l’Isola di Szentendre, lunga 31 chilometri e larga circa 3, cui si giunge con il ponte di Tahitótfalu. Base di sport acquatici e nautici, è formata da uno strato di ghiaia fra due strati di argilla, che hanno l’effetto di costituire una sorta di filtro naturale delle acque del fiume, rifornendo così la valle e Budapest. Dei due rami del fiume che la costeggiano quello più largo corre sulla sinistra orografica, dove sorge la barocca città di Vác con la grande cattedrale, chiese, palazzi, un arco trionfale all’ingresso nord e un ponte sull’affluente all’ingresso sud. Ma è il ramo di destra il più visitato perché qui c’è Szentendre, già stazione romana di confine e oggi frequentatissima meta di escursioni da Budapest, in un turbinio di bus e battelli che scaricano folle di turisti nel centro popolato da pittori vedutisti, ristoranti, negozi di abbigliamento folk, ceramiche, souvenir (come dire che la si apprezza meglio fuori stagione). Oltre alle attrattive e ai musei locali c’è anche il museo etnografico nazionale all’aperto, chiamato Skanzen, con case contadine a partire dal XVIII secolo. Nonostante la latitudine, il ben diverso contesto geografico, le case barocche dai nordici tetti e la guglia svettante della chiesa, Szentendre sembra ricordare i paesi della Costiera Amalfitana con piazzette, scalinatelle, muretti fioriti e stradine tortuose che si inerpicano nelle pieghe della collina. A spiegare questa sorta di meridionalità è la sua origine: fu infatti costruita da profughi della Dalmazia e della Serbia ortodossa, qui giunti una prima volta nel XIV secolo e poi a decine di migliaia dopo la liberazione dell’Ungheria dal dominio turco.

In visita alla capitale
Dove termina l’isola e i rami del Danubio si riuniscono, è arrivata l’espansione di Budapest. Pur con le gru all’orizzonte, le rive appaiono ancora molto boscose, interrotte da moli, depositi di ghiaia, magazzini, cantieri navali e altre lunghe isole. Attraversata dal fiume per 25 chilometri da nord a sud, con la signorile Buda stretta ad ovest fra le colline e Pest piatta e dilatata verso i quartieri periferici orientali, è una metropoli il cui ingresso a tutta prima sconcerta il turista, fin qui abituato a centri storici di poche centinaia di metri e traffico scarso e tranquillo.
Se si giunge da nord per la statale della riva destra, superata la più recente periferia di palazzoni ordinati e di grandi concessionarie di automobili si è ad Aquincum, l’antenata romana. C’era già all’ora una predisposizione alla grandiosità, perché dall’anfiteatro civile a quello militare da 6.000 posti ci sono ben 2 chilometri e mezzo, che a quell’epoca erano una bella distanza; e la città, fondata in una zona ricca di sorgenti, arrivò a 50.000 abitanti. Si possono vedere i bassi ruderi del Ginnasio e delle Terme, con il relativo museo, dov’è esposto anche il piccolo ma prezioso mosaico del mito di Ercole trovato un chilometro più a sud nella Hercules Villa, in Meggyfa Utca, che conserva in loco i mosaici pavimentali. Siamo nel quartiere di Óbuda, al quale corrisponde sul fiume l’omonima isola seguita dalla Margit Sziget, l’Isola Margherita, tutta a parco e stabilimenti termali. Superata anche questa arriviamo in centro a Buda, capitale dei Magiari e dei Turchi, a loro volta estimatori delle acque curative: in Fö Utca si trova il Király Gyógyfürdö, bagno termale fatto costruire da un pascià nel 1565.
Il quartiere più originale, spettacolare e panoramico è quello del Vár, il castello, quasi a picco sul Danubio e quasi interamente pedonale. La parte alta è divisa in due dalle regole del turismo di massa: a nord il quasi intatto, delizioso quartiere barocco di Fortuna Utca e Uri Utca, dove si passeggia in pace, mentre il resto bisogna dividerlo con plotoni di turisti capitanati dalle guide. Dalla piazza con l’ovvia colonna, festoso trionfo di statue, si ammira l’imponente, slanciata chiesa di Nostra Signora o di Mattia (Mátyás Templom, da cui è famosa la vista panoramica) stretta fra l’hotel Hilton e il Bastione dei Pescatori: l’aspetto goticheggiante non inganni, poiché è stata costruita a cavallo fra ‘800 e ‘900.
Il Municipio e poco altro sono ciò che rimane della Buda medioevale e rinascimentale; la città-fortezza difendibile, con il sottosuolo traforato da grotte (in parte visitabili), termina a sud con il grandioso complesso del Palazzo Reale, sede del potere fin dalle origini con i re magiari, medioevali e rinascimentali, occupato dai Turchi e poi dagli Asburgo, con ristrutturazioni e sovrapposizioni per dare spazio alla corte e agli uffici. Le bombe e i due mesi di assedio nel 1945 hanno instaurato il processo inverso, riportando alla luce il Medioevo o ricostruendolo sulla base di antiche stampe e descrizioni, oltre agli enormi restauri e all’utilizzo finale per scopi espositivi. Sulle piazze del castello ci sono le statue dei nobili eroi, tutti a cavallo (solo il mandriano della puszta non è in sella ma si limita a reggere la briglia); al posto d’onore Eugenio di Savoia, vincitore dei Turchi, che guarda soddisfatto dall’alto il fiume maestoso, al di là il centro di Pest e, nella foschia, l’intera Ungheria liberata.
Se si arriva da sud si sale alla Gellért-Hegy, roccione calcareo a picco sul fiume, il più alto punto panoramico. Da qui la città è chiara come sulla carta topografica: sotto c’è il Ponte Elisabetta, guardando a nord quello delle Catene, il Ponte Margherita che tocca lo spigolo dell’isola omonima con il Ponte Arpad all’altro estremo; a sud il Ponte della Libertà, poi il Petöfi, la curva del fiume, il porto industriale e l’inizio del ramo Soroksári-Duna. Dalla collina si controlla tutto e gli Austriaci, dopo la rivoluzione del 1848-1849, ci costruirono una fortezza, la Cittadella. Da quassù si vede anche l’Europa che passa: il Danubio, largo da 245 a 470 metri in città, non sembra nemmeno scorrere come un fiume e ricorda quasi una striscia di mare, con ormeggi alle banchine, una profusione di battelli turistici, rimorchiatori con al traino fino a quattro bettoline, motonavi da carico, navi da crociera procedono lentamente su una rotta che, a mettere a fuoco la geografia del continente, va dal Mar Nero al Mare del Nord.
Pest è una città perlopiù ottocentesca. A causa dell’occupazione turca che li aveva tenuti fermi, gli ungheresi si sentivano in ritardo rispetto all’Europa: distrussero il “vecchiume” e a fine ‘800 i tre quarti delle case erano costruzioni recenti. Ma quel modernismo eclettico, imitativo, teatrale ha dato luogo a un’architettura gerarchica e pesante, come il neorinascimentale duomo di Santo Stefano, fino al culmine dell’orgoglio nazionale fatto pietra: l’immenso tempio laico del Palazzo del Parlamento, 300 metri di facciata in falso gotico tempestato di merletti, pinnacoli e cupolone Più che megalomania è una sfida, simbolo del popolo e della democrazia contrapposto alla mastodontica reggia nella nobiliare Buda (reggia che, a sua volta, era stata una sfida alle corti europee, capace di impressionare gli ambasciatori con la sua maestosità, dando l’idea che quel paese di allevatori e contadini fosse uno stato potente). Alla voglia di farsi valere in Europa, del resto, si devono anche altre strutture: nel 1896 c’era già la metropolitana. La visita tocca ancora il Teatro dell’Opera e i fantasiosi edifici Jugendstil di Odon Lechner, da cercare nella miscellanea di storicismo e postmoderno che ha segnato, rispettivamente alla fine dell’800 e del ‘900, le due epoche di boom economico.
Le bombe della Seconda Guerra Mondiale distrussero 33.000 edifici, ma gli ungheresi, gente che ne ha passate tante, sono tenaci: svilupparono il turismo, ospitarono frotte di stranieri le cui valute tenevano su il morale e permisero a Budapest, divenuta la metropoli dell’oltrecortina, di rifarsi il trucco: restauri nel quartiere antico di Buda, mentre Pest, già prima del ritorno alla democrazia e al capitalismo del 1989, si colorava e si animava di affari, commerci, divertimenti, con insegne, vetrine scintillanti, caffè all’aperto, nuovi edifici in vetro e acciaio, banche, cinema, night club. Ai tempi di Ferenc Molnár, inizio del XX secolo, i Ragazzi della Via Pal abitavano in periferia e le nuove costruzioni avanzavano distruggendo il loro piccolo mondo; adesso Pal Utca è una strada di palazzi grigi nel centro di Pest, dentro la prima cerchia dei viali, vicino Kálvin Tér.

L’Isola Margherita
La passione degli ungheresi per gli sport acquatici (non per caso primeggiano nel nuoto e nella pallanuoto) si riassume in quella vera e propria oasi urbana che è la Margit Sziget. Pagana, religiosa, nobile, profana è la storia dell’isola che facilitava l’attraversamento del Danubio ai Romani e che era anche un luogo meglio difendibile; non restano quasi più tracce del palazzo reale del XII secolo e di vari conventi che la bordavano, in uno dei quali visse Margherita, principessa e santa. Erano ormai scomparsi il boschetto e la selvaggina (si chiamava anche Isola delle Lepri) quando il principe palatino József, a fine ‘700, ne fece un parco: oggi è un ambiente verdissimo di sorgenti e giardini di piccole pietre, querce, tigli, salici piangenti, radure dove passeggiano i pavoni. Dal 1868 ci arrivò il tram a cavalli e vennero aperti al pubblico i bagni termali Palatinus, la cui capienza attuale ha superato i 10.000 ospiti.
Sui 2 chilometri dell’isola dilaga la voglia di gaiezza degli ungheresi: dalla collina si vede spuntare solo il “castello d’acqua”, un serbatoio che vuole essere bello, ma nascosti nel verde ci sono lo stadio nautico (con una piscina olimpionica e altre vasche), lo stadio per l’atletica, due grandi alberghi, un teatro all’aperto da 3.000 posti per prosa, musica e opera. Oggi si chiama turismo urbano, ma per generazioni di abitanti di Budapest la Margit Sziget è stata ed è l’isola delle vacanze, il posto in cui si incontrano segretamente gli innamorati, il sogno dei mari del Sud.

Attraverso la puszta
Dove il Danubio lascia la città si stacca un ramo, il Soroksári-Duna, che abbraccia l’Isola Csepel, del Lavoro; qui ci sono il trafficato porto franco, i cantieri navali, le industrie metalmeccaniche, i quartieri operai. L’isola è lunga 42 chilometri, ma le fabbriche finiscono presto e ritorna la campagna, che il fiume rende comunque turistica. Il ramo sinistro, detto anche Ráckeve-Duna, è invece zona naturale protetta, con limiti ai motoscafi, perché non disturbino chi si gode chalet, spiagge, boschetti e birdwatching.
Quasi al termine della Csepel Sziget c’è Ráckeve, un altro centro creato dagli Slavi (che gli ungheresi chiamano rác) quando nel XV secolo fuggivano davanti ai Turchi in cerca di una nuova patria; da vedere una bella chiesetta ortodossa. Forse gli abitanti fecero un buon prezzo ad Eugenio di Savoia, che aveva cacciato i Turchi; fatto sta che l’idolatrato condottiero in pensione, diventato ricchissimo e con la mania del mattone, nel 1698 comprò lì una tenuta e ci fece costruire un grandioso palazzo, che richiese oltre vent’anni di lavori al maestro del barocco austriaco Lucas von Hildebrandt. Ma poiché era più divertente vivere nella brillante Vienna piuttosto che isolato in campagna a 40 chilometri da Budapest, il principe finì per non abitarci mai; e quando anche la figlia morì senza eredi i fortunati Asburgo, che avevano pagato al principe favolosi stipendi, si ripresero l’esborso incamerando tutti i palazzi, compreso Ráckeve.
Il Danubio continua a scendere verso sud e fu il confine della Pannonia romana; ad est c’è l’Alföld, la terra bassa che spesso il fiume inondava portandovi la sabbia (una disgrazia per i contadini, ma non peggio dei briganti e dei Turchi, responsabili di aver distrutto i boschi poi fatti ricrescere lungo il fiume, anche per rassodare le rive). Scomparse le colline, ci troviamo di fronte alla piatta distesa della puszta, un suolo sabbioso e arido: ma l’acqua è appena al di sotto e bastava scavare i pozzi per abbeverare le mandrie e mettere la steppa a frutteto e coltivo. Dopo cinque secoli di colonizzazione degli Ungari, i Turchi fecero terra bruciata e fu di nuovo il deserto. Nel ‘600 vi si stabilirono le tribù Hajdu, rudi allevatori di bestiame, che hanno creato un mito fatto di orizzonti sconfinati, costumi multicolori, violini appassionati, cavalli al galoppo. Dal ‘700 gli Asburgo mandarono coloni tedeschi, slavi, rumeni, e da allora l’agricoltura ha riconquistato il territorio pur senza intaccare il fascino dei romantici cavalieri della steppa. D’inverno la regione è decisamente fredda, ma la fama di avere estati caldissime è falsa, dovuta soprattutto alle immagini di sole sfolgorante e all’altro mito della fata morgana, quando basta un modico calore sulla pianura perché, per fenomeno di rifrazione, il profilo di un lontano paese venga riprodotto ingrandito sopra l’orizzonte.
Per gli uccelli migratori in volo su una pianura con scarsa acqua di superficie, se si eccettua qualche stagno talvolta salmastro, il Danubio è l’autostrada comoda, fresca e dritta da nord a sud: qui il grande fiume corre riunito un’unica corrente, con qualche braccio di acqua ferma e isolette popolate solo dagli animali. Su un fertile rialzo fatto di detriti fluviali, dove i primi abitatori erano dell’Età del Bronzo, i Romani fondarono Intercisa, come ricorda il locale museo; nel 1950 era un paese agricolo di origine serba, Dunapentele, con la chiesa ortodossa barocca nel punto più alto e gli ormai rari battelli-mulino su un ramo del Danubio, mentre il letto principale si trova oltre una lingua di sabbia. In quell’anno al villaggio fu affiancato Sztálinváros (Stalin, nome di battaglia del dittatore sovietico, significa acciaio): un enorme complesso siderurgico e relativa città operaia completa di servizi sociali, culturali e sportivi, spiagge e anche l’ufficio turistico. Il regime la considerava infatti un’attrattiva per molti visitatori ungheresi e stranieri, come recita un opuscolo stampato senza data ma a dittatore ormai defunto da lungo tempo perché la città aveva già il suo ultimo nome, Dunaújváros.
Nel paesaggio sempre orizzontale, di boschi, campi e pascoli, i campanili annunciano i paesi anticamente sorti dove il fiume aveva creato depositi alluvionali presso la riva. Oltre a due campanili barocchi (degli ortodossi serbi e dei frati francescani), una torre annuncia Dunaföldvár, città munita di fortezza sulla collina e di una torre per ampliare il raggio di visuale: il rischio di attacchi era elevato, essendo questo un raro e ambito luogo di passaggio del Danubio a sud di Budapest. Qui ritroviamo le isole, lunghe qualche chilometro, mentre il fiume riprende a divagare; le due statali che procedono verso sud non lo costeggiano più, limitandosi a toccare le anse più larghe. Strade secondarie seguono invece le curve del fiume o conducono ai numerosi traghetti, e spesso c’è una czarda, la tipica osteria, dove la specialità è immancabilmente la zuppa di pesce del Duna.
Paks ha una notorietà ambigua poiché vi sorge nei pressi l’unica centrale nucleare ungherese, che utilizza le acque del Danubio per il raffreddamento, mentre la cittadina vanta edifici di stile neoclassico e la posizione sulle rive del fiume. I paesi infatti se ne tengono un po’ discosti e sono di basse case rurali color ocra o giallo, con tegole rosse e alti tetti spioventi, più per avere un grande fienile che per l’esigua neve. Si conferma la preferenza dei contadini a vivere nei centri urbani, dove si trova di tutto: le fattorie isolate sono poche e si dedicano perlopiù all’allevamento (una lontana macchia bianca sul prato presso un boschetto si rivela formata da migliaia di oche).
Dopo Kalocsa, le cui glorie sono i ricami e la paprika, il Danubio rallenta in ampi giri che finiscono in rami secondari di acque quasi ferme ma piene di vita animale, mentre la corrente principale segue un corso raddrizzato per esigenze di navigazione e di deflusso nelle piene. Gli argini, però, sono tenuti più distanti in modo che il fiume abbia una vasta cassa di espansione se il livello cresce: si è creata così una larga fascia di acquitrinoso terreno alluvionale, dove solo la fauna si trova davvero a proprio agio. Aumentano i boschi, in parte inondati, e le riserve di caccia con appassionati che arrivano da tutta Europa sborsando cifre cospicue per l’hobby di uccidere caprioli, cervi, mufloni, cinghiali e la fauna acquatica dei molti stagni. La zona verde più vasta è la Gemenci Erdö, foresta spontanea creatasi in una vasta zona golenale nella zona di Szekszárd, lungo l’affluente Siö e alcuni canali navigabili da barche: ora è un parco prediletto dalla cicogna nera, e sul trenino che lo percorre ci sono turisti anziché cacciatori.
Dove il Danubio segna una larga ansa c’è Baja, il cui ponte è fondamentale per il suo rango di città dove s’incontrano genti e merci. Sul ramo esterno, l’András, si presenta con l’enorme piazza Béke, contornata su tre lati da lunghi palazzi e con un grandioso edificio di epoca neoclassica posto al centro. Qui, ormai quasi al confine con i paesi slavi, gli Asburgo nel 1921 toccarono il fondo: il giovane Carlo I, ultimo imperatore d’Austria e re d’Ungheria succeduto a Franz Josef, aveva sperato di fermare la Prima Guerra Mondiale che lo vide sconfitto, perdendo con essa l’impero e l’Austria diventata repubblica. Incoraggiato dai monarchici, era tornato in Ungheria offrendosi di riprendere le funzioni di re, ma i più avversavano gli Asburgo e l’idea di un loro ritorno. Da Baja, dove aspettava la chiamata dal Parlamento di Budapest, Carlo I iniziò quindi la fuga: una cannoniera inglese lo prese a bordo e lo portò fino al Mar Nero, da dove l’ex imperatore prese la via dell’esilio a Madera.
Le fortune asburgiche erano cominciata pochi chilometri più a valle presso Mohács, nel 1526, quando un molto più numeroso esercito turco aveva travolto le truppe ungheresi. Affogando in un fiumiciattolo melmoso per sfuggire alla cattura, il giovane re Luigi II Jagellone ebbe quali eredi proprio gli Asburgo, che per tutto il ‘500 e il ‘600 organizzarono il contenimento europeo contro i Turchi dilagati fin sotto Vienna. Sul luogo della battaglia sorgono un’enorme chiesa votiva e un parco in cui sono esposte grandi statue lignee di combattenti e cavalli; in testa agli invasori, Solimano il Magnifico.
La storia dell’Europa si è svolta lungo questo fiume: anche qui c’erano i Romani e i loro reperti sono al museo, né mancano chiese barocche di varie religioni. Mohács è una piccola capitale di una regione agricola ora contornata da un parco naturale, il Béda-Karapancsa, fitto di querceti e lanche, ma conserva anche un grande porto affollato, perché qui le navi fermano per le operazioni di dogana sulla rotta dei paesi slavi. Il confine tracciato dopo la Grande Guerra favorì i vincitori, lasciando al di là regioni in prevalenza popolate da ungheresi tornati al di qua come profughi durante la cruenta guerra tra serbi e croati negli anni ’90. Oggi, con l’Ungheria ormai nell’Unione, la Croazia candidata, la Serbia anch’essa pronta ad entrare in lizza, potrebbe attenuarsi quel confine che taglia ancora il Danubio separando due Europe.

PleinAir 426 – gennaio 2008

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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