Isole di montagna

In auto, pullman e treno, un classico (ma non del tutto) itinerario di scoperta del Perù centro-meridionale. Fra altipiani e deserti, immani testimonianze archeologiche degli Inca e città storiche in stile spagnolo, c'è anche tempo per visitare piccoli arcipelaghi fuori dal mondo e per impregnarsi di una cultura in cui il sacro e il profano sono ancora la trama e l'ordito della vita quotidiana.

Indice dell'itinerario

Un lungo volo ci ha portato dall’Europa all’America Latina, ma ecco finalmente apparire dai finestrini dell’aereo la distesa metropolitana di Lima, capitale del Perù. Quella che fu una delle più sontuose città coloniali spagnole ormai conserva poco del suo vecchio fascino, invischiata nel traffico che scorre incessante sotto un cielo di grigia pesantezza. Visiteremo il suo centro, Plaza Mayor, la cattedrale e il convento di San Francisco solo sulla via del rientro: ora, costeggiando l’oceano per circa 260 chilometri lungo la Panamericana, puntiamo dritti alla penisola di Paracas, con l’omonima riserva naturale e le isole Ballestas soprannominate le piccole Galapagos del Perù.
Pernottiamo a Pisco, agglomerato di povere case basse, unica costruzione di una certa imponenza la chiesa bianca e azzurra. Al mattino presto ci rimettiamo in marcia e lasciamo la strada asfaltata per inoltrarci nell’ambiente desertico della penisola. Dune color seppia, rosate o giallo oro terminano in scogliere che piombano nel Pacifico: da un punto panoramico ammiriamo La Catedral, una falesia dalla cima appuntita che si protende nell’acqua ed è preceduta da un arco di roccia. Il Candelabro, enorme incisione a tre bracci che occupa un ampio pendio di un’intensa sfumatura di rosso, lo vedremo invece dal mare. Le Islas Ballestas, sparse al largo di Pisco e del promontorio, ospitano colonie di foche, leoni marini, pinguini, cormorani, gabbiani, pellicani che vivono appollaiati su questi scogli: lo sbarco è consentito solo ai raccoglitori di guano (ovvero gli escrementi degli uccelli che fin da tempi remoti vengono largamente impiegati come fertilizzante per la loro capacità di arricchire il suolo), mentre noi vi gireremo intorno a bordo di uno dei motoscafi delle gite organizzate che però si avvicinano quanto basta per consentirci di osservare gli animali.
Dopo esserci lasciati alle spalle le lunghe onde scure dell’oceano, mentre sale la luna (alle sei di sera è già buio) entriamo in uno scenario di montagne spoglie e lisce rocce che brillano sotto la luce argentea dell’astro. Da Nazca, centro dell’omonima civiltà preincaica, un piccolo aereo turistico ci permette di ammirare le famose linee tracciate fra il III e il IX secolo sull’arido terreno dell’altopiano rimuovendo le pietre più scure per far emergere il fondo di colore chiaro. Forme geometriche perfette, misteriose composizioni o enormi figure che rappresentano il colibrì, la scimmia, il cane sono visibili solo dall’alto, e infatti il mondo ne scoprì l’esistenza alla fine degli anni ’20 quando iniziarono i voli aerei su questa zona. Le teorie sul significato dei disegni sono diverse, ma nessuna incontrovertibile: da un calendario astronomico a camminamenti rituali o, come molti credono, piste per l’atterraggio di navi stellari extraterrestri. Il cimitero di Chauchilla, con resti della civiltà Nazca, ci riserva invece una serie di tombe a cielo aperto con teschi di un bianco abbagliante scarnificati dal sole ma dai lunghissimi capelli, anche 3 metri, perfettamente conservati.
Arequipa è la seconda città del Perù: siamo a 2.400 metri di altitudine e ci accompagna un sole splendente. Beviamo il nostro mate de coca, con cui ci disseteremo per tutto il viaggio: è il rimedio più diffuso contro il soroche, il mal di montagna, poiché ripristina la salivazione, mette in ordine lo stomaco, regola il ritmo cardiaco e la pressione sanguigna, insomma un vero toccasana. Giunti a Plaza des Armas ci sembra di essere in Spagna, con fontane, giardini, patios, chiese sfarzosamente decorate che conservano opere di pittura e scultura realizzate secondo la tradizione europea, rivisitata però in chiave indigena dagli artisti locali. La chiesa della Compagnia del Gesù ha la facciata e i pilastri del chiostro superbamente intagliati, mentre negli interni spiccano pale d’altare che arrivano al soffitto, ornate fino al parossismo da quintali d’oro, mentre lo sguardo si perde nel seguire i mille intrecci che uniscono elementi moreschi, spagnoli, indios. Il monastero di Santa Catalina, piccola città nella città, fu fondato nel 1580 e accoglieva le secondogenite delle famiglie più agiate: l’azzurro cobalto e il color zafferano intenso delle pareti si alternano nei misteriosi corridoi, nelle celle, nelle cappelle, elementi di un’architettura che sembra di influenza araba, tra cortili fioriti di alberi d’arancio, gerani e fontane da cui sgorga l’acqua che arriva dai vicini vulcani ancora attivi. El Misti, Chachani e il Pichu Pichu si mostrano incappucciati da nevi perenni; da qui si raggiunge appunto la Valle dei Vulcani, dai paesaggi desertici e lunari.
Il pullman arranca lungo i tornanti che salgono verso il cuore della cordigliera. Piccole greggi di lama, alpaca e vigogna brucano gli aridi cespugli e alzano la testa incuriositi al nostro passaggio. Ad ogni sosta per bere mate di coca e abituarci alla quota che ci rende sempre più faticosi il respiro e i movimenti (attraverseremo il Passo del Colca a 4.853 metri) troviamo bambine dai coloratissimi costumi tradizionali con al guinzaglio cuccioli di lama, che come cagnolini leccano le loro guance rosse e paffute. Le bimbe sorridono e si fanno fotografare per un sol, moneta locale che corrisponde all’incirca ai nostri 20 centesimi.
Dormiamo a Chivay, grosso villaggio a 3.800 metri di altezza che si stende in una valle fra le montagne; il cielo notturno è una meraviglia, con una miriade di stelle a noi sconosciute. Nelle prime ore del mattino ci muoviamo per raggiungere Cruz del Condor, un punto panoramico a 3.000 metri sul canyon. La strada sterrata costeggia strapiombi su vallate ricche di terrazzamenti preincaici tuttora coltivati, mentre sul fondo del canyon scorre il Rio Colca. Ci fermiamo al belvedere per aspettare il passaggio dei grandi rapaci: siamo fortunati, sfruttando le correnti di aria calda del mattino vediamo arrivare quattro enormi condor (l’apertura alare arriva a 3 metri) che volteggiano sulle nostre teste, incuriositi dalla piccola folla attonita che li guarda.
Puno è una città dal colore della terra, addossata a una collina che si affaccia sul lago Titicaca: a 3.820 metri di altitudine, con una superficie di 8.300 chilometri quadrati, è veramente un mare sul tetto del mondo. A queste quote il cielo è limpidissimo e l’acqua di un blu lapislazzulo quasi irreale. Visitiamo le islas flotantes degli Uros, camminando in precario equilibrio su questi materassi di canne cullati dalle lievi onde e ammirando le balsas, curiose imbarcazioni con la prua alta costruite con le totora, le canne del lago, che sono anche commestibili. Gli indios dai vestiti a colori sgargianti ci fanno vedere come costruiscono le loro isole, ora ancorate al fondale, ma un tempo libere di fluttuare sul lago per poter sfuggire agli spagnoli.
Il Titicaca, che continua in Bolivia e nel quale si specchiano le vette innevate della Cordillera Real, è disseminato anche di isole vere e proprie. La più affascinante è forse la montuosa Tequile, lunga 7 chilometri e larga uno, con colline a terrazze e resti degli Inca a picco sull’acqua. Gli abitanti, di etnia e lingua quechua, sono completamente autonomi e seguono le loro tradizioni: troviamo gli uomini a sferruzzare i tipici copricapi che, a seconda del colore o della posizione sulla testa, ci dicono se chi lo indossa è celibe o sposato. Portano alla vita un’alta cintura coloratissima, spessa, resistente, intrecciata con i capelli della consorte, che viene loro donata dalla promessa sposa il giorno delle nozze e ha la funzione di sostenere la schiena nei lavori pesanti. Le donne invece lavorano al telaio e portano più strati di gonne colorate: il giorno del matrimonio possono averne anche venti, ricevute dal futuro marito a dimostrazione delle sue possibilità economiche.
Procedendo verso Cusco il paesaggio si trasforma: da terre riarse a vallate verdi, boschi, ruscelli, casette bianche. Accanto alla strada corre l’unica linea ferroviaria della Sierra ma lungo la quale non vedremo mai alcun treno. A Raqchi visitiamo i resti di quello che fu un grandioso tempio inca dedicato al Sole: massi enormi per un alto muro al centro dell’edificio, a sostegno dei due tetti spioventi di legno e paglia che quasi arrivavano a toccare il suolo. Nella piazza del paese, in terra battuta, tutta la popolazione partecipa a una festa: bambini ballano tra donne dai copricapi neri e piatti, simili a dischi, decorati con disegni geometrici colorati, mentre personaggi con maschere grottesche avanzano a suon di musica. Sui tetti delle case notiamo coppie di tori in terracotta con una croce al centro, simbolo insieme pagano e religioso della fertilità e della protezione divina.
Ad Andahuaylillas ammiriamo la chiesa di San Pedro, costruita dai gesuiti e chiamata la Cappella Sistina del Perù. E’ completamente affrescata con pitture coloniali, soffitto con travi di legno dipinte, disegni vegetali, animali e umani si mescolano tra loro.
E infine Cusco, una volta cuore dell’impero degli Inca di cui ora rimangono solo le fondamenta. Arriviamo di sera e la nostra prima passeggiata fra le strette stradine fino a Plaza des Armas ci lascia senza fiato. Il cielo blu notte con infinite stelle è il fondale di maestose montagne tanto disseminate di piccole luci da sembrare un presepio. La piazza, costeggiata da lunghi porticati, è piena di gente, musica e luci in occasione della festa del Corpus Christi. Nella cattedrale troviamo raccolte le statue dei santi e delle Madonne provenienti dai paesi vicini che hanno sfilato nella processione: realizzate a grandezza d’uomo, indossano ricchissime vesti, manti azzurri, rossi, gialli decorati con mille intarsi dorati, argentati e pietre colorate. Un santo ha a tracolla una borsa per le foglie di coca, come la portavano i contadini, mentre Gesù Cristo appare nell’Ultima Cena con nel piatto un cuy arrosto, il porcellino d’India, pietanza tipica del luogo. La Pacha Mama, la Madre Terra, viene ancora celebrata con riti per propiziare il raccolto o per ringraziamento. Il Sole e la Luna, i due opposti, li troviamo rappresentati dovunque, anche sulle croci, insieme ai simboli della Passione.
Di giorno Cusco si scopre ancora più bella: strette vie lastricate con lucide pietre grigie, case bianche dai balconi azzurri, ballatoi di legno intarsiati, finestre gialle e verdi, negozi e negozietti artigianali. Il monastero di Santo Domingo è costruito sulle rovine di Coricancha, il tempio più importante dell’epoca inca la cui facciata, fino all’arrivo degli spagnoli, era rivestita da settecento lamine d’oro di 2 chili ciascuna e da pietre preziose. Rimangono i massi, perfetti nel loro taglio, a base della nuova costruzione.
Intorno alla città, ben quattro importanti siti imperiali sono visitabili in una sola giornata. Sacsayhuaman, capolavoro di ingegneria militare che oggi accoglie la festa del 24 giugno, l’Inti Raymi o Festa del Sole, ha ai suoi piedi la città e intorno una corona di cime innevate. La Valle Sagrada è resa fertile dal fiume Urubamba: tutto è rigoglioso, alberi di eucalipto, terrazzamenti di color verde, giallo, arancio su cui si coltivano le varietà di mais e il quinoa, un cereale usato per le zuppe. Fra le tante aree archeologiche ci colpiscono le Saline di Maras. di un bianco abbacinante, con le vasche piene d’acqua e di sale che riflettono i raggi del sole. Infine il Machu Picchu, da poco dichiarato una delle sette meraviglie del mondo: per raggiungerlo da Cusco prendiamo il treno che, per superare le montagne, è costretto a salire a zigzag, non potendo curvare, e a ridiscendere sul lato opposto allo stesso modo. Raggiunto l’altopiano si procede lungo il selvaggio corso dell’Urubamba, si abbandonano le campagne coltivate, la vegetazione si infittisce mentre i ghiacciai ci osservano dall’alto. Entriamo nella foresta amazzonica, alberi d’alto fusto e un sottobosco fitto dove occhieggiano grossi fiori vermigli. Scendiamo ad Aguas Calientes, tappa obbligata per i turisti, agglomerato di negozi, bancarelle, bar e alberghi. Da qui un pullman, avvolto in una nuvola di polvere, percorrendo una strada sterrata tutta curve ci deposita all’ingresso del sito archeologico. Ancora una decina di minuti a piedi ed ecco in uno scenario di montagne verde cupo, assolutamente grandioso, la città perduta degli Inca. Sopra le nostre teste il cielo terso di un intenso color azzurro, sotto di noi i terrazzamenti di un verde brillante segnati dalle mura delle case, dei templi, dei santuari, da ripidissime scalinate scavate nella viva roccia. Tutti gli edifici, costruiti seguendo la conformazione del terreno, sono formati da enormi blocchi di pietra incastrati l’uno nell’altro con tale perfezione da non lasciare nemmeno la più piccola fessura.
Mentre rientriamo con ancora negli occhi queste immagini grandiose, ci accorgiamo che la corsa del pullman è accompagnata da quella saltellante ed energica di un bambino vestito di una tunichetta verde, che ci saluta ad ogni curva fino all’arrivo. La sua resistenza fisica è per noi impensabile, ci sembra scaturire da chissà quale antica e inconsapevole sapienza del corpo e dello spirito: chissà, forse la discendenza degli Inca non si è del tutto estinta.

PleinAir 437 – dicembre 2008

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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