Infinito remoto

Lontano, selvaggio, emozionante Yukon: da vivere in camper, a piedi, in gommone e a cavallo. Vi guidiamo sulle tracce dei cercatori d'oro, sulla scia liquida dei grandi ghiacciai artici, nella vastità assoluta del Canada nord-occidentale.

Indice dell'itinerario

Era il 1987 quando percorremmo per la prima volta in camper le strade o, per meglio dire, le piste dello Yukon, regione all’estremo nord-ovest del Canada: fu un’esperienza eccezionale che ci ha segnato per sempre. Tanto da farci tornare quasi 15 anni dopo, ansiosi di rivedere quei luoghi straordinari e di scoprirne di nuovi, di riprovare quel senso di libertà, di vedere se e come fosse cambiato quell’angolo di mondo così selvaggio e remoto.
In quattro settimane abbiamo compiuto un giro straordinario che da Whitehorse ci ha portato oltre il Circolo Polare Artico fino al Mare di Beaufort, tra i ghiacciai del Kluane National Park. In canoa e in gommone abbiamo solcato le acque gelide e cristalline di fiumi e laghi incantati; a piedi abbiamo ripercorso il sentiero seguito dai cercatori d’oro per entrare in Canada durante l’epopea del Klondike. Abbiamo ascoltato la lettura dei romanzi di Jack London all’interno della sua capanna; a cavallo abbiamo attraversato lande senza traccia di sentieri, conosciuto indiani, guide, cercatori d’oro e tanti altri eccezionali personaggi che hanno scelto di vivere in questo luogo estremo, fiabesco e perfetto per vivere davvero en plein air.
La città di Whitehorse è cresciuta: sono molti di più i negozi, i bar, i ristoranti, gli alberghi, è stato aperto uno straordinario museo paleontologico e sempre interessantissimo è il Mc Bride Museum che raccoglie reperti e fotografie sulla corsa all’oro (il battello a pale Whitehorse, restaurato, è un’attrazione tale che il numero di visitatori è aumentato a dismisura rispetto al nostro primo viaggio). Ma a parte le strade, oggi con fondi asfaltati decisamente ottimi in confronto al passato, basta lasciare la città per renderci conto che nulla sembra cambiato. Preso in consegna il nostro camper a noleggio, abbiamo subito puntato a sud per realizzare un vecchio sogno: percorrere a piedi il Chilkoot Trail, lo stesso sentiero seguito oltre un secolo fa dai cercatori d’oro per entrare nel distretto dello Yukon dalla costa del Pacifico.

Come i cercatori d’oro
In breve raggiungiamo la cittadina di Skagway, in Alaska, per organizzare i quattro giorni di cammino sullo storico trekking, oggi area protetta da Canada e Stati Uniti. E’ duro percorrerlo in estate con un normale zaino, quindi è facile immaginare cosa volesse dire superare quelle montagne d’inverno con la neve, come facevano i gold seekers negli ultimi anni dell’Ottocento. A quel tempo, sulla linea di confine con gli States, in cima al passo Chilkoot c’erano le Giubbe Rosse canadesi; se non si avevano viveri per almeno un anno di permanenza, si veniva rimandati indietro. Per alcune stagioni quei sentieri hanno visto transitare il più assortito campionario d’umanità e di merci immaginabile. Lungo il percorso ancora oggi si osservano i segni di quel passato: i resti delle caldaie della teleferica a vapore che fu messa in opera per trasportare fino al passo viveri e mercanzie, pezzi d’argano, pale e picconi, un’infinità di scatolette arrugginite, utensili tra i più vari e poi… lapidi, tante lapidi. L’ultimo tratto è davvero duro, bisogna superare un terreno roccioso particolarmente accidentato dove spesso ci si deve aiutare con le mani; ma i panorami e la natura sono sempre assolutamente incredibili.
Dopo quattro giorni di cammino si raggiungono la sponda del Lake Bennet e la stazione, dalla quale si torna a Skagway in trenino (la ferrovia serviva a collegare la costa ai centri minerari). Arrivati sulle sponde del lago, i cercatori sostavano a lungo per costruire le imbarcazioni sulle quali in maggio, con il disgelo, avrebbero compiuto la seconda parte della loro grande avventura, la lunga discesa del fiume Yukon fino a Dawson City, che richiedeva circa tre settimane con il periglioso passaggio delle Whitehorse Rapids. Oggi le famigerate “rapide del cavallo bianco” non ci sono più, cancellate dalla costruzione a valle di una diga per la produzione d’energia elettrica, ma allora uccisero centinaia di persone, sommersero tonnellate di materiale, fecero arricchire il tale che in un solo mese costruì una tramvia a cavalli per aggirarle e determinarono la nascita del villaggio che è diventato poi l’attuale capitale dello Stato dello Yukon. A fine Ottocento, invece, la capitale era Dawson City, la città dell’oro. Per ritornare a quell’epopea che produsse una manciata di milionari ma illuse, rovinò e fece morire un esercito di sprovveduti, il consiglio è di leggere Klondike, il libro dello storico canadese Pierre Berton.
Se Whitehorse non è cambiata moltissimo in questi ultimi anni, altrettanto non si può dire di Dawson City. A tutta prima, osservandola dalla cima del monte che la sovrasta, parrebbe davvero una città del XIX secolo (se non fosse che a quei tempi, come rivelano le immagini d’epoca, il molo sul fiume Yukon brulicava di battelli a pale). Girando per le strade, invece, si vede bene come il crescente turismo abbia ripulito le tracce della storia: ancora 15 anni fa la gran parte delle case in legno, alcune originali, cadevano a pezzi, mentre ora il centro storico appare completamente restaurato e tirato a lustro e la popolazione è tornata a crescere dopo decenni di spopolamento. D’estate giungono bus carichi di pensionati statunitensi, e ristoranti e alberghi (notevolmente aumentati di numero) sono sempre pieni. Si va ancora al casinò a tentare la fortuna – come quando le puntate si potevano fare direttamente in polvere d’oro – ma si è persa l’autenticità delle atmosfere e delle vicende umane che Jack London ha esaltato nei suoi romanzi. Anche la capanna abitata dal celebre scrittore è stata smontata e trasportata anni fa in paese, e ogni sera vi si può ascoltare un attore che legge i suoi libri…
Lo stesso London e gli altri cercatori d’oro arrivarono a Dawson seguendo il corso dello Yukon; noi invece abbiamo scelto un giro molto più largo. Infatti, conclusa la bella esperienza escursionistica del Chilkoot Pass e rientrati comodamente in treno a Skagway, con il camper abbiamo proseguito verso nord, lungo l’Alaska Highway.

La via del nord
Questa strada è stata costruita durante la Seconda Guerra Mondiale dall’esercito americano per contrastare i giapponesi che sembrava volessero invadere le isole Aleutine, avamposto del continente americano verso l’Asia.
Il nastro d’asfalto della Alaska Highway costeggia le cime del grandioso Kluane National Park. I suoi immensi ghiacciai si possono osservare da vicino solo con lunghe escursioni di più giorni o con un breve volo in elicottero: un’esperienza davvero indimenticabile. Da lassù l’intrico dei ghiacci sembra un’immensa rete di bianche autostrade che pervadono le valli tra i mille picchi delle Montagne Rocciose settentrionali.
Per toccare con mano la selvaticità autentica del parco abbiamo effettuato un viaggio in gommone di cinque giorni lungo l’Alsek River, che termina nel lago formatosi dallo scioglimento del grande ghiacciaio Lowell; più avanti il fiume non è navigabile e si deve tornare indietro in elicottero. L’ambiente naturale dell’Alsek è talmente delicato che gli escursionisti devono portare indietro ogni tipo di rifiuto (compresi gli escrementi, sistemati in appositi bidoni con coperchio ermetico). Lungo il fiume ci si ferma spesso per compiere brevi tratti a piedi nelle valli laterali, e l’ultimo giorno siamo risaliti fin quasi in cima alla montagna che sovrasta il vertice del ghiacciaio: da qui abbiamo potuto osservare, a distanza ravvicinata, un gruppo di magnifici mufloni bianchi del Kluane.
Dopo una breve digressione in Alaska siamo rientrati nello Yukon e abbiamo raggiunto Dawson City da ovest. Poco fuori città, lungo la strada che riporta a Whitehorse, un unico bivio a sinistra immette in quella che è, a nostro avviso, la più affascinante strada bianca esistente, la Dempster Highway (qui highway non sta a indicare un’autostrada ma, come si diceva una volta, la strada maestra). Questo nastro di terra battuta lungo ben 742 chilometri taglia un’area naturale d’estremo interesse, assolutamente selvaggia, dove si incontrano – com’è accaduto a noi – grizzly, caribù, orsi e tante aquile. Su tutto la bellezza dei monti Ogilvie e Richardson, dei fitti boschi di pino lodgepole, dei pioppi tremuli, delle betulle che a questa latitudine già in agosto assumono i colori autunnali, numerosi fiumi e laghi d’ogni dimensione che si susseguono a colline, tundre e ampie praterie. L’intera area è praticamente disabitata: gli unici insediamenti sono costituiti da sparuti villaggi di nativi sorti lungo i fiumi che tagliano il percorso (si attraversano con ferry-boat gratuiti), da rare stazioni di servizio (dove si deve sempre fare il pieno se non si vuole rimanere a piedi) e da Inuvik, una cittadina di un migliaio di abitanti, in gran parte eschimesi. Si trova ben oltre il Circolo Polare Artico (dove è d’obbligo la foto ricordo con il cartello che lo annuncia), al limite delle grandi aree paludose formate dall’ampio delta del fiume Mackenzie, che s’interpongono fra la terraferma e il Mare di Beaufort. Raggiunto il delta ci siamo affidati a Roger, una guida locale Inuit che ci ha condotto in barca a motore e in canoa tra i meandri del fiume ad avvistare un incredibile numero di uccelli; e non abbiamo resistito alla tentazione di noleggiare un idrovolante per osservare anche dall’alto tanta meraviglia.

Gli uomini delle montagne
Tornati a Whitehorse costeggiando i meandri del placido Yukon e riconsegnato il camper all’agenzia di noleggio, ci siamo concessi un breve viaggio a cavallo con Jan e Silvia Mc Dougall. Li avevamo conosciuti nel viaggio precedente e li ritroviamo con piacere: appena un po’ invecchiati (entrambi hanno superato la sessantina) ma energici, ospitali e affettuosi come allora. D’estate continuano a organizzare viaggi a cavallo della durata di qualche giorno o persino di settimane, mentre d’inverno vivono di trapping e tengono corsi di sopravvivenza artica, insegnando anche a condurre una slitta trainata da cani e quant’altro serva per vivere l’inverno a queste latitudini.
Insieme ci siamo spinti verso nord-ovest cavalcando per tre giorni, persi in una natura primordiale dove i sentieri spariscono presto e per centinaia di miglia non si incontrano altri esseri umani. Somigliavamo ai mountain men del secolo scorso: nella soma del nostro cavallo da carico c’erano un quarto d’alce affumicato, un sacchetto di farina per il banik (il pane dei trapper fritto nel lardo), frutta secca, zucchero, caffè, latte in polvere, scatole di fagioli, piselli e di maccaroni and cheese (immangiabili per noi italiani), una padella, una pentola, un bricco per scaldare l’acqua, tazze e piatti di latta. Infilate nelle selle avevamo persino delle carabine da cavalleria Enfield per poter eventualmente fronteggiare i grizzly che abitano la tundra artica: uno di loro per poco non faceva visita al nostro accampamento mentre ci apprestavamo a cenare, ma per fortuna doveva avere una meta ben precisa perché ha tirato dritto passando a circa 300 metri dalle tende, per nulla attirato dal profumo dei cibi messi a scaldare sul fuoco. Per gli yukoners è normale trovarsi un plantigrado nell’aia di casa ed è altrettanto normale mantenere la freddezza per stenderlo all’istante sparandogli un colpo solo in mezzo agli occhi. Ma noi, ospiti mediterranei, come ci comporteremmo in un caso del genere’ «Quien sabe» risponderebbe Tex Willer.

Corsa all’oro
Tutto ebbe inizio il 17 agosto del 1896 quando George Washington Carmack e due indiani, il cognato Skookum Jim e l’amico Tagish Charlie, trovarono un vasto deposito di polvere d’oro sul Rabbit Creek, un affluente del Klondike River. In breve un vero esercito di cercatori, avventurieri, giocatori d’azzardo prese la strada dello Yukon. Per arrivare alla meta c’erano solo due strade praticabili (molti ne cercarono altre ma morirono): quella per il White Pass e l’altra per il Chilkoot Pass. La prima, più lunga, fu utilizzata soprattutto per il trasporto di viveri e merci con lunghe teorie di cavalli e muli da soma, ma fu sulla seconda che si avventurarono i cercatori. Il percorso in linea d’aria è di soli 53 chilometri, ma le pendenze da superare nei primi due giorni fanno comprendere subito le difficoltà che riservava e riserva ancora oggi questo eccezionale itinerario. Il Chilkoot Trail inizia subito dopo il villaggio di Dyea, in Alaska (raggiungibile in auto da Whitehorse lungo la cosiddetta Klondike Highway, scavalcando proprio il tristemente noto White Pass). Noi abbiamo piantato le tende la prima notte nel campo Canyon City, dove a quel tempo sorse una baraccopoli; la seconda notte allo Sheep Camp posto alla base della dura salita delle Scales, che dai 400 metri raggiunge Chilkoot Pass a quota 1.100. Dal valico si scende lentamente costeggiando laghi, attraversando foreste e ammirando panorami, fino al campo di Deep Lake. L’ultimo giorno si arriva al lago Bennet, che dà origine al fiume Yukon: da qui parte la storica White Pass and Yukon Railway (oggi attiva solo d’estate per gli escursionisti) che riporta a Skagway. Lungo il percorso bisogna prestare molta attenzione agli orsi che possono venire attirati dall’odore del cibo. Alla partenza si può ritirare un opuscolo con tutte le istruzioni necessarie: molto utili si rivelano un semplice campanello da applicare allo zaino (il rumore allontana i plantigradi) e uno specifico spray repellente da tenere sempre a portata di mano.

PleinAir 378 – gennaio 2004

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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