L'altra metà del cielo

Divisa ormai solo sulla carta da una frontiera che gli accordi europei hanno praticamente abolito, Gorizia è una città profondamente intrisa di storia, come le alture che la circondano. Ma oggi questi luoghi, teatro di sanguinose battaglie fra il 1915 e il 1916 e di conflitti non meno dolorosi dopo la Seconda Guerra Mondiale, sono divenuti un monumento all'aria aperta che celebra la pace sotto il segno della memoria.

Indice dell'itinerario

Felicità è un confine che non c’è più, o quasi. La sera del 20 dicembre 2007 una folla festante ha accolto il sollevamento della sbarra alla frontiera di Casa Rossa, il passaggio più importante fra Gorizia e Nova Gorica. La stessa scena, nello stesso momento, si è ripetuta a Sant’Andrea, in corrispondenza della località di Vrtojba, e in decine di altri passaggi compresi tra Fusine in Valromana, nel Tarvisiano, e il promontorio di Punta Sottile fra Muggia e l’Istria. «L’hanno alzata, l’hanno alzata!» gridavano in coro i goriziani.
Sbarre e controlli sono spariti con l’entrata della Slovenia negli accordi di Schengen, che permettono il libero transito dei cittadini e delle merci tra gran parte dei paesi dell’Unione Europea. Lo stesso era accaduto, dodici anni prima, al Fréjus, a Ventimiglia e al Brennero. Ma la frontiera che taglia in due Gorizia e aggira Trieste non è uguale alle altre. Qui, per sessant’anni, oltre all’Italia e alla Jugoslavia di Tito si sono fronteggiate le due metà dell’Europa. Conquistata dalle truppe del Regno d’Italia nel 1916 a seguito delle sanguinose battaglie dell’Isonzo e del Carso, Gorizia fu colpita con altrettanta durezza tra il 15 e il 16 settembre 1947, quando gli strascichi politici della Seconda Guerra Mondiale la divisero in due praticamente dalla notte al giorno. Il centro e il castello rimasero in Italia, ma finirono divisi dal resto della città luoghi importanti come la stazione della Ferrovia Transalpina. Certe famiglie in poche ore si ritrovarono in Jugoslavia, altre vennero separate dalle proprie officine e dai propri orti.
Al contrario che a Berlino, però, il confine non è mai stato impermeabile, e una decina di valichi hanno permesso il transito a residenti e turisti. Nata dopo la divisione, la città jugoslava di Nova Gorica, progettata dall’architetto Edvard Ravnikar, doveva essere una vetrina della modernità socialista. L’indipendenza della Slovenia nel 1991 e il suo ingresso nell’Unione nel 2004 hanno preceduto l’apertura del confine. Oggi una passeggiata sui due lati della frontiera stupisce chi ha visitato questi luoghi solo una ventina d’anni fa. I residenti, all’inizio, sembravano ancora più stupiti degli altri, ma in pochi mesi si sono abituati alla nuova realtà.

Due città in una
La passeggiata a Gorizia può iniziare da Piazza della Transalpina e dall’omonima stazione, un bell’edificio liberty inaugurato nel 1906. La piazza, ancora tagliata dal confine, è stata ripavimentata e abbellita con opere di artisti dei due paesi; la base della vecchia sbarra frontaliera slava sembra a sua volta un’opera d’arte. All’interno del vecchio scalo ferroviario austroungarico, il Goriöki Muzej, dedicato alla storia della frontiera, espone vecchie fotografie, carte lasciapassare ingiallite dal tempo e le divise del KNOJ e della JLA, i due corpi militari jugoslavi che per quasi mezzo secolo hanno controllato i passaggi da una parte all’altra. Merita una sosta e una riflessione anche la vecchia locomotiva, ora divenuta un pezzo da museo, in mostra su una pedana al margine della stazione: per decenni, dal 1947 in poi, questa vaporiera fabbricata a Napoli e tenuta come preda di guerra dalla Jugoslavia ha collegato Nova Gorica con Lubiana e le città jugoslave.
Accanto alla ferrovia inizia la pista ciclabile, piacevole anche a piedi, che corre sulla linea di confine tra le case della città italiana e i campi dei contadini sloveni che ogni mattina dovevano oltrepassare la frontiera per lavorare. Superato il vecchio posto di blocco di Via Rafut, con la sbarra italiana dipinta di verde, bianco e rosso, si arriva al passaggio di Casa Rossa. Chi utilizza la bici può proseguire verso sud incontrando i casinò di Nova Gorica e il convento della Castagnavizza (Kostanjevica in sloveno).
Dal centro si raggiunge invece il poderoso Castello di Gorizia, iniziato poco dopo il Mille e completato nel XVI secolo, roccaforte di una piccola potenza regionale che non riuscì a sfondare in direzione dell’Italia – Udine venne assediata invano per sei volte – e quindi spostò i suoi interessi verso nord. Superata la Porta Leopoldina, costruita nel 1660 in onore dell’imperatore Leopoldo I, si prosegue fino al Borgo Castello, elegante nucleo di edifici del XV e XVI secolo. Tra i più suggestivi sono la Casa Rassauer (o Reschawer) costruita nel 1475 in stile veneto, la Casa Dornberg, la dimora del “mastro di posta” Simone Tasso (1545) e il seicentesco Palazzo Formentini. Negli edifici del borgo, oggi in buona parte adibiti a sede espositiva, il Museo della Grande Guerra è dedicato alle battaglie combattute sull’Isonzo e nella zona di Gorizia. Tra i cipressi è la piccola chiesa del Santo Spirito, costruita a partire dal 1398 dai toscani Giovanni e Michele Rabatta.

Fratelli di sangue
Il confine torna protagonista, nel modo più drammatico, se da Gorizia ci si sposta verso le alture del Carso che si allungano tra l’Isonzo e l’Adriatico, offrendo un ambiente sorprendentemente selvaggio di boschi, pietraie e valloni. Dal Monte San Michele, 276 metri di quota, lo sguardo spazia sulla pianura friulana, su Gorizia, sul massiccio del Canìn e su quello del Monte Nero, il Krn, nel parco sloveno del Triglav.
Qui, però, pochi salgono per cercare natura e panorami. Il San Michele e i rilievi che gli fanno da corona furono teatro di alcune delle più sanguinose battaglie della Prima Guerra Mondiale. Come quelli delle alture vicine, dal Sabotino all’Ermada, il nome di questo colle è entrato nella toponomastica di molte città italiane. Dal maggio del 1915 queste zone furono investite dagli attacchi italiani partiti dalla linea dell’Isonzo, condotti dalla Terza Armata sotto il comando del Duca d’Aosta. Il 29 giugno 1916 il contrattacco austroungarico vide per la prima volta l’uso massiccio dei gas, e 2.000 fanti italiani passarono dal sonno alla morte. Due mesi dopo, in agosto, la sesta battaglia dell’Isonzo terminò con la conquista del San Michele. Nei mesi successivi, il Genio scavò gigantesche postazioni per i cannoni che tiravano su Gorizia e sulle retrovie austroungariche, ma nel novembre del 1917 lo sfondamento di Caporetto costrinse i comandi italiani a ripiegare in fretta e furia sul Piave.
Alla fine della guerra, quando il Carso fu annesso al Regno d’Italia, il San Michele divenne un santuario all’aria aperta. La salita al monte inizia da Gradisca d’Isonzo e tocca San Martino del Carso, dove combatté il poeta Giuseppe Ungaretti. Il piazzale, affiancato da cannoni di entrambi gli schieramenti e da vari cippi (spiccano i monumenti ai combattenti istriani dell’esercito italiano e ai granatieri, ma anche una lapide che ricorda i caduti ungheresi), offre un magnifico panorama verso la valle dell’Isonzo, Gorizia e le Alpi Giulie. Intorno al piccolo museo ancora cannoni, memoriali e trincee permettono di leggere la storia delle terribili battaglie che si sono combattute quassù.
Altre mete storiche devono essere raggiunte a piedi con passeggiate più lunghe. I luoghi di maggior interesse sono indicati con targhe e raggiunti da viottoli segnati. Dal museo un sentierino conduce alla Cima 3, dove una scritta incisa su un masso ricorda che “Su queste cime | Italiani e Ungheresi | combattendo da prodi | si affratellarono nella morte”. Si continua costeggiando le trincee, si piega a destra sul crinale e si raggiungono le impressionanti cannoniere scavate nella roccia. Proseguendo sul sentiero di crinale si passa accanto a una galleria scavata dai militari austriaci, al cippo del Quarto Reggimento Honved e al monumento alla Brigata Sassari, che qui contò 13.000 morti e 18.000 feriti.

Un giorno in trincea
A sud del San Michele il Lago di Doberdò, ricco d’acque nelle vecchie immagini in bianco e nero, è oggi ridotto (come il vicino Lago di Pietrarossa) a una distesa di canneti circondata da boschi di salice, pioppo nero e frassino. A spiegare il mistero di questi bacini è la loro natura carsica: si formano sul fondo di una depressione, indicata dai geologi con il nome slavo di polje, che si allaga periodicamente per poi prosciugarsi di nuovo. Dal 1996 entrambi i laghi sono protetti dalla Regione Friuli Venezia Giulia con una riserva naturale, estesa su 726 ettari, che ha per simbolo il riccio orientale, piccolo mammifero dei Balcani. I percorsi escursionistici che si avvicinano agli specchi d’acqua permettono di osservare tracce di caprioli e di cinghiali e di cercare con il binocolo 190 specie di uccelli, tra cui alcuni rapaci rari e sei varietà di picchi. Nel complesso di Gradina, oltre a un museo e a un bar-ristorante, c’è l’inizio del Sentiero dei Castellieri, che tocca varie fortificazioni preistoriche.
Pochi chilometri più a sud la Prima Guerra Mondiale torna protagonista a Redipuglia, la bianca collina di marmo appoggiata alle alture del Carso che si affaccia su Monfalcone, l’Isonzo, l’autostrada e l’aeroporto. Qui, nei primi mesi del conflitto, gli italiani furono protagonisti di una serie di offensive sanguinose. Oggi la zona storica comprende due alture separate dalla statale. Il Monte Sant’Elia, a occidente della strada, ospita il Museo Storico Militare di Redipuglia e la Casa della Terza Armata. Nel Sacrario, progettato dall’architetto Giovanni Greppi e dallo scultore Giannino Castiglioni, sono custoditi i resti di 100.187 caduti italiani. All’ingresso, superate alcune trincee protette da tettoie in cemento, è la tomba del duca d’Aosta, morto nel 1931; ventidue gradoni conducono alla sommità del monumento e a una cappella votiva. Per la strada asfaltata che sale alle spalle del Sacrario si raggiunge il Monte Sei Busi, caposaldo austroungarico passato dopo duri scontri agli italiani. Il restauro del sito, avviato nel 2002 dalla Pro Loco di Fogliano Redipuglia, dal Gruppo Ricerche e Studi Grande Guerra e dall’Associazione Zenobi di Trieste, ha portato alla luce i ruderi di un posto di medicazione, di uno stemma del Quindicesimo Reggimento Bersaglieri e di una fossa comune che conteneva i corpi di 500 soldati. Qui, ad aprile e a novembre, si svolge la commovente rievocazione storica “Un giorno in trincea” con figuranti in divisa provenienti da Italia, Slovenia, Austria e Repubblica Ceca: i personaggi in costume, le descrizioni di armi ed equipaggiamenti, la lettura di brani di diari e di missive dal fronte consentono di accostarsi a una delle pagine più terribili della storia d’Europa. Su un muro, il graffito di una colomba realizzato da un soldato artista racconta come nei due eserciti ci fosse soprattutto una speranza: la pace.

Arte in bottiglia
Per trovare immagini diverse, alle porte di Gorizia occorre volgere le spalle al Carso e puntare verso le alture del Collio, celebri per i loro vigneti, dove l’elegante centro storico di Cormòns è sorvegliato dal Monte Quarìn, altro straordinario belvedere sulle Alpi Giulie, sulla pianura friulana e sulla costa di Monfalcone e di Grado. Un viottolo sale al santuario della Beata Vergine del Soccorso e raggiunge le mura e le torri della Rocca. In centro campeggia la statua di colui che riunificò i possedimenti degli Asburgo: Massimiliano I, arciduca del Tirolo e imperatore del Sacro Romano Impero dal 1493 alla sua morte, nel 1519. Spesso confuso dai visitatori con il suo omonimo vissuto quasi quattro secoli dopo (e per il quale venne edificato a Trieste il Castello di Miramare), Massimiliano era amato dalla gente di Cormòns perché aveva cacciato i veneziani, che avevano messo a ferro e fuoco la città, ed esentato per sette anni gli abitanti dalle tasse. Alla fine dell’estate un corteo in costume ricorda la sua figura; negli altri 364 giorni dell’anno bisogna accontentarsi della statua in bronzo, opera del 1903 dello scultore viennese Edmund Hofmann, rimossa dopo la Grande Guerra e risistemata sul suo piedistallo quando i dolorosi ricordi della popolazione furono rimarginati.
Una passeggiata nel centro permette di scoprire le architetture neoclassiche della chiesa di Santa Caterina (o della Rosa Mistica) del 1779, il settecentesco Palazzo del Mestri, il Palazzo Taccò-Aita, la Piazza XXIV Maggio su cui si affaccia il Palazzo Locatelli, oggi sede municipale, e il Museo Civico con le opere dello scultore locale Alfonso Canciani. Nella Centa di Sant’Adalberto, gruppo di edifici di origine medioevale, si alza l’imponente duomo, costruito nel ‘700 sui resti di una chiesa del XIII secolo: sulla luminosa facciata bianca spiccano tre statue in marmo di Carrara, opere di Gerolamo Fieschi, che raffigurano la Madonna affiancata da Sant’Adalberto a sinistra e da San Filippo Neri a destra, mentre l’imponente campanile è uno dei più alti del Friuli Venezia Giulia. Dopo l’immersione nei drammi della guerra si respira l’aria della pace, che finalmente regna anche qui: a sancire la visita, non resta che gustare un assaggio degli ottimi vini del Collio.

Testo e foto di Stefano Ardito

PleinAir 447 – Ottobre 2009

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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