La mia India

Con questo stesso titolo Luigi Barbato siglava ventisette anni fa il resoconto del suo primo viaggio nella grande Asia. E oggi, quello del più recente ritorno, compiuto nel 1997 alla guida di un gruppo di sette equipaggi: 23.500 chilometri, contro i 25.000 di allora, rivissuti come un tuffo nella memoria. Paesaggi e umanità all'apparenza immutabili, nuove inquietudini e contaminazioni culturali, s'affacciano nelle immagini e in alcuni "quadretti" d'autore, mentre un ampio repertorio di notizie pratiche ci svela l'itinerario.

Indice dell'itinerario

Tensioni di confine
Attari Road è il nome del confine indiano con il Pakistan. Vi sono passato varie volte, e sempre era come sbarcare in un territorio amico, dopo il caotico e difficilmente decifrabile mondo pakistano. A vedere quei soldati in uniforme impeccabili, coi loro turbanti blu e rossi, marziali e scattanti, sembrava quasi di essere a Buckingam Palace. I turisti si fermavano ad ammirarli, scattando foto ricordo in loro compagnia.
Quando vi siamo passati nel ’97 tutto era diverso. Sale d’aspetto nuove con aria condizionata, tapis-roulant, pochi soldati in mimetica, e qualche funzionario in abiti civili. Il motivo è presto detto: essendosi irrigiditi i rapporti con il confinante Pakistan, il confine poteva quasi considerarsi chiuso, tranne che per i pochi turisti occidentali in transito. Appena giunti ci è stato detto che per varcare il confine bisognava avere pazienza. Intanto, ci ritiravano i passaporti e i Carnet de Passage en Douane. Parcheggiati alla meglio in un piccolo slargo, è iniziata l’attesa.Passate alcune ore la tensione era salita alle stelle, ma si stemperava la sera grazie a una spaghettata generale da noi organizzata per tutti gli ospiti del parcheggio.
L’indomani i funzionari della dogana sono arrivati dopo le 10, e ha avuto inizio il caos: chi diceva che dovevamo scaricare tutto dai mezzi, perché solo dopo avrebbero fatto l’ispezione doganale; altri, che prima avrebbero fatto l’ispezione e poi avremmo dovuto svuotare i veicoli per la pesa; altri ancora che prima bisognava far pesare i mezzi e poi avrebbero fatto l’ispezione. Ma, sia come sia, è finita che l’ispezione cui siamo stati sottoposti ha riguardato alcuni mezzi totalmente vuoti e altri totalmente carichi. Vuotati poi tutti i mezzi, si è proceduto finalmente alla pesa, dopo la quale siamo stati liberi di rimettere a posto il carico e varcare il confine. Avremmo poi saputo la ragione di questo controllo così esasperato: in un camper tedesco, transitato una decina di giorni prima, nascosti nei mobili e nei serbatoi erano stati trovati una trentina di kalashnikov, destinati ai guerriglieri del Kashmir.

Il Vaticano dei Sikh
Per la religione sikh la città santa è Amritsar, con il suo immenso Tempio d’Oro che include anche le abitazioni dei sacerdoti, un’ampia zona per ospitare pellegrini e viaggiatori di ogni razza e credo, grandi mense in cui si può cibare chiunque, e un museo. Il Tempio d’Oro, non a caso ricoperto di lamine d’oro zecchino, con gli interni decorati all’inverosimile da intarsi e mosaici policromi, sorge in mezzo a uno specchio d’acqua in cui si riflette generando un grandioso effetto scenico. Ci si arriva superando una passerella sempre affollata da fedeli. Al piano terreno vi è, sulla destra, in una sorta di piccola camera tutta vetrata verso l’esterno, un sacerdote che legge il libro sacro; nel tempio c’è una saletta in cui alcuni sacerdoti salmodiano preghiere, bruciano essenze preziose, al suono di un paio di quei classici organini indiani che i musicanti muovono con una mano; al piano di sopra vi è un ballatoio che corre tutt’intorno, da cui i fedeli si affacciano per assistere al cerimoniale. All’uscita dal tempio di solito si riceve un pugnetto di grano macinato grosso, da mangiare, e un fiore, per lo più campanule di colore giallo arancione. A colpire non è solo l’atmosfera mistica che pervade il luogo e le persone. E’ anche lo scoprire che davvero alle mense del tempio chiunque può sedersi e mangiare: e così si vede un indiano in doppiopetto e cravatta accanto a un horseman, un ex paria che porta in giro le persone con il risciò; una donna con un sari splendido, accanto ad una vestita poveramente. E non mangiano soltanto, ma discutono tra loro come fosse la cosa più naturale del mondo. Cosa straordinaria per l’India, dove rimane la netta distinzione tra le classi del popolo, che emerge anche dai comportamenti e persino dal linguaggio impiegato tra le diverse categorie sociali e censuali.
Il momento più suggestivo della vita del tempio è certamente all’imbrunire, allorquando all’uscita si forma una piccola processione di fedeli che accompagnano i sacerdoti a riportare il libro sacro nel luogo ove è conservato. Il gruppo procede lentamente alla sola luce delle candele, salmodiando brani del libro e cantando inni sacri, accompagnati da flauti, trombe e organini. Il fiero popolo Sikh, decimato dalle truppe inglesi nei primi anni del secolo, e una seconda volta da quelle indiane dopo l’assassinio di Indira Gandhi (compiuto per mano di due guardie del corpo sikh), è riuscito tuttavia a ricostruire il proprio tempio, ad essere più numeroso e forte di prima, e a rappresentare sempre nella società indiana uno dei punti di riferimento a livello militare, industriale e commerciale.La Venezia del Kashmir
Mi recai per la prima volta nella capitale del Kashmir nei primi anni ’70, quando il Pakistan non aveva ancora avanzato le sue cruente rivendicazioni su questo territorio. Allora Shrinagar sembrava una città fuori dal mondo, una specie di Bengodi.
I turisti e le classi agiate indiane l’affollavano per sfuggire alla calura opprimente. Era piena di luci e colori, di gente, con centinaia di risciò-taxi e di chikar-taxi che portavano merci e persone verso le house-boat ormeggiate sul grande lago. E sotto il cielo celeste, terso allo spasimo a 2000 metri di quota, aggirandosi in chikar-taxi si udivano musiche indiane miste alle canzoni dei Beatles, di Joan Baez e di Bob Dylan sgorgare dalle house-boat abitate da turisti di tutte le razze, pronti ad invitare chi transitava con uno chikar, a fare quattro chiacchiere e sentire un po’ di musica.
Quando vi sono tornato nel 1994 la città era quasi irriconoscibile. Insieme al coprifuoco gravava una pesante cappa di piombo, l’aria era cupa, le strade quasi deserte e pattugliate da soldati dell’esercito indiano. Se n’era avuto un’anticipazione fin da Jammu: colonne di camion carichi di soldati, jeep con mitragliatrici pesanti o bazooka, autoblinde e numerosi posti di blocco. La gioiosità era del tutto scomparsa da Shrinagar.Nel 1997 si notava un certo risveglio alla vita: la gente aveva ricominciato a riversarsi per le strade, vi si poteva di nuovo incontrare qualche turista. Non si era certo tornati alla fiabesca atmosfera dei primi anni Settanta, ma si poteva cogliere una sorta di volontà di risveglio, di voglia di ritornare alla normalità. I risciò avevano ricominciato a circolare a frotte, si poteva andare a fare shopping nei loro caratteristici mercatini di nuovo affollati, i chikar si avvicinavano di nuovo alle house-boat (poche quelle abitate) per offrire la merce che avevano in vendita. Non vi erano ancora le house-boat ormeggiate in mezzo al lago, la musica non si spargeva nell’aria, ma era pur sempre un notevolissimo passo avanti, compiuto in soli tre anni.

Rimpiangendo il Moti Mahal
Come tutte le capitali del mondo Delhi pullula di ristoranti; tra questi un tempo ve n’e era uno, il Moti Mahal, che proponeva esclusivamente cucina indiana di alta classe, specializzato innanzi tutto in quel piatto caratteristico che è lo Spring Tandoori Chicken (pollo cucinato quasi alla diavola, cotto sulla brace e condito solo con spezie). Il locale si trovava nei pressi della Delhi Gate; un portoncino consentiva l’accesso a una sorta di vasto cortile la cui metà era occupata da una serie di barbecue, l’altra metà da tavoli anche abbastanza lunghi e alcuni tavolini adatti a quattro-sei persone. I camerieri erano indiani. Vicino all’ingresso, un lavabo in cui ci si lavava le mani prima di sedersi a tavola e prima di uscire dal ristorante (gli indiani mangiano di norma con una mano, usando non più di tre o quattro dita). I clienti erano sempre non meno di una cinquantina, indiani; vi spiccavano, al massimo, cinque o sei occidentali. La cucina era sublime, per quella innata capacità degli indiani di mescolare le spezie in modo da ricavarne odori e sapori unici. Questo era il Moti Mahal che ricordavo.
Mi ci sono recato di nuovo nel 1997. Non lo riconoscevo più. Una sala con pareti rivestite in stoffa rossa, finti lampadari di Murano, posate in acciaio, camerieri in giacca rossa e guanti bianchi. Sebbene la gestione fosse rimasta la stessa, era cambiato, insieme al look, anche il rapporto con gli avventori: non più indiani, ma turisti. Non più l’autentica cucina indiana, ma pietanze adattate ai palati diseducati dei nuovi clienti occidentali. Quel magico insieme di spezie e sapori che mi aveva rapito era perduto insieme al vecchio locale.

Riti a Katmandu
Sarà forse per l’altitudine, per la gentilezza della popolazione, per il clima temperato dopo tanta calura indiana: ma l’impressione più viva che si prova a Katmandu è di trovarsi in un’atmosfera quasi fiabesca.Le strade della città vecchia si snodano strette e contorte tra vie costeggiate da case. Il piano terreno degli edifici è costituito quasi esclusivamente di negozi che vendono le cose più strane: dalle fascine di saggina per fare scope alle stoffe. Innumerevoli sono templi e tempietti, con un lingam o una piccola statua di Durga, di Hanuman (il dio con la faccia di scimmia), di Ganesh (il dio con la faccia di elefante); ma la presenza più massiccia è quella dei massaggiatori (per gli uomini) e delle massaggiatrici (per le donne), sia per la dominante pratica di alpinismo e trekking montano, sia perché in Nepal il massaggio viene utilizzato un po’ da tutti, dai bonzi in giù. La gente è cordialissima: se incrociate lo sguardo di un passante, vi sorriderà e farà un cenno di saluto con la testa. Ciò che però a Katmandu incanta fuor di ogni misura i visitatori è la festa del Capodanno (i nepalesi seguono per le feste religiose il Calendario Lunare; ad esempio, ci troviamo nel 2059).
La ricorrenza comprende anche il giorno – anzi la notte – in cui lo Spirito del Bene , il Dio Giusto , entra nelle case, nei negozi, nelle officine per scacciare gli spiriti maligni. Per illuminargli la strada, la gente dispone una lunghissima teoria di piccoli lumini ad olio: seguendo queste luci tremolanti, la divinità entra nei locali e li purifica. In netto contrasto con questo rituale si svolge, qualche giorno dopo, la cruenta cerimonia del sacrificio degli agnelli e dei caproni dinanzi a tutti i più importanti tempietti e statue che a migliaia punteggiano la città. Il loro sangue laverà i simulacri delle divinità, mentre le carni saranno donate ai più bisognosi. In tutto questo bailamme di suoni e di gente, che si muove per le strade della città quasi in processione, festante e radiosa perché le case e i posti di lavoro sono stati purificati e le deità lavate col sangue, l’unico individuo che continua a muoversi silenziosamente come sempre è lo sherpa (ora non è più facile incontrarne in città, come un tempo) che trasporta il suo pesante carico sulle spalle, reggendolo con una fascia che gli passa sulla fronte.

Nella città santa
Indissolubilmente legata all’immagine dell’India vi è anche l’immagine dei ghat di Benares, affollate di gente che compie le sacre abluzioni nelle acque del Gange.
Sulla riva destra sorgono i palazzi fatti costruire dai vari maraja per assicurarsi una degna dimora durante i soggiorni in città; e poi gli ashram (sorta di monasteri in cui possono trovare alloggio anche i viaggiatori) e i due crematory: quello più nobile (e caro) ad est e quello comune a ovest. Ma ciò che più colpisce quanti si recano a visitare la città, sacra alla religione hindi, quella in cui ci si reca per lavarsi dei peccati, e dove i fedeli sperano di essere cremati e di far spargere le ceneri nel Gange, è il Gange stesso.Ora, bisogna sapere che per la religione indù non tutti gli esseri viventi vanno cremati. Alcuni vanno depositati su una sorta di tavola di legno che viene fatta scivolare sulle acque del fiume e di tutti i suoi affluenti: i neonati, perché non hanno bisogno di essere purificati dal fuoco, non avendo mai peccato; i malati di vaiolo e di peste, perché le loro sofferenze li hanno già purificati; i sadhu (santoni o holy men) perché sono già puri; le vacche, perché considerate animali sacri. Si vedono perciò cadaveri di ogni sorta trasportati dalla corrente, mentre il turista a bordo di una barca allibisce per la tranquillità con cui i rematori, tirata fuori una ciotola d’ottone, attingono alle acque del fiume per dissetarsi. Cosa ancor più incredibile, una prestigiosa università americana (il MIT, se non sbaglio) ha riscontrato che l’acqua del Gange è batteriologicamente pura. Secondo le ipotesi occidentali, l’acqua potrebbe essere pura in quanto la sua massa è talmente imponente da rinnovarsi di continuo. Secondo le credenze indù, al di sotto del Gange vi è una sorgente di energia che purifica tutto. Qualunque sia la causa del prodigio, i barcaioli continuano tranquillamente a berne e sopravvivono.

Signora del deserto
Dopo aver attraversato mezza India dalla flora lussureggiante, mettere piede nel Great Indian Desert (comunemente chiamato: Thar Desert) e giungere fino a Jaisalmer è quasi uno shock. Dai maestosi banjan dai mille tronchi, dalle strade che scorrono sotto un tunnel di verde, si passa alle distese di sabbia dorata punteggiate unicamente da arbusti bassi e spinosi. In questo mare di sabbia sorgono le cosiddette ‘capitali del deserto’: Johpur, Bikaner e soprattutto l’antica Jaisalmer, detta la Città d’Oro per il colore dorato della sabbia con cui è fatto l’intonaco. Strette viuzze si snodano tra muri di case non più alte di 3-5 metri, tra le quali ogni tanto si staglia una costruzione nobile, più alta, dalla facciata decorata di stucchi e sculture incassate nei muri. Dall’ingresso di queste si scorge talvolta una corte interna vasta e ricca, con le classiche finestre protette da persiane che permettono alle donne di guardare fuori non viste. Vi sono palazzi fastosi, un tempo residenze di visir e di potenti mercanti, che si possono visitare alla stregua di musei, e che sono trasformati in giganteschi bazar ove è possibile acquistare un po’ di tutto: stoffe di sari, sovraccoperte, tovaglie, cuscini, scialli dai mille colori sgargianti o tenui, tessuti semplicemente o con paillette, pietre, oggetti in legno o metallo artisticamente lavorati. A Jaisalmer, di sera, è possibile assistere a spettacoli di danze locali, non ad usum turisti . Ed è un’esperienza che ha del mistico vedere le ragazze che ballano con movimenti sinuosi e delicati, sotto la volta di un cielo punteggiato da un’infinità di stelle: lo smog è ancora lontano mille miglia.

PleinAir 329 – dicembre 1999

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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