La Cina è lontana

Raggiungere Pechino dall'Italia in treno anziché in aereo vuol dire ancora oggi otto giorni di avventura piuttosto che tredici ore di noia. Vuol dire ancora un'esperienza memorabile anziché un trasferimento senza storia. Vuol dire una scelta in linea con la cultura dell'abitar viaggiando. E noi abbiamo scelto la ferrovia. Anzi, la Transiberiana.

Indice dell'itinerario

Perché nell’era dello spostamento rapido bisognerebbe decidere di viaggiare in treno da Roma alla volta di Pechino attraverso la Siberia e la Mongolia’ Forse per guadagnare la meta nella mutevolezza del paesaggio e delle persone, recuperando le emozioni e i rapporti umani che vengono sacrificati a favore della rapidità. O forse solo per sfidare l’ultimo grande mostro d’acciaio, prima che il mito dello spostamento veloce riesca a decretarne la fine. E allora si parte sulla ferrovia più lunga del mondo, affrontando i tremendi pericoli paventati dalle guide, dagli amici o dalla cronaca russa, attraverso 11.105 km, 8 giorni, 7 fusi orari e oltre 100° di latitudine da ovest a est.

A Mosca, a Mosca!
Roma, Stazione Termini: sembra impossibile che quelle rotaie uniscano Roma con Pechino, Piazza San Pietro con Piazza Tian An Men. Non siamo in molti sul vagone che due volte la settimana unisce Venezia con Mosca: alcune donne ucraine che tornano a casa, un artigiano di Treviso che cercherà di raggiungere Samarcanda, un ragazzo triestino che va a sposarsi in Ucraina e Alekseij, un ingegnere russo: sarà il nostro interprete sino a Mosca. La carrozza è malandata e i due provodnik, gli attendenti al vagone, pensano solo ai fatti propri.
La Slovenia e la Croazia scorrono nella nebbia del mattino, ma un sole radioso accoglie il convoglio quando costeggia il lago Balaton. Complice un ritardo di 5 ore, arriviamo a Budapest quando il treno per Mosca, che doveva agganciare il nostro vagone, è ormai partito. Pochi anni hanno trasformato Budapest da una bella e triste città dell’est in una vivace città dell’ovest. Il caldo è opprimente, specialmente durante la surreale notte nel deposito vagoni della stazione Keleti Pu.
Nel pomeriggio si riparte, agganciati a un treno interamente russo. Alla frontiera con l’Ucraina sorgono i primi problemi: tutti gli stranieri devono scendere e raggiungere gli uffici della dogana. Fortunatamente è solo un controllo un po’ più approfondito, ma quando torniamo fuori il treno è stato avviato ai ponti sollevatori per la sostituzione dei carrelli.
Per motivi di sicurezza lo scartamento dell’ex Urss è più largo di 10 cm rispetto a quello europeo. Nella notte riusciamo a fatica a ritrovare il nostro treno fra gli altri: enormi gru hanno sollevato i vagoni, i carrelli più stretti vengono sfilati, quelli più larghi alloggiati e in meno di mezz’ora il convoglio è pronto per ripartire. Assolutamente vietato fotografare. L’Ucraina visibile dai finestrini è solo campi coltivati, poi Kiev, la frontiera con la Russia e infine, con un giorno di ritardo, Mosca. Tremiladuecentoquaranta chilometri di rotaie da Roma.

Il treno dei mercanti
Chi ha visto Mosca durante l’inverno rimane stupito che la città immersa in un perenne manto di neve possa esplodere dopo d’estate in tanti colori. A metà strada fra l’Europa e l’Asia, la capitale russa conserva il fascino delle descrizioni di Bulgakov, che va però diluendosi in un consumismo ostentato.
Ancora binari, questa volta nelle gallerie della metropolitana moscovita, per raggiungere Komsomolskaya; nella stessa immensa piazza ci sono tre delle nove grandi stazioni di Mosca: Leningradsky, verso San Pietroburgo, l’Estonia e la Finlandia; Kazansky, verso Samarcanda e le Repubbliche dell’Asia Centrale; Jaroslavsky, la stazione di partenza della Transiberiana.
Il viaggio verso l’Oriente sta per iniziare: una folla di mongoli sta tesa sotto al tabellone dove verrà comunicato il binario di partenza. Come appare il numero scatta l’assalto al treno: i posti sono tutti prenotati, ma è fondamentale assicurarsi lo spazio per stoccare tonnellate di merce. Il treno viene infatti usato per commerciare: marmellata, scarpe, vestiti, libri, lampadari e quant’altro possa essere venduto per i prossimi 6.000 km fino alla frontiera con la Mongolia.
Alla prima stazione si scatena la fiera: dal treno le mercanzie vengono offerte alla folla sulla banchina; ma anche chi sta a terra ha le sue merci da proporre: pesce secco, fragole, birra, vodka e giornali. Nei 20 minuti di sosta l’atmosfera è da suk mediorientale. Ma basta il fischio del locomotore e in un attimo il mercato si svuota: per le prossime ore tutto sarà tranquillo.
A bordo la pulizia regna sovrana nonostante l’eterogeneo carico umano: due provodnik per ogni vagone passano regolarmente l’aspirapolvere e il titan, la versione ferroviaria del samovar, va a tutto vapore, fornendo acqua bollente per tè, zuppe e abluzioni.

Navigando nella taiga
Lo zar Alessandro III aveva un problema: collegare via terra i due estremi dell’impero. Non era accettabile che per raggiungere Vladivostok da San Pietroburgo occorressero mesi. Così nel 1891 viene iniziata un’opera che terminerà solo nel 1916, con la costruzione di oltre 40 km di ponti per superare alcuni dei più grandi fiumi dell’Europa e dell’Asia: Volga, Irtys, Ob, Enisej, Selenga. Relativamente poche le gallerie: la prima da Mosca si incontra dopo ben 5.204 km.
Il viaggio in Transiberiana è come una crociera per mare. Il treno è organizzato come una nave e presto ci si abitua al dondolio di una vita in movimento, adeguando i propri ritmi a quelli scanditi dalla ferrovia e dall’ora di Mosca, che regola il sistema ferroviario russo. Per il pranzo si può scegliere di mangiare al vagone ristorante con 30/40 rubli o di approfittare dell’offerta delle babushka, le “nonne” che vendono da mangiare alle stazioni: non si spendono più di 5 rubli.
Gli Urali sono poco più di dolci ondulazioni: al km 1.777 siamo ufficialmente in Asia. La taiga è sconfinata: sfilano pianure, alternandosi a foreste di conifere e di betulle. Generalmente si immagina la Siberia come un luogo dimenticato da Dio e dagli uomini. Invece a fianco della ferrovia corrono strade, piccoli villaggi e grandi città: è la stessa Transiberiana che ha creato una striscia di vita lunga 9.000 km.
Man mano che ci si allontana da Mosca cresce la povertà. Paesaggi incantevoli si alternano a impressionanti scene di degrado: centrali nucleari cadenti, fiumi ormai morti e discariche a cielo aperto: ma si sa, le istanze ambientaliste non attecchiscono se si ha fame.
Dopo 4 giorni di viaggio e 5.191 km siamo finalmente a Irkutsk. La perla della Siberia
Seicentomila abitanti su un’ansa dell’Angara, l’antica città di Irkutsk è la capitale sociale e culturale della Siberia. E’ piacevole camminare tra le vecchie abitazioni in legno con frontoni e traforati, nei parchi ben curati, visitare chiese e conventi, ma attenzione a dove mettete i piedi: nelle strade spesso mancano i coperchi dei tombini. Il Baikal è a soli 66 km, raggiungibile via terra o via fiume. Con i suoi 1.620 metri è il lago più profondo del mondo e la maggiore riserva di acqua dolce allo stato liquido. La vegetazione è lussureggiante con prati all’inglese e foreste fitte di muschi, fragole, lamponi e funghi. Non si tarda a scoprire perché: in tre giorni di permanenza non smette mai di piovere. Appena si lascia il Baikal, pochi chilometri e torna il sereno.
La Transiberiana costeggiando ora la sponda meridionale del lago. Bastano 5 ore questa volta per raggiungere Ulan Ude, al km 5.647. La Repubblica Autonoma Buriata è uno stato a maggioranza buddista e la prossimità con la frontiera mongola si avverte nei tratti della popolazione. Prima delle purghe staliniane tutta la regione era nota per il numero di monasteri; dopo ne era rimasto uno solo e oltre 10.000 persone erano state uccise.
Ulan Ude (Porta Rossa in mongolo) è una città fatiscente: l’attrazione principale è la testa in bronzo di Lenin, la più grande del mondo, piantata in una piazza circondata da cadenti edifici del regime. Ci sono però le più importanti officine di locomotori Vladimir Lenin. Una visita all’interessante ma decadente Museo Etnografico all’aperto e poi è meglio ripartire.

La terra di Gengis Khan
La Transmongolia si stacca dalla Transiberiana al km 5.654. Varcata la frontiera termina la linea elettrica e il traino è affidato a un locomotore diesel. Se nella Russia asiatica si ha pur sempre la sensazione di essere in occidente, attraversata la frontiera si è in un’Asia lontana, anche nel tempo. La ferrovia corre fra alte montagne, sul fondo di valli di un verde smeraldino solcate da acque. E ovunque le ger, le tende mongole, a sorvegliare le mandrie di mucche, cavalli e cammelli. Ogni tanto un cavaliere affianca il treno e un mondo lontano dal suo. In meno di 200 anni il popolo di Gengis Khan in groppa ai takhi, i veloci cavalli mongoli, conquistò un impero che si estendeva dalla Cina alla Polonia. E fu proprio la Cina di Kublai Khan, nipote di Gengis, che Marco Polo visitò e descrisse nel Milione. Ma durò poco più di due secoli, e prima la Cina poi la Russia hanno dominato a lungo queste terre.
Ulaan Baatar (Eroe Rosso in mongolo) accoglie 600.000 dei 2.300.000 abitanti di uno stato grande più di cinque volte l’Italia. E’ una città non bella, ma affascinante e di una estensione incredibile: a parte il nucleo centrale in stile sovietico, il resto dell’abitato è una distesa di ger protette con palizzate dai venti invernali dei 1.200 metri di quota. Con la fine del regime comunista la popolazione è tornata al buddismo e il monastero di Gandan è uno dei luoghi più suggestivi di tutta la vecchia Urga. Si può trascorrere una giornata girando fra i suoi edifici, ascoltando il corno che richiama i monaci alla preghiera, osservando i fedeli che pregano.
In una mattina di pioggia il treno cinese parte per l’ultimo tratto verso Pechino.

Capolinea a Pechino
Il verde si dirada man mano che ci approssimiamo al deserto di Gobi; i cammelli invece aumentano. Ogni tanto il convoglio si ferma in piccoli villaggi dispersi nel nulla, dove l’edificio più grande è la stazione. La frontiera ci vede fermi per sei ore per un’interminabile trafila doganale e un nuovo cambio di carrelli: si torna allo scartamento da 1.435 mm.
Al risveglio in territorio cinese, l’impatto è impressionante: abbiamo appena lasciato uno spazio vuoto, la Mongolia, e siamo caduti in uno spazio gremito di gente, di costruzioni, di campi coltivati, di strade, di industrie. Ma la sensazione non è di maggior ricchezza, anzi.
Il treno passa a lambire la Grande Muraglia insinuandosi sul fondo di valli incassate e lussureggianti, prima dell’ultima rapida corsa nella pianura. Siamo finalmente a Pechino: dopo 11.105 km di ferrovia attraverso l’Europa e l’Asia niente potrà essere più come prima.
La prima impressione che la capitale cinese suscita è quella di una metropoli estremamente calda, caotica e ricca. Sembra di essere in una grande città giapponese: la sterminata area centrale è un susseguirsi di grattacieli, insegne pubblicitarie, grandi magazzini e negozi alla moda. McDonald’s impera ovunque, anche se come mi dirà Lin, una ragazza di Xian, nessun cinese normale si può permettere di spendere 40 yuan da Mc Donald’s quando in un ristorante nazionale si mangia con 8 yuan.
Sette milioni di velocipedi per 11 milioni di abitanti. Attraversare il flusso di biciclette durante l’ora di punta richiede incoscienza e temerarietà: l’unica soluzione è buttarsi, penseranno loro a schivarti. Uno dei pochi posti dove non si può transitare in bici è Piazza Tian An Men: i carri armati sono invece tollerati. Più che una piazza è uno spazio vuoto di 40 ettari concepito per acclamare il Grande Timoniere Mao Tze Tung.
Alle sue spalle la Città Proibita, 70 ettari di palazzi, piazze, strade e giardini che richiedono un’estenuante giornata per una visita sommaria. Ma sicuramente il luogo più suggestivo è il Muro dei Diecimila Li, meglio noto come Grande Muraglia. Un ‘li’ corrisponde circa a 500 metri, quindi la muraglia si estendeva anticamente per 5.000 km, snodandosi attraverso montagne, fiumi e deserti lungo la frontiera settentrionale della Cina. Ormai solo pochi tratti sono rimasti integri; la maggior parte sono stati cannibalizzati nei secoli dai contadini per la costruzione di abitazioni o rasi al suolo per far posto ad altre opere.
L’impressione è quella di una struttura ampiamente ricostruita; ma l’ambiente di aspra montagna e una realizzazione comunque ardita nel suo serpeggiante andamento regalano emozioni intense. La salita è faticosa sulle ripidissime scalinate, ma un po’ di sudore dona un’assoluta solitudine, dove invece il grosso della folla si ferma alle prime rampe.
E’ ormai tempo di riprendere la strada di casa, questa volta in volo. Tredici ore di noia per coprire giorni di entusiasmanti esperienze.

PleinAir 319 – febbraio 1999

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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