Il freddo è terribilmente pungente nel bosco di pini che, chiuso dal ghiaccio invernale, appare immobile e silenzioso; si avverte solo, in lontananza, il fragore ovattato di una cascata. Abbiamo lasciato il veicolo in un piazzale e stiamo proseguendo a piedi lungo una pista che s’inoltra verso il monte, ma non rivela allo sguardo alcuna traccia della nostra meta.
Qui, al confine tra Italia e Slovenia, i partigiani combattevano durante la Seconda Guerra Mondiale. Prima c’era stata l’occupazione fascista con le sue atrocità verso gli abitanti slavi che non vedevano più di buon occhio gli italiani, poi la liberazione dell’esercito di Tito con barbare vendette sui vecchi padroni; per non dire delle minoranze, un problema che creava da ambo le parti tensioni e rancori acuiti dalle drammatiche condizioni del conflitto. Ma a risollevare l’animo di chi subiva tutta la durezza di quegli eventi c’era una storia bisbigliata nel buio dei rifugi: si diceva che a Dolenji Novaki, vicino a Cerkno (una cittadina a poco più di 40 chilometri da Lubiana e a poco meno di 90 da Udine), fosse sorto un ospedale clandestino – perfettamente attrezzato e provvisto di sala operatoria e apparecchio radiografico – in cui italiani e sloveni lavoravano fianco a fianco insieme a paracadutisti inglesi, soldati russi, disertori austriaci… Ed era gestito da una donna, una dottoressa giovane e bellissima. Per ben tre volte i tedeschi si erano avvicinati all’obiettivo ma non erano mai riusciti a scovarne l’entrata, quasi fosse un luogo inventato capace di sparire come per magia, protetto dalla foresta.
Ora, a distanza di quasi sessant’anni, siamo qui a cercare la verità su quella vecchia storia. Il sentiero lungo il canalone, coperto da un sottile strato di neve, è scivoloso e si fa sempre più ripido. D’improvviso una gola si apre di fronte a noi e ci svela la cascata: le pareti della forra sono coperte da lastre di acqua gelata, stalattiti e stalagmiti di ghiaccio hanno pietrificato l’invisibile torrente, che continua a scorrere in profondità. Saliamo gli ultimi, impervi gradini di legno della passerella che sovrasta il salto e finalmente scorgiamo le casette mimetizzate dell’ospedale. Pare quasi che il freddo abbia fermato lo scorrere del tempo. Tutto è rimasto come nel 1945: le piccole costruzioni di tavole dipinte di grigio e verde, edificate nella stretta radura alla base del canyon a sbalzo sul torrente per guadagnare spazio, sono completamente celate alla vista dagli alberi e dalle pareti a picco del canalone. Capiamo perché i nazifascisti non riuscirono mai a individuare il posto; il sentiero e la passerella che abbiamo percorso non c’erano a quell’epoca, si arrivava camminando nel torrente e ci si bloccava di fronte al muro d’acqua della rapida. Dal basso le baracche sono invisibili, dall’alto sono nascoste dalle fronde degli alberi e dagli stretti fianchi del burrone; a monte, inoltre, il fiume è chiuso da due vette impervie. I feriti giungevano trasportati in spalla da esperti arrampicatori ed ex alpini, capaci di inerpicarsi con le pesanti barelle per poi legarle saldamente a una fune calata dall’alto dopo un segnale segreto. L’acqua del torrente lavava via le tracce di sangue e il frastuono della cascata copriva i rumori delle attività.Varchiamo l’ingresso e chiediamo alla guida (che parla italiano) di accompagnarci nella visita. Sotto di noi scorre il fiume e tutt’intorno, procedendo verso il monte, si mostrano il rifugio per i feriti, la capanna per l’isolamento, la sala operatoria, la stanza dei medici, la sala raggi, il deposito barelle, la cucina, il refettorio, la stanza dei convalescenti, il magazzino, la falegnameria, il bagno, la lavanderia, la sala caldaia per la sterilizzazione, la casa per gli invalidi: una fila disordinata di costruzioni che occupano la gola, rubando spazio al torrente con ingegnose prolunghe sul vuoto.
La struttura era perfettamente funzionante e moderna per l’epoca, dotata dei più avanzati macchinari e persino di energia elettrica grazie a una piccola centrale costruita a monte sul torrente. Ma come è stato possibile realizzare tutto questo in tempo di guerra e per di più in segreto? La guida ci spiega che l’ospedale crebbe poco alla volta, mano a mano che si curava qualcuno capace di apportare aggiunte o migliorie. Tutto veniva costruito dai feriti o dagli infermieri che di volta in volta si trasformavano in fabbri, falegnami, carpentieri, elettricisti, muratori; anche le stampelle, la barelle e le stecche per i gessi erano realizzate sul posto. Per prime, subito dopo la ricognizione dei medici, furono organizzate la stanza dei feriti e la sala operatoria con i macchinari, i medicinali e gli strumenti sottratti alle caserme fasciste abbandonate dopo l’armistizio. Poi, quando la zona fu occupata dai nazisti tedeschi, gli aiuti cominciarono ad arrivare dal cielo, paracadutati di notte in zone sicure dagli aerei alleati. Il cibo veniva fornito dagli abitanti dei villaggi vicini che sapevano dell’esistenza dell’ospedale ma, per ovvi motivi di sicurezza, non ne conoscevano l’ingresso e lasciavano le scorte nella foresta in luoghi protetti.
Nella stanza dei medici vediamo una foto della dottoressa Franja Bojc-Bidovec, che diresse questo presidio di frontiera dal gennaio 1944 al maggio 1945. Effettivamente era di una bellezza eccelsa e delicata, che quasi stona con tutto l’orrore della guerra: i capelli raccolti secondo la moda degli anni ’40, un leggero sorriso, gli occhi grandi, chiari e dolcissimi.
L’ospedale fu attivo dal dicembre 1943 alla Liberazione, curando circa mille feriti tra partigiani italiani e sloveni del IX corpo d’armata, ex prigionieri di guerra russi e inglesi e anche alcuni civili; vi lavorarono, fra gli altri, alcuni infermieri delle minoranze etniche, un medico italiano disertore dell’aviazione, una cuoca croata e qualche alleato. Nell’ultima baracca per la degenza degli invalidi, un curioso cartellone propagandistico mostra una coppia con la figlioletta in braccio e la bandiera slovena in mano: il gruppetto, circondato dalle rovine del conflitto, guarda verso un’alba limpida in cui sventolano vicine la bandiera sovietica e quella statunitense.
D’estate siamo tornati a rivedere l’ospedale. Il rigoglio della foresta allevia l’atmosfera pesante che ricordavamo, ma tutto rimane stranamente silenzioso: gli alberi stormiscono più dolcemente del solito, i bambini in visita non strillano e non schiamazzano, il torrente scorre alleggerito dalla siccità e anche gli uccellini paiono rispettare la solennità del luogo. Il dolore, il coraggio, la tenacia ancora sembrano filtrare dalle pareti di pietra: questa è stata un’isola di speranza, una sorta di tregua alla tristezza di una realtà in cui la gente ha saputo comunque immaginare un futuro ideale e, forse, perfetto.
Testo di Federica Botta, foto di Alessandro De Rossi
PleinAir 389 – dicembre 2004