La corrida gentile

A Vila Franca de Xira, vicino Lisbona, la festa del Colete Encarnado si prepara a celebrare la settantacinquesima edizione. Ce la racconta uno dei protagonisti.

Indice dell'itinerario

Ma che succede oggi? Già dalle prime ore del mattino sono arrivati i campinos, hanno riunito tutti noi maschi e in groppa ai loro cavalli ci hanno scortato a Vila Franca de Xira. Dev’essere un giorno di festa perché i cavalieri indossano l’abito delle grandi occasioni con il lungo berretto verde, la giacca scura ripiegata sul braccio, una candida camicia, luccicanti bottoni dorati che brillano sul gilet rosso che qui chiamano colete encarnado. Attraversiamo tutto il paese per giungere in un grande campo recintato, veniamo divisi in gruppi di sei, otto, dieci, e mentre alcuni campinos si fanno da parte per assistere allo spettacolo altri ci fanno procedere senza sosta avanti e indietro, ora lentamente ora di corsa, e spronando i loro destrieri ci impongono bruschi cambiamenti di direzione. Gli anziani, con l’esperienza acquisita negli anni, sanno bene come muoversi per non innervosire il destriero, ma qualche giovane ogni tanto non riesce a tenere il passo e per questo riceve un leggero colpo di pampilho, un lungo bastone in legno che lo induce a tornare nei ranghi.
Trascorre così l’intera mattinata mentre il sole diviene sempre più cocente, facendoci sentire maggiormente la fatica. Quindi ci radunano nuovamente per raggiungere la piazza principale dove in presenza delle autorità premiano il miglior Colete Encarnado, come se tutta la fatica l’avesse fatta lui. Meno male che fra gli intervenuti possiamo ammirare qualche leggiadra figura femminile che, vestita con i lunghi e sfarzosi abiti tradizionali, rimane fieramente immobile sul proprio cavallo. Dopo questa gran confusione, accompagnata dalle fanfare quasi a festeggiare una grande vittoria, il lungo corteo di notabili e cavalieri ci scorta nuovamente lungo le strade cittadine che, nel frattempo, si sono riempite di pubblico plaudente.
Non facciamo nemmeno in tempo a masticare un boccone che veniamo spinti con gran foga lungo una strada che non sembra avere uscita. L’aria è pervasa da grida di incitamento in tutte le lingue (evidentemente ci sono molti stranieri) e noi, pressati da uomini a cavallo, siamo obbligati a lanciarci di gran carriera sull’angusto tragitto. La polvere che si alza ci costringe a chiudere gli occhi, non si vede quasi nulla, corriamo perché tutti corrono in quella direzione. All’improvviso una curva immette in un tratto ombreggiato e mi fermo indeciso: che fare, approfittare di questa fortunosa occasione di riposo o continuare a correre all’impazzata? L’indecisione mi procura qualche problema, perché dinanzi ai miei occhi si parano alcuni giovani esagitati che sventolano pezzi di stoffa colorati, mentre dall’alto di finestre e balconi la gente urla nei miei confronti. Ma perché ce l’hanno con me? Eppure sanno che se si avvicinano troppo il gioco diventa pericoloso: anche se non posso tramortirli, posso far loro molto male. Evidentemente sono consci del pericolo e neppure il più temerario di questi facinorosi si avvicina a meno di dieci metri da me tanto che, se faccio finta di slanciarmi verso di lui, oltrepassa le barriere di protezione per mettersi in salvo. Il carosello dura fino al tramonto, quando un odore di sardine arrostite invade l’aria e induce anche i più restii a pensare che è tempo di mettere qualcosa sotto i denti.
Il giorno seguente, mentre qualcuno rimane a casa per riprendersi dalle conseguenze di una caduta, i più forti e fieri di noi tornano in città. Questa volta entriamo in una grande arena dove, dalle tribune e dagli spalti, è tutto un tripudio di colori e di gente che agita fazzoletti e urla parole incomprensibili. Il folto gruppo del Colete Encarnado è tutto lì in semicerchio, come in attesa del gran momento, quand’ecco che da dietro gli steccati un gruppo di giovani con balzi acrobatici fa la sua apparizione nell’anfiteatro. Li vedo disporsi in fila indiana al centro dell’arena, addossati l’uno all’altro come per creare un muro contro di me. Si avvicinano sempre più per sfidarmi e la loro eccitazione cresce ad ogni passo insieme alla loro baldanza, o forse è timore? Mi agitano davanti le mani, mi gridano improperi, vogliono farmi arrabbiare e alla fine ci riescono. Una potente testata sul petto del primo manda in aria questi fragili birilli umani che, alzandosi intontiti da terra, ghignano nervosamente scambiandosi sguardi di sollievo: la paura è passata e, ancora una volta, l’hanno scampata bella.
Si racconta che un mio antenato riuscì a colpire mortalmente il conte d’Arcos: da quel momento il re decise che ad ognuno di noi si dovessero inguainare le corna con cuscinetti di cuoio e che dovessimo uscire vivi dall’arena. Nascere tori in Portogallo, insomma, è ancora un divertimento…

PleinAir 418 – maggio 2007

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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