L'avventura dei poveri cristiani

La Chiesa di Roma li chiamava eretici e li perseguitò fino a sterminarli: oggi i catari e i luoghi in cui vissero e cercarono riparo, fra i Pirenei e la Linguadoca, sono al centro di una riscoperta culturale e turistica da vivere anche in camper e a piedi.

Indice dell'itinerario

Sui libri di scuola, tra astuti guelfi, ghibellini ipocriti e feroci incursioni normanne, qualche riga sugli albigesi l’avevo sicuramente studiata: tanto che il nome, finito insieme a tanti altri in un cassettino della mia mente, non era scomparso del tutto. Poi, in occasione di un viaggio in Francia, avevo scoperto anzitutto che con i termini di catari e di albigesi venivano chiamati i fedeli della stessa religione, e poi che la crociata contro di loro era stata uno degli avvenimenti storici più importanti del meridione francese. Così, dopo aver frugato nella memoria e aver iniziato a leggere qualche libro su quell’epoca, era nata la mia modesta passione per gli antichi eretici della Linguadoca. A forza di seguirne le tracce su e giù per erti castelli o borghi silenziosi, all’interesse si è unito però un sentimento che si potrebbe definire un po’ di solidarietà e un po’ di rispetto per quei cristiani così particolari che, con le loro convinzioni rigide e inflessibili, si trovarono loro malgrado al centro di una guerra crudele, finendo brutalmente spazzati via dalla storia.
Eccoci allora sulle tracce degli albigesi non senza ricordare, prima di avviarsi, che i luoghi legati alle loro vicende sono tra i più belli e affascinanti di questa grande regione che si estende ai piedi del versante francese dei Pirenei, riunendo in sé i paesaggi, la storia, la natura e, perché no, anche la cucina e il rosso vino forte dal profumo ancora mediterraneo.

La culla dell’eresia
Se non altro per ragioni storiche, il punto di partenza ideale per seguire le tappe di questa epopea medioevale è la città di Albi dove, per la prima volta, la Chiesa romana si trovò di fronte all’evidenza dell’eresia catara. Fu il futuro San Bernardo, giunto sulle rive del Tarn nel 1145, a denunciare con costernazione al Papa la grande presenza di eretici in città, mentre il suo compagno Geoffroy d’Auxerre scriveva che “…arrivarono al punto di pararsi di fronte a Monsignore il legato con asini e tamburi. E quando si suonarono le campane per convocare la gente alla messa solenne, vennero a malapena trenta persone . Qui i dottori della chiesa coniarono il termine di albigesi, e in città s’innalza uno dei monumenti più impressionanti della lunga guerra contro di loro. Dopo la sconfitta dei nobili della Linguadoca che dei catari erano stati i sostenitori – anche per il rifiuto di piegarsi ai voleri di Roma e del re di Francia – la Chiesa riprese il controllo della regione: per celebrare il trionfo serviva un simbolo da ricordare, temere, ammirare, e così nacque la chiesa di Sainte Cécile, 113 metri di lunghezza, 35 di larghezza e 40 di altezza, con un campanile che svetta per quasi 80 metri. Per costruirla ci vollero quasi due secoli, dal 1282 al 1480, realizzando un vero miracolo d’ingegneria anche perché le sue strutture non sono di solida pietra, ma di mattoni rossi. Il Giudizio Universale alle spalle del suo altare è forse l’affresco più minaccioso e impressionante che si possa incontrare in Occitania: teorie di dannati torturati, seviziati e divorati hanno lo scopo di chiarire, una volta per tutte, ciò che spetta di diritto a chi dubita, discute, contrasta i dogmi della Chiesa. Più di duecento statue, perfettamente conservate, segnano il chiaro confine tra l’ortodossia e il dubbio, la fede e l’errore.
Albi, intorno alla sua imponente e severa cattedrale, è una città amena e piacevole, con vicoli e ponti, souvenir e turisti i quali, oltre ad affacciarsi nella chiesa, non mancano di visitare il museo dedicato a Henri de Toulouse-Lautrec. Nato ad Albi nel 1864, era il rampollo di una nobile famiglia della zona e a vent’anni, già pittore affermato, fuggì sino a rifugiarsi nell’equivoco e sensuale mondo parigino di Montmartre; sarebbe tornato a casa per morire nel 1901 a soli 36 anni, divorato dall’alcolismo, dalla sifilide e stroncato da una serie di colpi apoplettici. Lasciava dietro di sé una scia eccezionale di ballerine e ritratti, manifesti per i café chantant e tragici spaccati della vita degli emarginati: il clero, nonostante la decisione della madre dell’artista che aveva voluto donare tutte le sue opere alla città di Albi, fece di tutto per non esporre quelle opere nell’antico palazzo vescovile, anche se ormai si trattava di una struttura pubblica.

Il capoluogo della Languedoc
Poco meno di 80 chilometri separano Albi da Tolosa. Oggi brillante sede di università e di industrie famose come l’Airbus, ai tempi dell’eresia era la ricca capitale della Linguadoca. I conti tolosani cercarono di opporsi alla crociata e al re di Francia in vari modi: combattendo, mediando, addirittura saltando da una parte all’altra della barricata in momenti cruciali. Del Medioevo rimangono tracce imponenti come la cattedrale di Saint Sernin oppure l’eccezionale collezione di capitelli e sculture romaniche, cioè grosso modo dell’epoca della guerra albigese, conservate nelle sale e nei chiostri dell’antico convento che è oggi il Musée des Augustins. Ma forse il luogo più emblematico è la solenne navata della chiesa del convento dei Jacobins, fondato nel XIII secolo dai domenicani con lo scopo di diffondere l’ortodossia cattolica attraverso i sermoni e lo studio. L’interno è sorprendente: due navate parallele sono separate da una fila di pilastri imponenti che sembrano scomparire verso l’alto, in direzione del soffitto segnato dalle eleganti nervature degli archi gotici. Il sole proietta sulle colonne i colori sgargianti delle vetrate e non un rumore incrina l’atmosfera solenne, imperiosa ma anche semplice, essendo l’edificio privo di arredi, gradini, altari e cappelle ad eccezione della tomba di San Tommaso d’Aquino, che si trova nel centro. La chiesa, spiegano gli storici, è così fatta perché quello che serviva ai domenicani era un luogo dove molti fedeli potessero assistere alla predicazione senza distrazioni. La loro parola, come quella di San Domenico che aveva girato in lungo e in largo la Linguadoca per combattere l’eresia, era appunto quella della dottrina. Senza contare il fatto che l’Inquisizione, nata nel XIII secolo per sradicare ciò che rimaneva dell’eresia albigese, era stata affidata dal Papa proprio al loro ordine.

Il giorno del rogo
La discesa verso il cuore della regione che fu la patria dei predicatori eretici si dirige a Foix, lungo la strada che sale ai rutilanti e un po’ tristi negozi dutyfree di Andorra. In uno slargo della valle dell’Ariège, le torri di Foix sono state ricostruite ma il castello è ancora quello che respinse le truppe della crociata guidate dal risoluto Simon de Montfort nel 1211 e nel 1212. I conti di Foix non erano eretici, ma intendevano proteggere sé stessi e i loro sudditi, anche catari. In un dialogo fra il vescovo di Tolosa e il signore occitano Pons Adhémar, riportato da Guyllaume de Puilaurens in una sua cronaca, quando il prelato chiede perché non scacci gli eretici dalle sue terre il cavaliere risponde: “Noi non lo possiamo… siamo stati allevati con loro, abbiamo tra loro dei familiari e li vediamo vivere onestamente…”
Dall’alto delle torri del castello, con ai piedi la cattedrale, verso oriente si alzano le colline di quello che oggi viene chiamato Pays Cathare, mentre verso sud brilla la neve dei Pirenei. Non è lunga la strada che conduce a Roquefixade, il primo dei castelli che, anche se citato dagli enti del turismo come cataro, non sembra aver ospitato particolari congreghe di eretici. Su una rupe chiara, che svetta sopra i tetti della case di un piccolo paese, tra le rovine (raggiungibili in una ventina di minuti di cammino) sventola la bandiera rossa con la croce gialla dell’Occitania.
Ma è la prossima tappa a portarci nel luogo più emblematico e tragico della guerra religiosa, a Montségur. Fortezza vertiginosa abbarbicata su di una rupe scoscesa, fu l’ultimo rifugio dei catari perseguitati: all’alba del 16 marzo 1244 più di duecentoventi tra uomini, donne e bambini, legati l’uno all’altro con le briglie dei cavalli, vennero condotti nel prato della roccaforte e spinti in un grande recinto di legno già riempito di braci, mentre i soldati vincitori e i loro preti intonavano un trionfale Te Deum di ringraziamento. Il rogo non avrebbe però concluso la storia di Montségur che, nel corso degli ultimi decenni, è divenuto l’epicentro di una riscoperta dei catari spesso ambigua, velata di leggende e di misteri, addirittura trascinata dai nazisti in una dissennata ricerca del Santo Graal.

Verso il Mediterraneo
La via delle fortezze prosegue lasciandosi alle spalle gli echi delle battaglie e degli assedi. Anche il maniero di Puivert venne conquistato dalle truppe della crociata, resistendo solo tre giorni a motivo delle sue ben più semplici strutture: ma la sua storia è rimasta legata alle vicende eretiche non meno che l’epopea di trovatori, poeti e cantori della sonora langue d’Oc. Tanto che, nella sala principale del castello, le sculture di una serie di musici medioevali fanno ancora bella mostra di sé, mentre tra le case del paese un piccolo museo offre ai visitatori la musica e gli strumenti dell’epoca.
Il paesaggio, da qui in avanti, inizia a cambiare dopo che si è scesi a Quillan per traversare il corso dell’Aude. Le colline e gli altipiani iniziano a profumare di Mediterraneo e, oltrepassate le strette e selvagge gole di Galamus (dove è sconsigliabile inoltrarsi con un mezzo di grossa stazza), quando appare in lontananza la sagoma del castello di Peyrepertuse, l’odore della macchia ha ormai conquistato l’aria. Il nome del castello significa, in occitano, pietra forata e basta camminare una ventina di minuti fino in cima alle sue torri per apprezzare l’architettura di questa fortezza fantastica, sviluppata lungo una cresta strapiombante di calcare.
All’orizzonte, oltre la vallata di Cucugnan, un torrione svetta solitario nel cielo: è l’ultimo dei castelli catari prima del mare e fu anche l’ultima delle rocche a cadere. Qui, dopo la fine della chiesa eretica segnata dal rogo di Montségur, il cavaliere Chabert de Brabaira riuscì a resistere ancora per dieci anni alle forze del re di Francia per conservare il suo castello, la sua dignità di feudatario (cattolico, non cataro) e la vita del predicatore eretico Pierre Paraire, posto sotto la sua protezione e perciò intoccabile.

Carcassonne e la Montagne Noire
A nord delle montagne, le colline scendono verso la vallata dove le acque del Canal du Midi e dell’Aude scorrono in direzione del Mediterraneo. Da Limoux si può raggiungere subito la turrita Carcassonne oppure deviare leggermente verso il paese di Fanjeaux: la forma del borgo è identica a quella del castrum medioevale che, con stupore e preoccupazione, San Domenico scoprì essere popolato quasi esclusivamente da devoti fedeli della chiesa dissidente. A fianco alla chiesa quasi abbandonata erano infatti aperte due case catare, una maschile e una riservata alle bonnes femmes che accoglieva donne della piccola nobiltà, paesane e vedove che avevano scelto la dignità della vita in comune e del lavoro manuale. Qui il santo spagnolo incontrò per la prima volta Guilhaubert de Castres, il più grande predicatore cataro dell’epoca, il quale sostenne che …la chiesa romana non era né santa né sposa di Cristo; ma sposa del diavolo e dottrina dei demoni. Era la Babilonia che Giovanni nell’Apocalisse chiamava la madre delle fornicazioni e delle abominazioni… .San Domenico decise di contrastare la roccaforte eretica facendo costruire un convento ai suoi piedi, e in paese la chiesetta di Notre Dame de l’Assomption nasconde il segno della lotta che lo oppose ai dottori catari. Protetta da una sorta di grossa scatola, una trave conserva – si dice – tracce di bruciato: sarebbero quelle del messale del santo che Guilhaubert de Castres scagliò tra le fiamme al termine del dibattito del 1207, con l’intento di mettere alla prova le convinzioni cattoliche. Se esse fossero state corrette, le pagine non avrebbero preso fuoco: e così fu, dice la leggenda, perché per due volte il libro uscì dalle fiamme e la terza schizzò in aria con una tale violenza da rimbalzare sulla trave, lasciandovi il segno. Oggi un piccolo convento domenicano è vegliato da alcune anziane suore che offrono in vendita la loro marmellata, e tutto sembra lontano anni luce dalla furia della guerra di religione. La stessa guerra che, nel 1209, avrebbe travolto anche la vicina Carcassonne, decisa a resistere alle truppe guidate dal legato pontificio Arnaud Amaury e da Simon de Montfort. Dopo un duro assedio, stremati dalla sete di una caldissima estate, gli abitanti si arresero e lasciarono la città il 15 agosto portando con loro solo i propri peccati , come scrisse il cistercense Pierre des Vaux-de Cernay. Il castello conserva solo alcune strutture dell’epoca mentre la chiesa dei Santi Nazario e Celso, benedetta nel 1096 da Papa Urbano II, merita una visita per cercare nel transetto un frammento di bassorilievo del XIII secolo. Con un po’ di attenzione, fra un’ondata di turisti e l’altra, si troverà quella che è soprannominata pietra dell’assedio , raffigurante un assalitore che sale sulle muraglie di una città circondata e attaccata: si è scritto che il personaggio in questione sia Simon de Montfort e che la lapide tombale a fianco sia quella sotto la quale il condottiero crociato sarebbe stato sepolto dopo la sua morte ai piedi delle mura di Tolosa.
La zona della Linguadoca che i crociati trovarono più difficile da conquistare è però quella della Montagne Noire, l’insieme di colline e basse montagne a nord di Carcassonne dove si trovano le torri diroccate del castello di Lastours e, dopo decine di curve e curvette attraverso un paesaggio verdeggiante, scendono nuovamente in pianura a Mazamet, dove c’è un museo dedicato al catarismo. L’intera zona era controllata da decine di signori locali che, ben armati e decisi a non cedere i loro feudi all’invasore, portarono avanti una guerriglia dura e violenta contro le truppe della crociata, nascondendo nel frattempo gli eretici e salvandoli così dai roghi.
Quello di Mazamet è un museo virtuale, pieno di suggestione anche se vuoto di oggetti, ma con un allestimento moderno e una trovata scenica impressionante e di grande effetto. Due delle sale sono separate da una lunga parete chiara, ornata da decine e decine di nomi: sono quelli degli abitanti del vicino borgo di Hautpoul, nel periodo in cui l’Inquisizione aveva preso il posto della guerra tragicamente conclusa. Di fianco a ogni nome spiccano le dizioni croyant (credente) oppure faydit (esiliato) o ancora bonhomme e bonne femme, a terminare il breve elenco delle categorie sistematizzate dagli inquisitori. E ogni tanto, sotto a un nome, una dicitura in bella calligrafia di stile medioevale pesa più di una lapide di granito: brûlé oppure, per le donne, brûlée, cioè bruciati.
Ancora più a settentrione la piana si allarga verso Castres, che con le sue case solari affacciate sulla riva del Tarn non conserva più nulla dell’epoca della guerra occitana: ma Albi e la sua cattedrale, emblema della riconquista cattolica, distano soltanto una cinquantina di chilometri.

PleinAir 418 – maggio 2007

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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