L'abisso bianco

Calcare e gesso modellati dal millenario scorrere delle acque formano le immense cavità delle grotte di Frasassi, tra le mete europee più battute dal turismo speleologico e non solo.

Indice dell'itinerario

La visita di un enorme complesso sotterraneo come quello di Frasassi è in genere frutto di due diverse motivazioni: la prima è l’interesse per la natura, le sue forme bizzarre o maestose, la geologia; la seconda, più intima, è la ricerca (consapevole o meno) di quel brivido leggero che ci coglie di fronte al buio e all’ignoto.
Alle grotte si accede dalla comoda statale 76, che le sfiora nella sua corsa lungo la valle dell’Esino. La galleria artificiale che si inoltra nella montagna partendo dal fondo della gola somiglia alla stazione di una metropolitana, anche se decisamente più fredda e umida: ma il colpo di teatro, una volta raggiunto il portone d’ingresso, è eccezionale. Dal tubo di cemento che ci ha portato fin qui si sbuca di colpo in una delle più grandi caverne del mondo, e ai rumori che rimbombavano sulle pareti del tunnel si sostituiscono gli echi lontani e smorzati delle gocce che cadono sui sassi, delle voci remote di altri visitatori. Decine di riflettori illuminano le pareti lontane, segnate dalle strisce orizzontali degli strati rocciosi, fra le immani colonne che si innalzano dal pavimento; ma riescono appena a far intuire un foro nero e lontano sulla volta del salone Ancona. Da qui, dopo una fortunata esplorazione nel 1971 lungo un piccolo pertugio scovato nelle frane sotto le pareti esterne, sbucarono gli speleologi del capoluogo marchigiano per affacciarsi su un vuoto colossale che, senza le decine di kilowatt oggi utilizzati, doveva apparire un mare nero e misterioso.
La Grotta Grande del Vento si presenta con le forme immense dei suoi saloni, ma camminando lungo la passerella che si srotola tra stalagmiti e massi di dimensioni ciclopiche franati da una volta lontana, lo sguardo si allontana dall’enorme per scendere a concentrarsi sul piccolo. Le concrezioni calcaree nate dal lavoro millenario dell’acqua vanno da decine di metri a pochi millimetri, si tratti di piccole colonne, dei drappeggi creati sui soffitti dal vagabondare delle gocce cariche di carbonato di calcio, delle sottili stalattiti tubolari che si specchiano in decine di vaschette. Il percorso turistico, dopo aver superato la Sala Ancona, scende fino alla Sala dei Duecento dove ancora dominano le grandi forme rocciose, per poi iniziare a seguire in piano la lunga galleria che raggiunge la Sala delle Candeline, nella quale la luce si riflette sull’acqua immobile. Accanto alle passerelle si aprono gallerie, pozzi che scendono verso il buio o camini che si inerpicano in alto. Ma le grotte non si esauriscono certamente con le suggestioni dell’itinerario attrezzato: molte altre diramazioni sono pane quotidiano per le esplorazioni degli speleologi che, in passato, hanno portato a collegare questa cavità con l’altro enorme sistema della vicina Grotta del Fiume. Non è necessario, però, essere degli esperti per poter mettere i piedi fuori dalle passerelle di cemento: su prenotazione si seguono le guide lungo itinerari che seguono i rami non turistici, dove la luce non c’è – se si esclude quella della torcia che ogni visitatore porta sul casco – e la grotta appare avvolta da un gioco di ombre che celano le asperità della pietra.
Una volta usciti all’aria aperta si può raggiungere, sempre lungo le gole isolate dalle loro alte pareti grigie, una cavità del tutto differente. Bastano dieci minuti a piedi dal piccolo parcheggio sulla strada per arrivare alla Grotta del Santuario, al cui centro si trova un tempio neoclassico realizzato nel 1828 per volere del papa Leone XII su disegno del Valadier: al suo interno venne sistemata una Vergine di marmo bianco scolpita dal Canova (che oggi si trova nel museo di Genga), mentre a due passi dalla mole poligonale della chiesa si trova, pure questo incastonato nella roccia, l’eremo di Santa Maria Boccasaxorum, fondato prima dell’anno Mille. Alle spalle delle due chiese un pendio porta verso il buio echeggiante di una grotta che si collega con altre cavità dei dintorni.
Ai margini delle gole si visitano Genga, in un intreccio di vicoli dove il sole arriva di rado, e San Vittore, che ruota attorno alle splendide forme della chiesa di San Vittore delle Chiuse la quale fu parte integrante di un monastero fondato nel X secolo. Sorge su un prato con il profilo roccioso del canyon alle spalle, mentre di fronte si nota un piccolo ponte romano perfettamente conservato sul fiume Sentino. Ben più antico è invece il fossile completo di un ittiosauro, dal lungo muso dentato, restaurato ed esposto nel piccolo museo del paese dopo essere stato trovato per caso durante i lavori di scavo di una delle strade dei dintorni.

PleinAir 411 – ottobre 2006

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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