La culla della vita

Il mito non si spegne mai: come i primi avventurosi camperisti degli anni Sessanta e Settanta, una giovane coppia parte a bordo di un furgone militare attrezzato a camper e attraversa tutta l'Africa, da nord a sud. Undici mesi e 38.000 chilometri di avventura vera da raccontare con la semplicità di chi sa quello che vuole, in quel Continente Nero che ha visto l'umanità muovere i primi passi.

Indice dell'itinerario

Africa: la terra dei sogni per migliaia, per decine di migliaia di viaggiatori. E tra loro anch’io, che sulle carte e sui resoconti di chi mi aveva preceduto ho passato anni a studiare la realizzazione di un itinerario senza compromessi, da nord a sud attraverso tutto il continente.
L’idea di partire dalle coste del Mediterraneo e arrivare sul promontorio che divide l’Oceano Atlantico e l’Indiano era così stimolante da far passare in secondo piano tutte quelle riflessioni che spesso ci impediscono di realizzare i nostri desideri più straordinari: ma dove vai, che fai, star via un anno intero, in Africa poi… Ai dubbi non c’era che una risposta, passare all’azione. E il percorso si è configurato rapidamente, decidendo di scendere lungo la costa occidentale per poi entrare nel cuore della foresta equatoriale e, attraverso l’odierna Repubblica Democratica del Congo e l’Angola, raggiungere la Namibia e il Sudafrica. D’altro canto, un viaggio di questo genere deve lasciare moltissime porte aperte alle novità e alle variazioni, accettando di farsi portare più dagli avvenimenti e dalle sorprese che da programmi asettici e dettagliati. Così, dopo aver allestito il camper che sarebbe stato la nostra casa per un anno, io e la mia compagna Sameena siamo partiti per quest’avventura che ci ha portato a scoprire non solo questo immenso continente, ma anche noi stessi.

Sapori dell’altro mondo
La strada corre veloce sotto le ruote e in breve ci ritroviamo lontani dalle sicurezze dell’Europa, dalla ricchezza dei centri commerciali, pieni di stimoli a scoprire nuovi orizzonti e pronti a tutti gli imprevisti. Le montagne del Marocco, ancora imbiancate dalle nevi di febbraio, sono l’ultimo contatto con il pesante inverno che in breve ci lasciamo alle spalle.
La lunga costa scende rapidamente verso le spiagge della Mauritania. Per giorni procediamo sulla sabbia bagnata, con le onde dell’oceano che lambiscono di tanto in tanto le ruote. Villaggi di pescatori si susseguono a grande distanza l’uno dall’altro, preceduti dalle barche in sgargianti colori tirate in secca: la stagione non è ancora buona, sono pochi quelli che escono ad affrontare la veemenza dell’oceano, poco il pescato, solo piccoli squali che vengono venduti ai mercanti del Ghana.
Alle umide nebbie dell’alba si sostituisce la polvere di piste evanescenti che, in un continuo mutare di paesaggi, lentamente ci portano verso il Mali, il cui clima è decisamente torrido in questo periodo dell’anno. Lunghe pianure sabbiose, coperte di una tenera peluria erbosa e punteggiate da scheletrici quanto imponenti baobab, si susseguono nella nostra marcia verso Bamako e il refrigerio delle sponde del Niger: cerchiamo di accamparci quanto più possibile vicino ai fiumi, dove l’acqua dà sollievo al caldo soffocante di questa primavera africana. Un anziano pescatore, allevatore e contadino maliano ci apre la sua casa, ci offre il suo cibo, stretto tra la generosità e la povertà più estrema, dettata dalla siccità che affligge in maniera endemica questa nazione: una rete da pesca, un bue vecchio e malato, la selvaggina della savana sono le sole risorse di questa famiglia che ci accoglie nella corte, chiassosa di bambini eccitati, tra le capanne color terra. Riprendere la marcia dopo incontri così intensi lascia l’animo carico di pensieri e sentimenti contrastanti, obbligandoci a rivedere tutte le nostre deboli certezze.
Seguiamo il lunghissimo argine del Niger fino alla trascinante, caotica Bamako. Pulmini scassati traboccanti di umanità si accodano all’ingresso della città, fra le urla dei bigliettai che cercano di catturare l’attenzione dei passanti annunciando a ripetizione la prossima meta. E’ il primo grande nucleo urbano che incontriamo dopo quasi tre mesi di viaggio: il caldo soffocante del giorno esaurisce le energie e l’aria cerulea carica di fumi e di gas è irrespirabile, ma quando il sole cala dietro l’orizzonte lattiginoso le strade si popolano di vita, con decine di banchi che ad ogni angolo offrono cibi dai sapori forti a un’eterogenea clientela. Seduti in terra con le spalle appoggiate al muro di una vecchia abitazione coloniale, riceviamo dalle mani sapienti di una grande mama una porzione di pesce di fiume in salsa piccante con patate e uova sode ripiene, il tutto coperto da una mistura di spezie saporitissime: è lei stessa che li assaggia e li condisce prima di darci il piattino di plastica, poggiato in equilibrio sulle ginocchia. Il piacere della sorpresa è ancora più grande quando capiamo che quei sapori per noi sconosciuti sono graditi al palato e non turbano affatto lo stomaco. A pochi chilometri dalla città il nastro d’asfalto sfuma di nuovo nelle piste polverose che si diramano in ogni direzione: la nostra resta sempre quella verso sud, per il Burkina Faso. Al piccolo posto di frontiera il nostro è l’unico veicolo a motore, tutti gli altri sono carretti trainati da asini. Nell’attesa, all’ombra di un’acacia scambio il mio indirizzo e un cappello con uno di questi uomini che impiegheranno una settimana a raggiungere il villaggio in cui noi arriveremo questa sera stessa, dormendo anche qui in riva a un fiume dove i soli rumori sono il fruscio dell’acqua e gli schiamazzi dei bambini che giocano e si lavano, mentre poco lontano oziano gli ippopotami.

L’ospite è sacro
Sul lato opposto del fiume la savana si fa più fitta e tra le colline coperte di alberi, che si innalzano a delimitare il confine naturale con la Costa d’Avorio, si aprono sentieri percorsi ogni giorno da uomini, donne e bambini che lasciano il loro paese in rivolta alla ricerca di pace in Burkina Faso. Guerre e rivoluzioni da sempre sono la molla di migrazioni di massa, e proprio tra queste colline scopro un antico insediamento di Dogon venuti nei secoli passati dal Mali a nascondersi tra le grotte e gli anfratti della falesia; la vista è superba, e dalla cima della montagna tutt’intorno si apre una vasta foresta punteggiata qua e là da piccole radure coltivate e minuscoli villaggi.
La traversata transafricana ci costringe a rivedere di continuo l’itinerario, anche in considerazione del clima (il caldo sempre torrido ma anche le piogge, che possono rendere impraticabile un percorso anche per intere settimane) e della volubile situazione sociopolitica. Qui ci troviamo a un bivio decisivo: proseguire verso est attraverso Niger, Ciad e Camerun o scendere ancora più a sud verso Ghana, Togo, Benin e Nigeria? Alla fine propendiamo per questa seconda ipotesi, pur sapendo che andiamo incontro a due incognite: le vicine elezioni in Togo – le prime dopo oltre trent’anni di dittatura – e gli eventuali problemi di sicurezza in Nigeria. Ma nel corso dei miei viaggi ho potuto sperimentare, seppur in maniera empirica, che mantenendosi lontani dalle grandi concentrazioni urbane la sicurezza per il viaggiatore è elevata, le informazioni (con le loro deformazioni) spesso non raggiungono i villaggi e i centri più sperduti e così rimangono intatte la curiosità e la consueta ospitalità verso lo straniero.
Una serie di strette piste attraverso una foresta verdeggiante dagli alberi altissimi ci conduce alle porte di Accra, la capitale del Ghana. Lo splendido mare, con le palme che si affacciano sulla battigia dalla sabbia bianchissima, contrasta con il centro dove l’aria è irrespirabile per lo smog e per l’umidità molto elevata. La brezza oceanica rende le spiagge fuori città dei veri paradisi, ma le reti tirate in secca metro dopo metro da uomini, donne e bambini al ritmo costante del canto contengono pochi pesci, molta immondizia e tanta delusione; i frutti della pesca sono ogni giorno più scarsi, le grandi compagnie industriali con le loro immense navi si avvicinano sempre più alle coste e con i loro tramagli nulla o quasi lasciano a questa gente.
Ottenuti i visti necessari per attraversare i prossimi paesi, rientriamo nello spirito del viaggio su strade e piste secondarie fuori dalle rotte principali. Alla frontiera del Togo si accalcano i dimostranti e capiamo che, nonostante i richiami alla calma diffusi per radio, gli animi sono esasperati: visto che si vota fra tre giorni e non vogliamo trovarci lì in quel momento, non ci resta che premere sull’acceleratore per quasi due giorni tra campi di manioca e immense piantagioni di cacao e caffè per uscire dal paese. Al confine con il Benin, in un piccolo villaggio, sostiamo per un paio d’ore in una missione di Comboniani ma è il frate stesso a consigliarci di proseguire al più presto, perché l’incertezza e il rischio di disordini (di cui avremo conferma nei giorni successivi) spingono migliaia di persone a lasciare il paese.
La sbarra di ferro arrugginito che ci separa dal Benin è bloccata da un pesante lucchetto, le autorità non lasciano uscire nessuno, la frontiera è ormai chiusa mentre una lunga fila di uomini e donne cerca di espatriare attraverso i campi, lungo i sentieri che scavalcano le regole della geopolitica: ci vorranno due ore e un piccolo regalo frusciante per far aprire miracolosamente quel lucchetto.

Problemi che pungono
In Benin l’atmosfera è decisamente diversa: nelle cittadine e nei villaggi la popolazione è allegra e sorridente, ovunque musica e danze improvvisate riempiono le vie di suoni e di colori dal tramonto all’alba. In un caos di motorette cinesi, pestifere con i loro fumi azzurrognoli che si mescolano agli odori dei cibi cotti sul bordo delle strade, giovani barbieri scolpiscono capigliature futuriste alla luce fioca delle lampade a petrolio, mentre donne dalle mani esperte si cimentano in un ben più difficile esercizio di pazienza: legare treccine artificiali tra i ricci delle clienti avvolte nei tradizionali abiti dalle tinte vivacissime. Seduti sulle immancabili seggiole di plastica bianca ci gustiamo un pollo allo spiedo dalla pelle croccante, e una birra gelata, mentre un dj ci dedica i brani musicali che esplodono dagli altoparlanti.
La lunga pista verso la Nigeria corre tra risaie verdissime, e le donne al lavoro nei campi inondati appaiono di tanto in tanto come macchie di colore tra i fili d’erba sul pelo dell’acqua. Abbiamo ottenuto il visto di transito e, data l’apparente instabilità del paese, non me la sento di deviare dalla linea ideale che ho studiato sulla carta per evitare tutti i centri più popolati: ma questa scelta ci permetterà di apprezzare la curiosa gentilezza e l’ospitalità degli abitanti delle campagne, regalandoci momenti di inattesa tranquillità. Attraverso piccole strade secondarie, in meno di una settimana siamo in Camerun. La stagione delle piogge è iniziata, le piste di terra rossa sono veri e propri pantani e le pozze che appaiono continuamente davanti alle ruote sono talmente profonde da far scomparire i pur altissimi parafanghi del nostro camion. Avanziamo per più giorni sotto una pioggia costante, accampandoci a sera presso le scuole dei villaggi dove i bambini ci circondano festanti e con il machete tagliano l’erba attorno a noi per renderci più confortevole la sosta. Il calore di questa gente ci fa dimenticare la stanchezza, e spesso ci ritroviamo a passare l’intera serata a chiacchierare con gli abitanti del villaggio. All’alba, prima di ripartire, a volte mi ritrovo a scambiare un sacchetto di zucchero e qualche scatola di fiammiferi con manghi, caschi di banane o tranci di selvaggina cacciati nella notte.
Da qualche giorno il riposo notturno non sembra sufficiente a togliere la stanchezza che sempre più ci affligge, e poche linee di febbre sono il primo avviso di qualcosa di ben più grave che avevamo temuto ma, dopo oltre cinque mesi di viaggio, quasi dimenticato: la malaria. Le costanti precauzioni per non farci pungere dalle zanzare non sono bastate, i farmaci di automedicazione che abbiamo portato con noi hanno solo un effetto momentaneo, e così decidiamo di raggiungere al più presto Douala per farci curare. Dopo tre giorni terribili sotto una pioggia battente entriamo nella grande città umida e salmastra, con enormi navi all’ancora nel porto. E’ l’occasione di un nuovo incontro: Nino, da trent’anni in Africa, attratto dal nostro mezzo ci affianca e con un inconfondibile accento italiano ci invita a seguirlo, riconosce subito sui nostri volti i segni della malattia e con generosità estrema ci apre la sua casa, che diventerà il nostro piccolo ospedale per oltre tre settimane. Le cure attente di Igor, medico russo volontario in uno dei tanti ospedali di Douala, e la ricca dieta di Nino, condita da esaltanti racconti della sua vita africana, saranno alla fine il bel ricordo della brutta esperienza con la malaria.

L’altra via
Bisogna ripartire, le piogge sono sempre più vicine e frequenti: attraverso il dedalo di piste costruite dalle società di sfruttamento forestale, incrociando camion carichi di tronchi d’albero giganteschi, ci ritroviamo al confine orientale del Camerun alla confluenza di una serie di fiumi che alimentano l’immenso bacino del Congo. Siamo nel cuore della foresta equatoriale, la luce penetra con difficoltà nel folto intreccio di rami e foglie, e l’orizzonte è limitato a poche decine di metri. Di fronte a noi la stretta striscia di fango termina sull’argine melmoso del fiume, le piroghe dei pescatori sono issate sulla sponda dove una lunga fila di mezzi pesanti aspetta di traghettare; oltre la distesa di acqua fangosa che scorre lenta, una colonna di fumo denso ci indica il primo villaggio del Congo.
Attraversato il fiume e quindi anche la linea di frontiera, con sorpresa e angoscia scopriamo di essere – almeno lungo questa direttrice – al capolinea del viaggio. La pista termina qui appena oltre il confine, la bella traccia segnata sulla mappa non esiste più da anni, ingoiata dalla foresta e da una guerra dimenticata che agli inizi del 2000 ha insanguinato quest’area del Congo. Come proseguire? La sola possibilità per noi di raggiungere Kinshasa e la strada verso l’Angola sono i 1.200 chilometri del percorso fluviale, ma al momento non ci sono barconi o zattere adeguate a causa del livello troppo basso. Qui i fiumi sono infatti l’unica via di comunicazione rimasta parzialmente utilizzabile: le strade risultano abbandonate da anni, i ponti sono crollati o sono stati bombardati e lo stesso corso d’acqua, non dragato, diviene sempre più insidioso a causa degli accumuli di sabbia e del conseguente rischio di incagliarsi. Il fitto della foresta si interrompe solo nelle radure dove sorgono i villaggi artificiali costruiti dalle compagnie del legname: vere isole di modernità dove dirigenti occidentali e lavoratori locali vivono isolati per mesi, collegati al resto del mondo solo da piccoli aerei che, sfidando i temporali equatoriali con acrobatiche manovre, atterrano con i rifornimenti necessari sulle dissestate piste di terra e fango.
Dopo oltre dieci giorni di attesa e di ospitalità impeccabile presso una di queste enclave dell’industria del legname, scorgiamo finalmente in lontananza sulle acque del fiume un piccolo rimorchiatore che spinge un barcone: è il primo della stagione, la nostra unica possibilità di proseguire il viaggio. Saranno necessari quindici giorni di navigazione, sommersi da legname, cipolle, fagioli e decine di famiglie accampate in ogni angolo, prima di vedere i grattacieli di Kinshasa, la New York dell’Africa.
La discesa del Congo resterà in assoluto l’esperienza più forte ed esaltante di questo lungo viaggio, dove la strettissima convivenza in uno spazio assai limitato ci porta a contatto con realtà difficilmente immaginabili. La vita a bordo è scandita dal lento ritmo della navigazione, albe e tramonti appaiono e scompaiono dietro la barriera della foresta che circonda tutto il bacino fluviale. Piccoli coccodrilli, pesce secco e ogni altro frutto della foresta vengono trasportati a bordo dalle piroghe che ci affiancano ogni volta che un villaggio apre un varco nel folto della foresta. A prua, riparata dal vento dietro un’immensa catasta di merci, una giovane donna prepara frittelle saporite e carne di scimmia affumicata in un bidone trasformato in fornello, circondata da donne ridenti con i bambini addormentati nelle fasce sulla schiena. Ogni sera quando la notte impone la sosta, il capitano sceglie con cura un’ansa in cui ormeggiarsi ai rami sporgenti degli alberi, aspettando un nuovo giorno accompagnati dagli strilli acuti delle scimmie, dal brontolio degli ippopotami e dagli strani richiami degli uccelli nascosti tra le fronde. Il buio profondo è rischiarato solo dai bracieri di carbone che pericolosamente ardono qua e là sulla grossa zattera, alimentati dal soffio delle donne che cucinano zuppe di pesce e farina di manioca. Il regalo più grande
L’arrivo a Brazzaville e a Kinshasa, capitali delle due repubbliche del Congo, poste una di fronte all’altra e separate da un braccio di fiume largo poche centinaia di metri, ci riporta a una realtà fatta di traffico, rumore e burocrazia. Dopo fatiche estenuanti e continue richieste di danaro riusciamo a riportare il mezzo sulla terraferma e nella tranquillità della zona centrale di Kinshasa. La città principale della Repubblica Democratica del Congo appare subito ordinata e pulita dopo l’incubo del porto, dove violenza e degrado sociale sembrano regnare senza limiti.
Pochi giorni per rifornirsi e per decidere in che direzione proseguire, ma con ben poche alternative poiché il sud del paese è praticamente isolato e percorrere 1.600 chilometri di foresta potrebbe richiedere anche sei settimane di continui sforzi, senza avere la certezza di poter attraversare liberamente la zona delle miniere di diamanti. La nostra rotta si dirige dunque verso l’Angola, una scelta che si rivelerà fortunatissima: infatti, sebbene il paese sia uscito da una sanguinosa guerra civile durata oltre trent’anni, si rivela estremamente accogliente. Privo ancora di ogni infrastruttura, ci permetterà di vivere un’esaltante esperienza a contatto con popolazioni generose e ricche di cultura, attraverso paesaggi incontaminati e solitari.
La lunghissima costa battuta dai venti dell’oceano offre piccole baie dall’acqua cristallina, circondate da montagne aride e rossastre. Nei villaggi di pescatori siamo accolti con ospitalità inaspettata; aragoste, gamberi e pesci sconosciuti insaporiscono le fredde serate davanti al fuoco dell’accampamento. Sono giorni di spensieratezza, nei quali avanziamo in solitudine quasi completa e ci perdiamo in lunghe deviazioni tra le fertili valli dell’entroterra: le piste che seguiamo si inerpicano sui monti a ridosso della costa, e senza incontrare alcun veicolo ci ritroviamo ben presto vicinissimi al Kunene, il fiume che segna il confine geografico con la Namibia. Immense dune di sabbia rossa si immergono nel mare e un lungo deserto separa i due stati.
Spendiamo gli ultimi giorni di validità del nostro visto nella regione degli Himba, una popolazione di allevatori nomadi che con le loro usanze e costumi ci ricordano le descrizioni d’Africa dei primi esploratori. La loro pelle è coperta da un impasto di terra e di grasso d’animale, i copricapo delle donne sono in pelle intrecciata, le tradizionali collane ad anello si stringono attorno al collo snello e lungo dei giovani. In sosta sull’argine del fiume, dove ogni giorno si accalcano gli animali e le donne con i bambini per prendere acqua, lasciamo che le emozioni si incidano indelebilmente nei nostri cuori.
Ed è qui che, in qualche modo, finisce la magia più vera e profonda del viaggio. Passata la frontiera con la Namibia, in pochi chilometri tutto cambia e l’Africa più selvaggia e misteriosa sembra scomparire, trasformata in una sorta di Occidente dell’altro emisfero dove i supermercati spuntano improvvisi anche nei centri minori e la rete stradale non è più un’idea scarabocchiata su una vecchia carta geografica, ma una realtà fatta di asfalto, cartelli e divieti. Ovunque informazioni per i turisti, che qui sbarcano ogni giorno dagli aerei in numero sempre crescente alla ricerca delle sensazioni che solo questo continente sa dare.
Le ultime settimane passano veloci e più rilassate, a zonzo fra i tanti parchi e riserve della Namibia, dello Zambia, del Botswana e del Sudafrica. Assaporiamo il piacere di seguire gli animali selvaggi nelle piccole piste delle riserve naturali e dei parchi, soprattutto in Zambia dove si può girare per giorni da soli incontrando branchi di elefanti e ippopotami che sguazzano nelle acque stagnanti dei fiumi in secca durante la stagione asciutta mentre le giraffe, curiose ma timide, fanno di tanto in tanto brevi visite a ridosso dei nostri accampamenti. Nella notte stellata il ruggito dei leoni a caccia ci fa trasalire e il barrito degli elefanti rimbomba poderoso, riportandoci alla nostra dimensione di piccoli uomini in un mondo dove a dettare le sue regole è ancora la natura. La stessa natura che da qualche mese fa crescere lentamente, nella pancia di Sameena, la nostra piccola Lusira: il regalo più grande che riporteremo dalla nostra avventura africana.

PleinAir 412 – novembre 2006

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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