La nuova arca

Mentre vanno scomparendo le ultime tracce della guerra civile che sconvolse il paese dalla metà degli anni '70 fino al 1992, il Mozambico rinasce sotto il segno della natura: i parchi si ripopolano di animali, spiagge e foreste si attrezzano per accogliere il turismo. Che potrebbe portare nuova linfa all'economia di una nazione ospitale e ricca di risorse, in cerca di un'identità forte anche sullo scenario internazionale.

Indice dell'itinerario

Sulla baia di Mossuril il vento si è calmato. Il mare è una tavolozza di colori in tutte le sfumature del blu, dal turchese al cobalto. Sotto il cielo africano, di un azzurro intenso, gli alberi sono immobili. Mi trovo in Mozambico, di fronte all’Oceano Indiano, o in una seduta di cromoterapia che aiuta corpo e psiche a ritrovare l’equilibrio naturale?
Alla Praia de Chocas un turista si dondola sull’amaca tesa fra due palme, un altro cammina solitario. Quanto a me, nuoto in un’acqua di incredibile trasparenza con il segreto timore che uno squalo toro stia per sferrare il suo attacco, ma il mare è così limpido che dovrei vedere la sua sagoma avvicinarsi già da molto lontano. Poi la corrente comincia a trasportare a riva grossi tappeti di alghe sfilacciate, l’acqua si fa scura ed inquietante, e i filamenti che pendono dal mio corpo mi rendono simile a un danzatore makonde agghindato per il mapiko, una danza rituale mozambicana che evoca lo spirito dei defunti.
Rispetto a ieri, stamattina c’è molta più vita sulla spiaggia: oltre ai granchi fantasma che zampettano sulla riva, sta arrivando un ragazzo con enormi conchiglie avvolte in un pareo colorato. E’ l’unica frivolezza che mi concedo, acquistandone una a strisce marroni e bianche per 30 meticais, meno di un euro. Del resto, a chi altri se non a me potrebbe vendere il suo bottino l’allegro giovanotto? Certo non al pescatore che dopo una dura giornata di lavoro tira a riva la sua piroga di legno, lunga e stretta, scavata interamente a colpi di machete. Sorride anche lui, nonostante la fatica delle lunghe ore passate a navigare in precario equilibrio su questo fragile guscio che ogni giorno sfida l’oceano. Il pasto per la famiglia è assicurato, pesci variopinti penzolano da una corda. Domani chissà: nel martoriato Mozambico, che come una fenice rinasce ogni giorno dalle ceneri della lunga guerra civile, una delle più terribili d’Africa, tutto è ancora una scommessa.
Una realtà lontana da quella che conoscono i rari turisti di Chocas do Mar, confortevolmente alloggiati nei loro bungalow di legno in questo lembo di paradiso. Il pesce alla griglia con patate fritte è quasi pronto, i bicchieri tintinnano nel brindisi davanti al mare, oltre un boschetto di palme. Nulla ricorda il conflitto tra la Resistência Nacional Moçambicana e il Frente de Libertaçao de Moçambique, che ha devastato il paese dalla fine del colonialismo portoghese, nel 1975, alla firma dell’Accordo Generale di Pace di Roma nel 1992. «Questa maledetta guerra ha fatto quasi un milione di morti» dice il cameriere dietro un vassoio di pesci fumanti «compresi mio padre e mia madre». «Come si fa a pensare alla guerra in un posto del genere?» gli chiedo. «E’ l’inferno nel paradiso». Scuote la testa. Dopo tante inutili stragi, almeno è tornata la pace.

Nuotando con gli squali
Diciassette anni dopo la fine della guerra civile, il Mozambico ancora si lecca le ferite: ma la gente vuole dimenticare, è allegra, ospitale, sempre pronta a sorridere. Nei luoghi più sperduti lo straniero è guardato con stupore e ammirazione; in altri, come a Praia do Tofo, si assiste a una pacifica invasione di europei e sudafricani che vengono a fare surf sulle grandi onde dell’oceano e baldoria nei locali sulla spiaggia, dove scorrono fiumi di birra. Tofo, nei pressi di Inhambane, è una meta molto nota di whalewatching: i giganteschi, mansueti squali balena si osservano al meglio soprattutto fra novembre e marzo, in compagnia di tartarughe giganti, delfini e megattere. La visione non è garantita, ma ci sono buone probabilità che gli skipper riescano a pilotare la barca verso una grande gobba che scivola tra le onde; poi, spento il motore, si può scendere in acqua e nuotare fianco a fianco con un inoffensivo bestione che può pesare fino a 22 tonnellate e misurare 20 metri di lunghezza. Un’esperienza eccezionale, assolutamente indimenticabile, ancor più se vi si aggiunge la danza leggiadra delle mante, che sembrano volare spinte dall’armonioso movimento delle pinne pettorali simili ad ali.
Sono arrivato fin qui dall’estremo sud del paese partendo da Maputo, fondata dai portoghesi nel XVIII secolo con il nome di Lourenço Marques, il navigatore e mercante che per primo esplorò la baia nel 1544. Capitale multietnica con molti influssi sudafricani e grande centro portuale, la città conserva qualche edificio interessante, come il museo nazionale e la caratteristica stazione ferroviaria. Da non perdere il mercado do peixe, dove con poca spesa si può comprare pesce freschissimo e domandare di cucinarlo alle donne che lavorano nei ristorantini dei dintorni. E’ bene ricordarsi invece di chiedere il permesso prima di fotografare l’immenso murale (è lungo 95 metri) di Praça dos Heróis Moçambicanos, che racconta la storia della rivoluzione: questa infatti è zona militare, e il comando di polizia si trova proprio dalla parte opposta del muro.
Quissico si raggiunge con una galoppata di 350 chilometri lungo la EN1, l’ottima e poco trafficata statale che percorre da sud a nord quasi tutto il paese. Sono molti quelli che hanno deciso di lavorare o di avviare attività commerciali nel Mozambico che risorge, e tanti di loro sono sudafricani che si spostano a causa del crescente numero di attacchi contro i possidenti bianchi: a 11 chilometri da Quissico uno di questi “nuovi colonizzatori” si sta dando da fare per allestire un bar in una capanna in riva al mare alla Praia Mar e Sol, spartano campeggio-resort raggiungibile con una deviazione sterrata dalla strada principale. All’arrivo troviamo qualche bungalow vuoto immerso nel verde, e non un’anima viva se si escludono il custode e Vanessa, una gentile sudafricana che ci prepara un pasto serale e la colazione il mattino seguente. Qui c’è ben poco da fare se non riposarsi sotto un cielo trapuntato di stelle, nel silenzio rotto dai mille misteriosi rumori della natura. Passeggiando lungo il sentiero nel verde che costeggia la laguna si incontrano villaggi con capanne di legno sotto altissime palme e donne che lavorano nei campi, portando con sé i bambini dentro marsupi di stoffa. Per un tuffo bisogna invece aspettare le ore in cui il livello dell’acqua è più basso, perché da queste parti il mare spesso è mosso e le correnti sono infide.
Ancora 200 chilometri per Praia do Tofo, poi altri 350 per la prossima tappa, Vilankulo. Il sonnolento villaggio, con i suoi alberghetti di fronte alla spiaggia, è la base di partenza per le paradisiache isole del Parque Nacional do Arquipélago do Bazaruto: la minuscola, irreale Meososiu è fatta solo di conchiglie e affiora come un miraggio solo durante la bassa marea, ma sull’isola più grande vive una comunità di 3.500 persone. La barca taglia le onde scortata da delfini e pesci volanti che sembrano voler dare il benvenuto ai visitatori in un’area marina protetta dal WWF. E’ proprio all’estremità meridionale dell’Ilha do Bazaruto che si trova un’altissima duna di sabbia a picco sul mare: dalla vetta ci si affaccia su atolli, lagune blu e barriere coralline, mentre i dhow, le tradizionali imbarcazioni locali, galleggiano lente su un’acqua di cristallo nella quale nuota il dugongo, il simpatico mammifero comunemente noto come mucca marina. Passare la notte nell’arcipelago ha costi proibitivi (pernottare in uno dei lussuosi resort costa non meno di 300 euro a persona), ma è possibile compiere gite nautiche e partecipare ai safari marini organizzati.

Al di là dello Zambesi
Da Vilankulo il viaggio prosegue ancora verso nord, lasciando la costa a Beira e continuando nell’entroterra. Ci vogliono 700 chilometri e quasi dieci ore di guida per arrivare alla prossima meta, Caia, dove si può soggiornare nel cuore della foresta all’ottimo M’phingwe Camp: gestito da uno zimbabwano, è l’unica possibilità di alloggio nel raggio di centinaia di chilometri.
Ci troviamo a poche decine di chilometri dalle acque dello Zambesi. Sulle sponde limacciose del quarto fiume africano, che viene a sfociare proprio qui in Mozambico dopo una corsa di quasi 2.600 chilometri, fino a pochi mesi fa si snodavano ogni giorno lunghe file di camion, auto, carri, biciclette, chapas (i sovraffollati autobus locali), insomma ogni sorta di mezzo stipato di sacchi, valigie, animali, e poi naturalmente pedoni, tutti in attesa del traghetto che dall’alba al tramonto portava sull’altra sponda in una decina di minuti di traversata. Ma dallo scorso agosto le attese sono finite: l’inaugurazione del ponte Armando Emílio Guebuza (lungo 5 chilometri e alto 13 metri, intitolato all’attuale presidente della Repubblica), tenutasi con una cerimonia tradizionale per evocare lo spirito degli antenati, segna una nuova era per il paese. Adesso il nord, più povero e isolato, è unito al sud con ben diversa efficienza; uomini e merci possono transitare rapidamente, creando condizioni adatte allo sviluppo economico anche nelle aree più depresse. All’opera ha contribuito anche l’Italia, con un finanziamento di 20 milioni di euro.

Crocevia di culture
Attraversato il ponte, la strada prosegue di villaggio in villaggio attraverso gli incantevoli scenari dell’entroterra fino all’apparizione delle inselberg, spettacolari formazioni di roccia vulcanica che circondano Nampula. A 730 chilometri da Caia, questa è la terza città per grandezza del Mozambico dopo Maputo e Beira, ed è anche il cuore commerciale del nord.
Da qui solo 185 chilometri ci separano dalla costa e dall’Ilha de Moçambique. Approdo di antica frequentazione, questo minuscolo avamposto ebbe legami commerciali addirittura con la lontana Macao, ed è qui che nei secoli si sono incontrati europei, arabi, indiani e cinesi, generando l’irripetibile substrato culturale che vive ancora nei suoi vicoli e continua ad affascinare il visitatore. Lunga 3 chilometri e larga appena 500 metri, l’isola è collegata alla terraferma da un lungo ponte che facilita la visita di questo bene inserito dall’Unesco nel novero dei patrimoni dell’umanità. Nella parte settentrionale, la Stone Town, fanno bella mostra una serie di edifici coloniali (splendidi il Palácio de São Paulo, la Igreja da Mesericórdia e la Fortaleza de São Sebastião) che sembrano una sorta di città fantasma del XVI secolo. L’altra parte è la Cidade de Macuti, sovraffollato labirinto di case che prende il nome dai tetti di frasche: qui vedrete i 15.000 abitanti affaccendati nelle loro attività e le donne con il volto cosparso di musiro, una maschera di bellezza e di protezione dal sole ricavata dall’Olax dissitiflora, una pianta dell’Africa sud-orientale oggi impiegata anche nell’industria cosmetica.
Approdando sull’isola è probabile che vi troviate circondati da ragazzini che si offrono come ciceroni. Noi abbiamo accettato, e tre di loro ci hanno accompagnato senza lasciarci per un momento, mostrandoci luoghi nascosti e situazioni insolite. Il compenso è consistito in qualche pasto, zaini e quaderni per la scuola: erano così contenti che qualche giorno dopo la nostra partenza ci hanno telefonato. E’ piacevole bighellonare al porticciolo e perdersi tra i colori dei mercati, ma è interessante anche visitare il vecchio cimitero oppure entrare nel derelitto ospedale e rendersi conto delle terribili condizioni dei ricoverati; chiedendo con gentilezza e comportandosi con riserbo sarà perfino possibile entrare nella moschea durante la preghiera del venerdì. Da non mancare una gita alla vicina isoletta di Goa, alla baia di Mossuril o alla Praia de Chocas: presso il museo e gli alberghi troverete qualcuno disposto ad accompagnarvi con il suo dhow, ma poiché il mare è pericoloso e può cambiare da un momento all’altro, assicuratevi di salire su una barca a motore.

Ritorno a casa
Tornati a Nampula e di qui a Caia puntiamo alla meta finale, il Parque Nacional da Gorongosa, degno epilogo di un viaggio in Mozambico. Dopo essere stato una riserva di caccia dal 1920 al 1959, negli anni ’60 divenne uno dei parchi più spettacolari d’Africa, una meraviglia della natura popolata da una fauna straordinaria. I mozambicani dicevano che era “il posto dove Noè ha lasciato l’arca”, tanta era la ricchezza della vita animale: 14.000 bufali, 6.000 zebre, 5.000 gnu, 3.000 elefanti e 400 leoni, per non dire di ippopotami, coccodrilli e uccelli di numerose specie. «Quello che vedevi al Kruger in tre giorni, al Gorongosa lo vedevi in tre ore» spiega Vasco Galante, valida guida del parco. Poi è arrivata la guerra civile e dal 1976 al 1992 il Gorongosa è stato una delle aree più calde del conflitto. La miseria era senza rimedio, la fame intollerabile, e così gli abitanti delle zone limitrofe e i soldati presero a utilizzare l’unica fonte di cibo possibile, cioè bufali, zebre, antilopi. Gli animali che sfuggivano alla strage, come i leoni e gli elefanti, saltavano sulle mine.
Alla fine della guerra il 90% della fauna era stato sterminato; quattro anni dopo cominciarono lo sminamento e la ricostruzione. Oggi chi visita il parco può farsi solo una vaga idea dei tempi andati, ma si troverà comunque immerso in una natura popolata da tutte le specie già citate oltre a facoceri, impala, cicogne collolanoso, spatole africane, nyala e tante altre: è il primo risultato del costante ripopolamento portato avanti dalla Carr Foundation, un’istituzione filantropica statunitense che ha dedicato cospicue risorse alla ristrutturazione del parco e al benessere di chi abita nei dintorni. «I risultati si vedono ogni anno che passa» dice Vasco mentre guida sperando di mostrarmi almeno un leone addormentato. «E la ripresa del parco significa lavoro per tanti mozambicani: oggi sono più di duecento, molti dei quali ex bracconieri. Sono stati costruiti persino un ospedale e una scuola per le comunità dei dintorni».
Abbiamo girato tutto il santo giorno, masticato polvere e fango, ma di elefanti e leoni nemmeno l’ombra. «Vedrai!» proclama Vasco di fronte a un immenso sole rosso sulle rive del fiume Urema. «Il buon Noè, te lo dico io, sta per riportare l’arca al Gorongosa».

Testo e foto di Paolo Simoncelli


PleinAir 448 – Novembre 2009

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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