L'oro dell'Appennino

Dall'Asia all'Abruzzo, quella dello zafferano è una storia millenaria che oggi rivive nei campi intorno a Navelli. In compagnia dei produttori, andiamo a scoprire come si ricava la preziosa spezia dai fiori di croco.

Indice dell'itinerario

Nella pallida luce di una fredda alba di novembre, la nebbia del mattino sembra densa come crema. Gocce di rugiada gelate sono incastonate sugli steli d’erba ingialliti dai primi rigori dell’autunno e sui rami degli alberi che ormai hanno perso tutte le foglie. La prima neve chiazza i bordi dei campi appena arati e le strade sterrate rendendo il paesaggio lunare dell’Appennino abruzzese un quadro in bianco e nero, se non fosse per quelle macchie viola, rosa, fucsia intenso che in file ordinate punteggiano il marrone scuro dei coltivi. Se ti avvicini abbastanza puoi vedere il bocciolo audace che sfida l’inverno e si arrischia a spuntare: è il Crocus sativus limneo, meglio conosciuto con il nome di derivazione araba safran, zafferano. Furono proprio gli Arabi i primi a coltivarlo su larga scala dall’Anatolia al Marocco e più su fino alla Spagna, prendendolo dai Greci per i quali Krokos era un affascinante e temerario fanciullo che aveva osato innamorarsi della ninfa favorita del dio Ermes, e per punizione fu trasformato in un bel fiore destinato a durare poco.
Ma ecco una mano che lo coglie via veloce, e poi un altro e un altro ancora e così per tutta la fila: con la precisione dell’esperienza, dita agili e sapienti sfidano il gelo e la brina per il raccolto quotidiano. Duecentomila fiori e 500 ore di lavoro producono un chilo di zafferano, colto prima che il sole scaldi i petali facendoli sbocciare e disperdendo l’aroma. Tutti vengono poi sfiorati a mano, cioè aperti e separati dagli stimmi rosso scarlatto per trarne l’oro vermiglio dell’Aquilano.
Come abbia fatto il piccolo fiore ad arrivare sin qui, sulla piana di Navelli, è metà storia e metà leggenda. Si dice che nel 1230 un frate domenicano della famiglia Santucci fosse inviato a Toledo a partecipare al sinodo che istituì l’Inquisizione; ma pare che egli fosse più interessato all’agricoltura che alle ferree leggi del tribunale, tanto da innamorarsi della piantina che gli parve adatta per i dolci e freschi rilievi della sua terra. Il croco, infatti, che in estate secca interamente rimanendo con il bulbo quiescente sino alla fioritura autunnale, non sopporta temperature più alte di 25°C ma neppure piogge frequenti e insistenti. Il religioso decise quindi di portarla con sé, e sulle vette morbide dell’Abruzzo il safran trovò una nuova patria elettiva raggiungendo una qualità sconosciuta altrove e facendo la fortuna de L’Aquila e dell’altopiano. Nel giro di pochi decenni la città divenne famosa per lo zafferano tanto da commerciarlo con Venezia, Marsiglia, Vienna e le città tedesche del grande nord; con la polvere dorata del croco si profumavano guanciali e pavimenti delle case nobiliari, si tingevano vesti e tessuti, si coloravano i capelli e i migliori artisti vi dipingevano affreschi e tele. Grazie alle tasse imposte sul commercio e sulla produzione, Roberto d’Angiò fece costruire l’Ospedale Nuovo e la basilica di San Bernardino, Ferrante d’Aragona decretò il diritto de L’Aquila di fondare un’università e la città si salvò più volte dalle angherie e dalle eccessive gabelle imposte dai sovrani di Napoli. Con l’arrivo dei Borboni la coltivazione ebbe un ulteriore incremento, ma con il XX secolo le tasse, le guerre, l’industrializzazione delle altre produzioni agricole e lo spopolamento delle campagne resero davvero poco conveniente per i contadini faticare a mani nude nel freddo dell’inverno per le misere paghe che i mercanti erano disposti a sborsare, tanto che i bulbi finivano nel mangime degli animali. Si è dovuti arrivare alla fine degli anni Settanta perché Silvio Sarra di Civitaretenga decidesse di riunire in cooperativa gli ultimi coltivatori per recuperare l’antica e pregiata tradizione.
Dopo la sfioratura i filamenti vermigli vengono posti su un setaccio da farina appeso capovolto nel camino, sopra una brace di mandorlo o di quercia. Durante la tostatura, la parte più delicata di tutto il processo di produzione, il raccolto perde la maggior parte del suo peso, essiccando fino a mantenere solo un 5% di umidità: un etto di stimmi pronti contro 600 grammi di freschi. Pestati in un macinino, si useranno per risotti e altri piatti ma anche per colorare e insaporire le paste e i biscotti tradizionali dell’Appennino. Famosi sono anche il rosolio Zaff99, prodotto dalla cooperativa in ricordo della fondazione de L’Aquila dai 99 contadi, e fuori regione alcuni formaggi lombardo-emiliani che vengono speziati con l’oro vermiglio di Navelli. Oggi il consumo di zafferano si limita alla gastronomia, un tempo era invece molto usato anche in ambito medico per le sue proprietà curative. La picocrocina, la crocina e il safranale, i principi attivi estratti dal croco, sono noti sin dall’antichità: il famoso medico greco Galeno li impiegava per la preparazione di soluzioni zinco-cuprine, per le pillole di aloe e per la tintura di camomilla. Secondo un trattato di medicina del 1671 lo zafferano è un ottimo stimolante dell’appetito, sedativo della tosse, analgesico gengivale, abortivo e afrodisiaco, mentre la celebre Scuola Salernitana lo indica per la cura del fegato, delle ulcere e delle piaghe. E’ inoltre fonte dimostrata di vitamine A, B1 e B2 e si sostiene che possa rafforzare la memoria e avere effetti benefici nella cura dell’arteriosclerosi e delle malattie cardiovascolari.

Tra il piano e i monti
La zona di produzione riconosciuta dello zafferano de L’Aquila si estende a nord e a sud della statale 17 Antrodoco-Popoli, nell’area della Comunità Montana Campo Imperatore e Piana di Navelli che ricade nel parco del Gran Sasso da una parte e nel Sirente-Velino dall’altra. Il centro dei coltivi si trova proprio lungo la strada, tra Civitaretenga (sede di una delle cooperative) e il borgo di Navelli. Da questo incantevole paesino medioevale e rinascimentale dove si erge Palazzo Santorini, emblema della ricchezza prodotta dall’oro vermiglio, si sale verso le vette del Gran Sasso e il centro arroccato di Capestrano, sede di un imponente castello e del pregevole convento di San Giorgio. La cittadina si può raggiungere percorrendo per 10 chilometri la statale 153 verso Popoli sino al bivio indicato, oppure con la piccola e tortuosa provinciale di montagna (disagevole per un camper di grosse dimensioni) che vi arriva in poco meno di 8 chilometri. Da qui, seguendo le indicazioni per Castel del Monte e poi per Calascio, una spettacolare strada di crinale piena di tornanti ma di grande interesse paesaggistico tocca Rocca Calascio, con le rovine di uno splendido castello raggiungibile solo a piedi.
Proseguendo per Barisciano, la strada attraversa Santo Stefano di Sessanio con una bella vista sul Monte Corno, il Gran Sasso e la piana di Campo Imperatore. Si attraversa la Grancia Pastorale di Santa Maria dei Carboni, territorio di proprietà dell’Ordine dei Cistercensi il cui santuario, ben indicato, è raggiungibile con un buono sterrato o una passeggiata di due ore. Chi decide di proseguire con il v.r. può effettuare l’approvvigionamento idrico presso due freschissime fonti. Continuando in discesa su asfalto si arriva al santuario della Madonna di Valverde a Barisciano, con i ruderi di un castello raggiungibile solo a piedi.
Ritornando con la statale verso Navelli si può svoltare a Castelnuovo seguendo le indicazioni per l’area archeologica della città sannita e romana di Peltuinum, dove è possibile pernottare nell’area picnic attrezzata. Si sale così sul massiccio del Sirente-Velino, nelle cui conche morbide e riparate ha sede la seconda cooperativa di produttori di zafferano.
Proseguendo per Prata di Ansidonia si incontrano le indicazioni per il bel borgo restaurato di San Pio, purtroppo non ancora riaperto alle visite ma dove è possibile fare rifornimento di acqua. Ancora per San Nicandro, si entra infine nell’abitato di Fagnano Alto, dove si possono riconoscere i campi di croco. Più avanti sorgono Bominaco, con il noto santuario, e Caporciano, in cui i veicoli più piccoli possono arrischiare un incantevole passaggio tra le mura. Ritornati sulla statale si avrà di fronte la chiesa tratturiale di Santa Maria dei Cinturelli, che i pastori utilizzavano durante lo spostamento delle greggi: nei pressi, se non si è disturbati dal rumore della statale, si potrà sostare per la notte prima di riprendere la via di casa.

PleinAir 399 – ottobre 2005

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

________________________________________________________

Tutti gli itinerari, i weekend, i diari di viaggio li puoi leggere sulla rivista digitale da smartphone, tablet o PC. Per gli iscritti al PLEINAIRCLUB l’accesso alla rivista digitale è inclusa.

Con l’abbonamento a PleinAir (11 numeri cartacei) ricevi la rivista e gli inserti speciali comodamente a casa e risparmi!

photo gallery

dove sostare

tag itinerario

cerca altri itinerari

Scegli cosa cercare
Viaggi
Sosta
Eventi

condividi l'articolo

Facebook
WhatsApp

nuove idee di viaggio