L'Oman dello stretto

Protesa su uno dei punti strategici più "caldi" del pianeta la penisola di Musandam, appartenente allo stato dell'Oman, seppur separata, è terra di contrasti fra l'entroterra pastorale e le scoscese, inarrivabili coste. E racchiude ambienti, cultura e tradizioni che vale la pena di scoprire.

Indice dell'itinerario

Da una parte del Golfo Persico stanno l’Arabia Saudita, il Kuwait, il Qatar e gli Emirati Arabi, allineati ai paesi occidentali; dall’altra parte l’Iraq e l’Iran, in conflitto fra loro e al centro di forti tensioni internazionali. All’imboccatura del golfo, lo Stretto di Hormuz, passaggio obbligato per il petrolio estratto nei paesi arabi. Facile comprendere l’importanza di presidiare l’accesso a un bacino così rilevante per l’economia e la politica mondiale. Proprio sullo stretto, con le sue terre che si protendono a poche decine di miglia dalle coste iraniane, c’è la penisola di Musandam, sconosciuta ai più e, fino ad alcuni anni fa, assolutamente inaccessibile. Appartiene al Sultanato d’Oman, dal quale è geograficamente separata dagli Emirati Arabi Uniti; quindi un avamposto ignorato che cela ambienti, culture, e tradizioni di grande interesse. La scoperta del Musandam è una di quelle esperienze sempre più difficili da trovare, almeno senza patire grossi rischi o disagi.

Le aride montagne
Immaginando di salire fino alla vetta delle più alte montagne del Musandam (che arrivano ai 2000 metri), guardando verso sud la vista si perderebbe nell’infocato tremore delle sabbie desertiche degli Emirati Arabi. Spingendo lo sguardo a nord, apparirebbe l’azzurro intenso dell’Oceano Indiano. Salendo l’unica strada che porta al Jebel Harim, il “monte delle donne”, ci si inoltra invece in un panorama di silenzi e di delicate tinte pastello. E’ una zona dall’aspetto selvaggio, arida e difficile: fino a pochi anni fa, negli altipiani più isolati si cacciavano i leoni della montagna, ormai estinti.
Sulle pendici meno scoscese si notano i resti delle vecchie bayt al-qufl, case di pietra che fino a una ventina di anni fa erano le uniche abitazioni locali. Spesso ricavate estendendo l’apertura di una grotta, erano così minuscole che i grandi otri contenenti le riserve alimentari venivano portati sul posto prima di costruire i muri perimetrali e il tetto, formato da grandi lastre di pietra. Le case, generalmente non lontano da sorgenti, potevano essere raggiunte soltanto inerpicandosi lungo i pendii. Erano anche poste (come accade oggi) lontano da canaloni e vallate, che durante le alluvioni possono essere spazzati all’improvviso dalla furia delle acque.
Salendo d’altitudine, le rocce appaiono sempre più erose, piene di grotte e spaccature profonde. D’improvviso, ecco il miraggio: una valle ampia e verdeggiante, con prati erbosi e palme, dove sorge Sayh, l’unico villaggio del Jebel Harim. E’ da qui che provengono i rami migliori per modellare i manici delle jerz, le accette tipiche usate come bastoni d’appoggio e simbolo di virilità. Dopo Sayh si riprende a salire fra ampie vallate, stretti canyon, monti dall’andamento ondulato che mostrano diverse stratificazioni e venature spettacolari. Ma la sorpresa giunge a poca distanza dalla vetta, superati i mille metri: un’intera parete della montagna appare solcata da milioni di rametti pietrificati; si tratta di corallo fossile, segno di una remota presenza di fondale marino, come confermano gli abbondanti fossili di conchiglie presenti in zona.
Il Musandam rappresenta bene l’equilibrio di un territorio diviso fra montagna e mare, con gruppi etnici distinti che si sono formati in ragione di due diverse forme d’isolamento: quello delle aride montagne e quello dell’irraggiungibile litorale.

La gente del mare
Le coste del Musandam, nella quasi totalità dei casi, sono così scoscese e imponenti che nessuna strada può raggiungerle. Alle grandi baie sulle quali sorgono i villaggi si arriva soltanto via mare, chiuse come sono fra imponenti pareti di roccia e inviolabili falesie. Uno scenario inaspettato di fiordi e un intricato dedalo di canali stretti fra alte muraglie, per secoli rifugio di pirati e predoni. Le acque sono solcate dai caratteristici dhow omaniti e da piccole imbarcazioni a motore. E’ con le barche che i bambini vanno a scuola, le merci arrivano ai villaggi e il pescato viene trasferito a Al Kashab, la capitale. Li accompagnano nel viaggio i delfini, mentre uccelli marini di varie specie volteggiano davanti alle prue slanciate dei sambuchi. L’economia dei piccoli centri è legata al mare: l’aridità del terreno non consente coltivazioni e un tempo le capre, necessarie per il latte e la lana, erano traghettate nell’unica isola con sufficiente vegetazione per il pascolo. Tra tutti i villaggi disseminati nella penisola di Musandam, Kumzar si trova nell’estremo lembo settentrionale del territorio, affacciato sullo Stretto di Hormuz. Arrivando dal mare si fatica a distinguere le case dallo sfondo di roccia che chiude da tre lati il villaggio. Sulla spiaggia compare la prima fila di abitazioni, interrotta dalle barche in secca, dalle reti ammucchiate e dalle tante, semplici altalene per bambini. Subito dietro, percorrendo le strette viuzze fra le case basse, si giunge alla “strada principale”, un canalone ghiaioso che è facile identificare come un wadi, il letto di contenimento delle piene che, nei periodi di pioggia, precipitano al mare con insospettata violenza. Kumzar, a differenza di altri villaggi, è dotato di energia elettrica, indispensabile per far funzionare i condizionatori d’aria presenti ormai in ogni casa. E’ difficile immaginare situazioni in cui tradizione e modernità convivano con maggiore evidenza. Anche il linguaggio è una sorpresa: la gente di Kumzar si esprime in una lingua propria, sintesi di differenti idiomi arabi e senza forma scritta. Vivono pescando a poca distanza dalla riva, utilizzando le reti e le barche tradizionali, alle quali è stato aggiunto il motore fuoribordo. Il pesce viene steso al sole ed essiccato; una volta pronto, i pescatori lo trasporteranno nel capoluogo, da cui prenderà la via degli Emirati Arabi.Durante la stagione estiva, da giugno a settembre, l’alta temperatura dell’acqua spinge il pesce al largo e l’attività principale cessa. E’ il momento in cui il villaggio si svuota: le case vengono chiuse e gli abitanti si spostano a Al Khasab, dove da pescatori provetti si trasformano in raccoglitori di datteri fino al termine dell’estate.

PleinAir 329 – dicembre 1999

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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