L'isola sottosopra

Per secoli gli abitanti di Favignana hanno estratto dal suolo un pregiato materiale da costruzione: e hanno così rimodellato il paesaggio con un'altra isola ipogea, dove fioriscono incredibili giardini e le cave somigliano a cattedrali.

Indice dell'itinerario

Sono diventati pezzi da museo e se ne trovano sempre più raramente di mannare e zappune, dimenticati in qualche vecchia cantina. Erano gli attrezzi tipici dei cavatori di pietra, i pirriaturi di Favignana che per secoli hanno scolpito, sottoterra, un’altra isola. Il paesaggio dell’area orientale, piatta di campi rossastri, appena spruzzata di macchia mediterranea, frammentata da muri a secco e costruzioni sparse, non lo dà ad intendere. Ma basta sporgersi dai recinti o passeggiare lungo costa per veder sprofondare un fiabesco labirinto di cave abbandonate a cielo aperto o in galleria. Da lì sono stati estratti, a mano, i blocchi di biondo calcare poi finiti negli edifici di mezza Sicilia, di Malta, di Tunisi, dove hanno acceso la luce calda delle Egadi.
Oggi è rimasto attivo un solo impianto di estrazione dei pochi meccanizzati una quarantina d’anni fa e dismessi da una ventina. Ma fino agli anni ’50 c’erano almeno duecento cave tradizionali, alcune di notevole dimensione e altre aperte da più di un millennio (senza contare le cave minori sfruttate dai singoli proprietari per uso privato o per piccoli commerci locali): insieme all’agricoltura e alla pesca del tonno, quando di turismo ancora non si parlava, rappresentavano la ricchezza dell’isola. Ed erano tutte concentrate nella parte orientale perché costituita in prevalenza da calcarenite, una roccia sedimentaria ricca di fossili che per la facile lavorabilità, la leggerezza e l’aspetto spugnoso viene erroneamente assimilata al tufo, di natura eruttiva. In paragone a questo, anzi, la pietra di Favignana dimostra proprietà fisiche di resistenza, impermeabilità e coibentazione superiori, che non degradano e si esaltano nel tempo. In più è una pietra… che canta: se percossa emette infatti come un’eco melodiosa di sirene, la voce del suo mare. Perciò vengono detti cantuni i conci modulari che se ne ricavano: mezzo metro di lunghezza, 25 centimetri di larghezza e 15 di spessore (o di dimensioni speciali se richieste), una vera e propria unità di misura non solo nell’edilizia ma anche nell’economia, nei trasporti, nella sfera sociale. La paga dei cavatori, la gerarchia tra le maestranze, la capacità dei carretti per la movimentazione via terra e quella delle barche per le spedizioni via mare, tutto era calcolato in base al numero dei cantuni. Il lavoro in cava era a cottimo, dunque durava dall’alba al calar della sera; ma raramente un pirriaturo, per quanto abile, riusciva a estrarre più di venticinque blocchi al giorno. Non era solo questione di forza fisica: agli addetti si richiedevano esperienza per individuare i giacimenti migliori e doti di agilità non comuni per discendere e risalire senza scale né imbracature a volte più di 30 metri, servendosi unicamente degli appigli per le mani incisi via via sui tagli verticali.
Ma come nasceva una cava? Anzitutto si liberava il terreno dal cappellaccio (lo strato superiore di roccia indurita all’aria e incoerente), quindi lo si saggiava con un pozzo verticale. Se del caso, si spianava un primo basamento asportandone i blocchi, poi un secondo e via via altri fino a raggiungere quote sempre più basse, dove la qualità del materiale migliorava e si potevano scavare gallerie orizzontali, badando sempre a non compromettere la staticità delle volte.

Andar per cave
Cave piccole e grandi si scorgono, come detto, un po’ ovunque visitando la porzione dell’isola rivolta a levante e persino sbirciando tra le case del capoluogo. Ma gli esempi più spettacolari si trovano anzitutto sul mare, a Cala Cavallo, Cala Rossa, costa del Bue Marino e Cala Azzurra, e poi nell’entroterra nei vocaboli Setteminne, Frà Santo, Quattro Vanelle (o Contrada Bue Marino).Cominciamo la ricognizione proprio dalle Quattro Vanelle con una visita guidata che si rivela preziosa come introduzione al tema. Qui infatti un benemerito imprenditore e la sua consorte hanno pazientemente acquisito in circa quarant’anni varie cave abbandonate, accorpandole per realizzarvi un eccezionale parco botanico ipogeo esteso per più di 3 ettari. Ad illustrare passo passo i Giardini di Villa Margherita (così si chiama il parco, annesso a un omonimo residence di case sparse) è Ancilla Finazzi, una guida assai speciale: favignanese di adozione ma bresciana di nascita, vive sull’isola da vent’anni e ha imparato a conoscerne tutti i segreti, in particolare quelli delle cave e dei cavatori cui fa continuo riferimento nelle sue descrizioni dei giardini. A 10, 20 e più metri di profondità piante ornamentali e da frutto, essenze rare ed esotiche oltre a un compendio della flora mediterranea fioriscono con incredibile rigoglio. Laggiù, al riparo dal vento e dalla salsedine che rendono brullo il terreno superficiale, il clima perennemente mite, l’humus ricco di minerali e l’acqua dolce distillata dalla calcarenite fanno miracoli, perpetuando con un supplemento di messa in scena la tradizione isolana degli orti interrati. Un tempo era da questi che gli abitanti traevano molte scorte alimentari: oltre a frutta e verdura, carni, uova e latte dei piccoli animali da cortile. Ma il turismo, le residenze stagionali e la grande distribuzione commerciale hanno ormai sconvolto gli antichi equilibri, al punto che gli amministratori locali non trovano più niente di male a rilasciare concessioni per la costruzione di nuovi condomini direttamente sulle cave storiche (da trasformare ovviamente in garage). A questo proposito, l’ennesima colata di cemento autorizzata in Contrada Badia ha sollevato la furia degli ambientalisti: che però non l’hanno spuntata, così come da più di tre anni a questa parte – complice l’inerzia della riserva marina delle Egadi – non sono riusciti ad impegnare ufficialmente chi di dovere nella valorizzazione dell’enorme patrimonio di cave non ancora compromesse.

Prima che sia troppo tardi
Se non fosse per lo spirito d’iniziativa di qualche operatore culturale indipendente, sarebbe davvero difficile evitare all’isola il solito avvilente futuro all’aroma di lozione solare. Delle visite guidate, intanto, Ancilla Finazzi ha fatto più che un lavoro una missione, e altri giovani volenterosi cominciano a imitarla. Gli stessi coniugi Campo titolari di Villa Margherita, in special modo la signora Gabriella, dedicano passione e risorse al recupero delle tradizioni; mentre lo scultore omonimo Antonino Campo (il cognome è assai diffuso nelle Egadi) organizza ogni anno proiezioni e conferenze pubbliche gratuite per far conoscere agli ospiti le più rare bellezze dell’isola. Per parte nostra ci sembra doveroso aiutarli invitando i lettori a una visione privata della Favignana “di sotto” prima che l’incuria delle istituzioni e le ingiurie del tempo la impediscano del tutto.
Di fatto già oggi la carenza di segnalazioni e la totale assenza di sistemi di sicurezza e di controllo rendono difficoltosa l’esperienza, tranne appunto (ma non del tutto) nei pochi luoghi investiti da qualche interesse balneare. Come Cala Rossa, così chiamata in ricordo di una sanguinosa battaglia navale tra Romani e Cartaginesi, ma ambitissima per le acque smeraldine e punto di ritrovo di lussuosi natanti. O come la vicina e meno estesa Cala Azzurra, servita dalla strada asfaltata diretta al faro di Punta Marsala. Sono entrambe una successione di cave a cielo aperto, che lasciano intravvedere gli antichi bacini di estrazione ora goduti come solarium e contornano le baie con due stupefacenti scenari di pietra modellata. C’è da commuoversi soltanto a calpestarne i bordi polverosi, figurarsi a scoprirne qua e là gli angoli di lavoro non finito, i depositi di blocchi scartati, le geometrie cubiste di una grande Legoland mediterranea… Sono invece nascoste e prevalentemente in galleria le cave di Cala Cavallo e del Bue Marino, queste più facilmente raggiungibili dal mare. Qui l’emozione sta nel trovarsi improvvisamente al cospetto di giganteschi ambienti che ricordano navate, absidi e transetti di cattedrali, sta nel sentirsi piccoli e insignificanti di fronte alle tracce di opere durate secoli e generazioni di uomini, sta nel trovare subito fuori, a precipizio sulle onde, altri segni di quell’immane fatica: gli scivoli utilizzati per caricare direttamente sui barconi i blocchi appena estratti.
A pelo d’acqua e a riva si trovano anche le cave più antiche dell’isola, alcune già sfruttate in epoca preromana, che orlano la Cala San Nicola nei pressi del cimitero e tutto il litorale nord fino all’antemurale del porto. A svelarle bastano una passeggiata in bicicletta o una corsa sul bus urbano che le lambisce in parte, mentre occorre aggirarsi a piedi per la campagna se si vogliono cogliere diverse prospettive e immagini rivelatrici, sia del lavoro dei cavatori che di quello complementare dei costruttori. Casolari, stalle e fienili tradizionali si contano ormai sulla punta delle dita, eppure le murature in pietra rappresentano ancora il più naturale destino dei cantuni: lo spazio costruito che restituisce al cielo la Favignana sottratta al suolo dai suoi stessi figli.

Viva Zù Sarino
Chissà se il Comune di Favignana riuscirà mai a dedicargli un museo raccogliendone le opere sparse per l’isola, per l’Italia e non solo. Opere che lo scultore naïf Rosario Santamaria, meglio noto come Zù Sarino, realizzava per puro diletto e che regalava per pura amicizia a chiunque mostrasse di apprezzarle soffermandosi nella sua casa-laboratorio all’ingresso del paese, proprio di fronte ai depositi della tonnara. Lo conoscemmo lì nel 1987 mentre lavorava di mannara e subito simpatizzammo, complici i nostri tre figli adolescenti che lo colmarono di attenzioni. Cosicché tornammo a casa con cinque suoi pezzi nel gavone del camper (tra cui un intenso autoritratto che volentieri cederemmo al museo). Non facemmo in tempo a rivederlo prima che se ne andasse, nel ’92, dopo aver trascorso sessanta dei suoi anni a cavar pietre, pochi altri da tonnaroto e infine quasi quindici da artista. Un genio ispirato che aveva scoperto improvvisamente come tutte le cose somigliassero ad altre, una nuvola a un drago, una radice a un uccello, una roccia a un fauno. E che s’era messo gioiosamente, quasi tornato fanciullo, a liberare forme da ogni blocco di pietra o pezzo di legno, inebriato da uno spirito creativo inarrestabile; al tempo stesso un folletto gentile e un “ciclope”, come ebbe felicemente a definirlo la compianta scrittrice Gin Racheli.

PleinAir 418 – maggio 2007

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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