L'ultimo Abele

Come un tempo, ancora oggi Caino uccide Abele, l'agricoltore avversa il pastore, la cultura stanziale nega il nomadismo. Sempre più emarginati, protetti appena dalla durezza dell'ambiente nel quale sopravvivono, gli ultimi transumanti senza terra sembrano ormai destinati a svanire nel nulla. Per incontrarne alcuni abbiamo attraversato il più remoto e inospitale deserto del Mali.

Indice dell'itinerario

Aspettiamo nella polvere del villaggio. Da due giorni facciamo parte dell’arredo urbano, siamo ombre tra le ombre. Gao é un paese di sabbia e fango dove si muovono figure intunicate, con i sesch arrotolati sulla testa. Da un forno vicino al Niger esce pane caldo e sembra oro nelle mani nere del panettiere. Al posto di controllo della città, sotto un tendone all’inizio della pista per Kidal, la polizia locale non ci ha permesso di proseguire. Dopo quasi due mesi di viaggio il mio passaporto non ha quasi più pagine vuote. E’ pieno di visti e timbri collezionati negli ombrosi uffici di città e villaggi maliani.
Per affrontare questa pista è indispensabile una scorta armata, due soldati almeno per ogni fuoristrada. La pista per Kidal, punto di partenza per l’Adrar des Iforas, il “deserto dei deserti”, è terra di nessuno. All’inizio la strada è una chiara traccia nella desolazione, poi si perde nel vuoto. Gli orizzonti si confondono, la pista diventa un segno sottile confuso in un universo di linee che si disperdono a 360 gradi. Si potrebbe andare a est o a ovest senza una chiara cognizione. E’ il disorientamento spaziale che rende folli. Potremmo arrivare in Algeria o in Marocco senza accorgercene, o girare in tondo per l’eternità. Solo chi è nato qui, tra scorpioni e dromedari, è in grado di decifrare il codice topografico del deserto, guidato da una sorta di bussola genetica.
L’altro pericolo sono i predoni motorizzati del terzo millennio che si materializzano dietro i termitai dove sibila il cobra nero.
Appaiono dal nulla. Assaltano i rari convogli di passaggio e lasciano scolpito sulle pietre il ricordo feroce dell’attacco. Più o meno quello che succede nel Ciad dove le tribù Tebu, dello stesso ceppo etnico di Gheddafi, assaltano e uccidono senza pietà.
I militari stanno discutendo ormai da un giorno. Arrivano anche i gendarmi, la discussione s’infiamma. Avrò tutto il tempo di guardare lo scheletro di un dromedario tra i solchi della terra riarsa. Siamo arrivati al posto di controllo che il sole era basso, adesso è una lancia di fuoco sulla vecchia tomba degli Askia. La polvere avvolge le case e orla di mulinelli le donne dalle lunghe vesti.
La discussione tra gendarmi e militari sembra non avere fine: litigano tra loro, in piedi o seduti alla turca. Le mani nervose scacciano mosche, disegnano arabeschi davanti ai nasi. Abbiamo davanti il teatro dell’Africa. Il tempo aspetta e noi aspettiamo. Che altro si può fare?
Partiamo quando ormai credevamo di non farlo più. Il sole di Gao ha abbandonato la tomba degli Askia e adesso incomincia a rimbalzare sulle case basse. Correremo dentro i nostri due fuoristrada sobbalzando come marionette sulla pista per Kidal che si apre a ventaglio. Ci fermeremo poco prima del tramonto, dopo 200 chilometri, bivaccando nella scuola di uno sperduto villaggio alieno. Il giorno dopo ne faremo altri 250, incrociando solo tre veicoli avvolti dagli sbuffi del deserto.
I soldati non dicono una parola, scrutano gli orizzonti vuoti allungando la canna del fucile fuori dal finestrino ogni volta che incrociamo un altro fuoristrada. Possono essere contrabbandieri che portano sigarette dal Mali all’Algeria o innocue famiglie in viaggio. Nella terra di nessuno è in ogni caso sempre molto saggio far vedere che c’è sempre un fucile alla fine di un braccio.
Il rumore secco dei caricatori si mescola a quello ovattato dei pneumatici che schiacciano le palline dei tagillit. I “meloni del deserto” sono un miracolo terreno: l’acqua che contengono è la salvezza di molti animali del deserto. Quanto agli uomini, l’acqua dei tagillit non è potabile, e i pozzi lontani restano la loro unica salvezza.
“Chiedi il latte al cammello, un figlio alla tua donna ma chiedi l’acqua solo a Dio” dice un proverbio.L’anno scorso a 30 chilometri da Kidal è morta di sete una famiglia intera: nelle fontane non c’era più acqua. C’erano carcasse d’animali dappertutto. Molti pastori nomadi dell’Iforas hanno perso greggi interi di montoni, capre e cammelli. La rovina si è abbattuta sui fantasmi del deserto, ma questa non è una grande notizia: da queste parti, la siccità non è mai una notizia. Ci vorrebbe un miracolo come l’oasi di Tanezruft, a 70 chiolometri da Kidal, un microcosmo di giardini lussureggianti dove l’acqua che gorgoglia fa crescere cetrioli, melanzane, fagioli e pomodori. Questa però è solo una goccia nel mare.
Più o meno come l’apparizione dei muretti di pietra a forma di lettera che un tempo segnalavano al nomade la vicinanza di una pozza d’acqua. Erano due grandi lettere ravvicinate sul terreno, una C e una I, corrispondenti alla M e alla N in lingua tamascek, erano l’abbreviazione di aman, cioè acqua in lingua tuareg. Intorno a Telabit, a 120 chilometri da Kidal, c’è un ottimo esempio di questo antico alfabeto del deserto. Tutti i giorni da tempo immemorabile, lente carovane di uomini e animali lasciano all’alba gli accampamenti dell’Adrar des Iforas e si mettono in marcia disegnando ombre lunghe tra i solchi riarsi. Venti, trenta chilometri, sotto il sole del sahel, passati a sgranare con le dita le palline dell’ised nen, il rosario tuareg che tintinna e ritma il passo antico del nomade. In marcia senza dire una parola. Chi potrebbe mai ascoltare il loro lamento? Dice una poesia Targui: “Se chiedi dov’è Dio, l’acqua, il cielo e la sabbia ti risponderanno: sono io, sono io, sono io?”.
Le mascelle del nomade ruminano le noccioline del deserto, i sostanziosi ibacaten, e intanto la meta s’avvicina. Arrivati al pozzo di Es-Souk, davanti ai miseri, gloriosi resti di un’antica città carovaniera, gli uomini attaccano alle carrucole il dellou, il trogolo di pelle di capra per l’abbeverata degli animali. Così l’otre scende giù a pescare l’acqua. Muli e dromedari legati alle carrucole vanno avanti e indietro. Su e giù per ore la carrucola gira cigolando nel vento caldo. E’ un modo di scandire il tempo.
Come ai tempi dei pastori Fulani, i grandi nomadi dell’Africa occidentale, alle ore stabilite i tappetini logori si srotolano nella terra rinsecchita e sale in cielo la preghiera del deserto. Gli uomini diventano figurine solitarie che ondeggiano nel controluce; schiene e braccia ossequianti chiamano Allah nella polvere. A metà giornata le bestie allungano i colli avidi negli abbeveratoi. E questo è tutto fino a sera. Dopo verranno le stelle, le Eiadi, le Pleiadi, le sette figlie della notte. Come sempre Venere sarà la prima ad apparire e la prima a dissolversi.
Fermiamo i fuoristrada e piantiamo le tende, poi accendiamo il fuoco. Abbiamo volato sulla pista divorando chilometri. Qui intorno a Kidal non ci sono più pericoli. Niente predoni e forse nemmeno cobra neri. Solo cieli diafani e orizzonti alieni (“La gioia è su di noi, il nome ci chiama”). Segdi Ghalli è la nostra guida, un tuareg che parla tamascek(i tuareg non parlano arabo), unico filo che ci lega a un mondo perduto di uomini soli che si muovono in un deserto surreale. Gli ultimi seminomadi dell’Iforas sono legati al ciclo di una natura spietata, sospettosi e tenaci, saggi e vulnerabili. Quando stringono la mano, posano l’altra sull’avambraccio per mostrare che non hanno intenzioni bellicose. E in segno di amicizia preparano tre tazze rituali di tè: la parafrasi della vita in tre bicchierini davanti a un piccolo fuoco. Il primo tè è forte e amaro come la nascita, il secondo è dolce come l’adolescenza, il terzo, dolcissimo, va giù come la pace ineguagliabile della morte.Le tende degli uomini del deserto, isolate per dare spazio al vento e alla polvere, appaiono precarie ma sono eterne come i termitai (le case sono le tombe dei vivi, dicono). Le loro donne stanno appartate, avvolte in vesti nere. Hanno volti ovoidali e non dicono una parola. Per il tuareg la donna è importantissima; sono monogami, ma nulla vale più di un cammello. Ogni volta che ci fermiamo ci mostrano bambini ammalati perché noi siamo gli stregoni venuti da lontano che possono guarirli. Qui l’unico medico in attività è la solitudine. Un bimbo ha una terribile ferita al piede; gli ronzano sopra nugoli di mosche. Un altro, 6 o 7 mesi appena, ha la febbre altissima e forse morirà; gli diamo una minuscola dose d’antibiotico a largo spettro.
Nel recinto ci sono le capre. Ce ne regalano una, e quando smetterà di belare sarà il nostro pasto serale. Verrà sgozzata più tardi a tradimento su una pietra, con un gesto risoluto e antico, per ironia della sorte in un lungo roseo tramonto, dopo essere stata nostra compagna di viaggio per tutto il pomeriggio. Seduto tra le dune, ascolto triste il suo ultimo belato: intorno solo chilometri di silenzio disperato. Chi può mai ascoltare il suo lamento? Più tardi vicino al fuoco, sotto la carbonella, lievita il pane di semola dei nomadi, una forma rotonda di taguella che andrebbe onorata con una fetta di tikomarine, il formaggio di capra dei tuareg. Il pane cuoce in 40 minuti, poi viene ripulito dalla cenere col coltello che ha sgozzato la capra e ammorbidito con l’acqua. La taguella è buona e fa bene al cuore, ma solo se la mano che l’ha preparata è saggia, dicono i tuareg.
I nostri fuoristrada sono come veicoli lunari in un quadro metafisico di Mondrian. Ad ogni curva la scenografia muta come per un sortilegio. In questo viaggio planetario appaiono montagne incantate, cattedrali di pietra, rocce zoomorfe scolpite dai millenni, dune dorate piovute da galassie lontane. Segdi conosce ogni traccia, ogni cespuglio del deserto. Mettiamo su musica tamascek del gruppo di Ibrahim Abdallah. Musica che sembra non avere un inizio né una fine: è il blues del deserto intorno a Kidal. Corde di chitarra che come il deserto potrebbero continuare a suonare per l’eternità. Dice un canto tuareg: “I tamburi risuonano, la danza scuote i piedi, la figlia di Baguena verrà. Il mio cuore batte.”
E’ scesa la notte. Buttiamo il sacco a pelo accanto al fuoco e sistemiamo il naso all’insù contro il cielo più immenso dell’Africa. Per un po’ ci tengono compagnia due piccoli rumori, il crepitio del fuoco e un latrato lontano: quando tacciono tutti e due il cielo cade sulla terra assetata. Nessuno osa dire una parola. Ognuno di noi è immerso nelle proprie tempeste personali. Sei italiani e tre tuareg tra le rovine di un bivacco serale, naufraghi in una specie di acquario cosmico dove non si muove una pietra da millenni. Il silenzio nel deserto dell’Iforas è di cristallo. All’una di notte scende il gelo e io mi chiudo nella tenda.

PleinAir 332 – marzo 2000

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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