Il tempo delle sabbie

Un'auto fuoristrada con tenda da tetto, un pick-up e un mansardato alla scoperta della Libia: tre equipaggi, bambini inclusi, a zonzo per migliaia di chilometri tra le antiche città romane, Tripoli e le sorprendenti dune del profondo sud.

Indice dell'itinerario

Fino ai confini del mondo e ritorno. Il mondo delle strade, s’intende, dove davanti alle ruote non hai più una traccia da seguire ma solo montagne di sabbia da risalire e discendere, cattedrali di roccia che non ti aspetti in mezzo al deserto con le dune che ne sommergono i fianchi, il vento che sibila tra guglie e arcate monumentali e laghi cinti da palmeti in mezzo al nulla. E poi il passato dell’uomo protagonista nelle pitture rupestri delle grotte, nelle incisioni dei lastroni d’arenaria, nei frammenti di ceramiche preistoriche che affiorano dall’erg.
A un soffio dal Tropico del Cancro, la Libia offre al visitatore orizzonti minerali ed emozioni forti. I paesaggi dell’Akakus già imperversano sui cataloghi dei tour operator d’avventura , a pochi anni dall’apertura al turismo del grande paese africano (ma la guida è tuttora obbligatoria per l’intera durata del soggiorno). I graffiti del Messak, adagiati sui fianchi dei fiumi fossili, sono la più spettacolare delle gallerie d’arte all’aria aperta. I laghi di Ubari si presentano come la cartolina meno originale e al tempo stesso la più fiabesca del deserto più vasto del mondo.
A nord, oltre l’antica città carovaniera di Ghadames definita a ragione la perla del Sahara , la costa mediterranea offre motivi d’interesse più tradizionali: a cominciare da Tripoli, la capitale, con le moschee e i variopinti suq, quindi rovine tra le più spettacolari del mondo antico nelle città romane di Sabratha e Leptis Magna, lasciti maestosi e meno discussi delle dominazioni più recenti come quelli dell’Italia fascista di nove decenni or sono che durò a fasi alterne trent’anni, dal 1912 al 1942.
Ricca di petrolio, al centro del Mare Nostrum non meno del Bel Paese, offuscata dalla retorica di Gheddafi che dal 1969 – anno del colpo di stato con cui prese il potere – ne ha fatto in ogni caso un paese diverso dagli altri del Nordafrica, la Libia oggi accoglie i turisti con i suoi eccezionali tesori a lungo nascosti e con il calore genuino, a tratti persino imbarazzante, di un popolo nella stragrande maggioranza autenticamente aperto e ospitale.

La città vecchia
La frontiera di Ras-Ajdir, tra Tunisia e Libia, somiglia all’ingresso di uno sfasciacarrozze: auto a un passo dallo schianto si incolonnano a sommergere i fuoristrada europei per il tempo necessario ai doganieri di visionare documenti di persone e mezzi, apporre timbri, concordare fra loro una linea comune dalla durata di uno sguardo a una mezza giornata. A noi dice bene: un’ora di attesa è il viatico per l’avventura, non prima di aver apposto l’obbligatoria targa araba sui nostri veicoli e di aver fatto conoscenza con guida e poliziotto turistico, come da accordi presi dall’Italia.
Da Zuara lasciamo subito la strada principale che corre a Tripoli, dirigendoci a Nalut. Il suo qasr (come si chiamano in Libia i granai fortificati altrove noti come ksour) risale al XIII secolo ed è stato abbandonato negli anni Sessanta: non è bello come quelli tunisini, ma in ogni caso merita una visita.Trecentosessanta chilometri più a sud ci attende Ghadames, la città antica più affascinante della Libia e una tra le più interessanti dell’intero Sahara. Il trasferimento è lungo, attraversando paesaggi desolati fatti di rocce e dune lontane; in compenso l’asfalto è ottimo, mentre i centri abitati tagliati in due dalla strada mostrano una scarna quanto composta dignità. La città vecchia è interamente costruita con mattoni essiccati al sole e tetti rinforzati da tavole in legno di palma, le vie principali sono lunghe, con archi decorati, lucernari e panche in muratura che suggeriscono soste al fresco lungo la via, dove affacciano edifici ornati all’interno da tipiche e variopinte decorazioni. Visitiamo una casa-museo dove nell’ampio soggiorno, arredato con tappeti e cuscini di varia foggia in occasione dei pasti, si aprono i piccoli ambienti della camera da letto e della Al-Qubba, dove la donna riceve il marito la prima notte di nozze; brevi rampe di scale conducono ad altre camere da letto, alla cucina con dispensa, al tetto. A Ghadames il tempo si è fermato agli anni Ottanta, quando il governo spinse gli abitanti a trasferirsi nella parte nuova: oggi tra gli edifici restaurati dall’Unesco – la città è stata dichiarata patrimonio dell’umanità – tornano d’estate solo alcuni anziani o proprietari interessati a fare affari con i turisti. Piazze, moschee, pozzi pubblici sono le tappe in cui vi condurrà la vostra guida, mentre nella parte nuova un museo (costruito come stazione di polizia durante l’occupazione italiana) espone alcuni reperti d’età romana e oggetti di vita quotidiana. L’abitato sorge a ridosso delle frontiere tunisina e algerina, attualmente invalicabili per gli stranieri, dunque è tornando sui propri passi e con un altro lungo trasferimento che si guadagna la prossima tappa.
Dopo oltre 400 chilometri ecco l’importante snodo stradale di Shwayrif, in realtà il solito villaggio di case a un piano affacciate su un polveroso stradone tra negozietti di ogni tipo. Per dormire scegliamo uno spiazzo alle spalle di un ristorante che dispensa ottimo couscous e agnello, incuranti di un vento micidiale che da un momento all’altro potrebbe chiudere la tenda sul tetto dell’auto.
Lungo e monotono anche il trasferimento della giornata seguente, puntando con decisione verso sud. Un centinaio di chilometri prima di Sebha, però, come per miraggio ai lati della strada iniziano ad apparire le palme e le prime dune: scendere a scattare alcune foto è una tentazione irresistibile. La più importante cittadina del Sahara libico presenta un colle sormontato da un forte eretto dagli italiani (non visitabile perché zona militare) che domina un insediamento dall’aspetto moderno, con larghe vie e semafori, palazzine a più piani in cemento armato. Non c’è alcuna emergenza turistica ma negozi d’ogni genere, officine meccaniche, agenzie turistiche, ospedali, insomma tutto ciò che può servire prima di tuffarsi nel vero deserto.

La pietra racconta
La civiltà non ci abbandona prima di qualche ora: il tempo necessario per seguire il nastro d’asfalto prima tra sorprendenti campi di ortaggi con irrigazione automatica, poi tra panettoni di roccia ora nerastra ora dorata. Ci fermiamo a ridosso di Ubari (o Awbari) in uno dei campeggi di Tikerkiba, i primi che incontriamo dopo circa 1.500 chilometri, dove lasciamo il mansardato del nostro piccolo gruppo per trasferirci sul fuoristrada di Lakhdar, la nostra guida tuareg. Quindi, fatte le provviste di viveri e acqua e riempiti con cura tanto i serbatoi dei veicoli che le numerose taniche supplementari, infiliamo una pista a sinistra e per cinque giorni, con il morale alle stelle, lasciamo ogni traccia dietro di noi. Attraversiamo un immenso tavolato di rocce dure e a tratti insidiosamente taglienti lungo il fianco meridionale del Messak Settafet, senza una meta apparente. Ma è dentro un avvallamento del terreno che appare il primo traguardo, il Wadi Mathendusc (wadi o ouadi, come ben sanno gli aficionados del deserto, in arabo indica un corso d’acqua in secca, e il Mathendusc in effetti molto tempo fa era un fiume) che offre una delle maggiori concentrazioni di incisioni rupestri del pianeta: centinaia di animali raffigurati sull’arenaria circa 12.000 anni fa. Sono giraffe, ippopotami, struzzi, rinoceronti, bovini selvatici, che si susseguono sulle rocce lungo un tratto di circa 12 chilometri talora fiancheggiati da roccioni e rare acacie. I petroglifi venivano realizzati picchiando sulla roccia con una pietra più dura o semplicemente utilizzandone una seconda per battere sulla prima; talvolta la superficie veniva completamente levigata all’interno dei contorni delle figure come nel caso dei cosiddetti Gatti Mammoni, la più famosa delle incisioni di Mathendusc, raffigurante due creature che si fronteggiano ritte sulle zampe posteriori, con corpo di felino e teste di sembianza vagamente antropomorfa.
Pochi luoghi sono così fiabeschi per pernottare come l’area limitrofa allo wadi (è invece vietato scendere col fuoristrada sul letto della valle fossile), ma se il vostro programma prevede ritmi più serrati c’è un’altra meta, a poche decine di chilometri, capace di strappare superlativi: è l’idehan o erg di Murzuq, forse il più impenetrabile dei deserti che compongono quel luogo magico e multiforme che chiamiamo Sahara. Si tratta di una distesa di dune alte anche centinaia di metri, grande quasi come la Svizzera, che dilaga tra la strada asfaltata che termina verso nord a Ghat e i confini con l’Algeria e il Niger a sud. Si addentrano nell’erg solo temerari gruppi di viaggiatori esperti, non di rado uscendone con i mezzi fuori uso. Ai piedi delle prime colossali dune, dopo aver abbondantemente sgonfiato le gomme per non rimanere affossati nella sabbia quasi impalpabile – la pista è ormai scomparsa e non ne incontreremo più sino all’asfalto di Ghat – apriamo la tenda e ci raduniamo attorno al fuoco per la prima di una serie di cene sotto un cielo di stelle mai conosciuto.

Foresta di roccia
Il nostro programma prevede la discesa fino all’Akakus, lo spettacolare massiccio montuoso che si allunga in direzione nord-sud ai confini con l’Algeria (dove prosegue col nome di Tassili n’Ajjer): per raggiungerlo, entrandovi da nord-est, le direttrici sono praticamente infinite. Lakhdar decide di farci passare tra plateau infiniti, ora disseminati di pietre dove sperimentare la tenuta delle gomme e l’altezza della coppa dell’olio, ora di sabbia finissima che il vento e la luce dipingono a piacimento. Si sosta per il pranzo sotto una solitaria quanto provvidenziale acacia, mentre i bambini scoprono altri gruppi di incisioni rupestri su alcune rocce poco distanti.
A un avamposto dell’Akakus, tra imponenti torrioni di pietra, seguono i cordoni dunali di Wan Caza dove l’esperienza di guidare per ore sul continuo ottovolante di pendenze vertiginose si fa più impegnativa, ma soprattutto entusiasmante. Raggiungiamo i resti di un villaggio preistorico, poche tracce di un insediamento perduto tra le dune, dove la sabbia regala senza difficoltà frammenti di ceramiche lavorate e gusci di uova fossili di struzzo (ne troveremo di identici al museo nazionale di Tripoli, datati tra 8.000 e 3.200 anni fa). I paesaggi dell’Akakus sono di una bellezza sconvolgente: tra torrioni e pinnacoli, cavità e archi naturali alti più di 100 metri, ne resta abbagliato anche il più incallito dei viaggiatori. Dai fianchi sprofondati nella sabbia – come scrive il francese Jacques Gandini, uno dei migliori conoscitori dell’area – gli spuntoni assomigliano a una foresta di vecchia roccia erosa e scolpita dall’acqua o dal vento . Dalla fine dell’Ottocento e ad opera di esploratori francesi, tedeschi, italiani e belgi, il massiccio si è rivelato un vero e proprio museo a cielo aperto, tanto da essere definito la Cappella Sistina del Sahara. Tra gli angoli più straordinari dell’intero continente africano, il Tadrart Akakus da qualche anno è parco nazionale e per accedervi è necessaria una particolare autorizzazione; centinaia di anfratti e ripari tra i roccioni celano antiche pitture rupestri assai espressive, di datazione incerta ma comunque a partire da 12.000 anni fa. Analisi di laboratorio, poi, hanno mostrato come alla base della composizione del colore rossastro così resistente al tempo delle raffigurazioni vi sia il latte. Anche in questo caso non esistono itinerari fissi: ogni guida ne percorre di propri, rendendo ciascuna esplorazione un’esperienza unica.

Miraggio tra le dune
Usciti dall’Akakus, Ghat propone per il ritorno alla civiltà una piccola ma bella medina interamente costruita in argilla seccata al sole, sterco animale e paglia; al suo ingresso e tra gli stretti vicoli stazionano regolarmente alcuni tuareg, vendendo splendidi oggetti di artigianato locale come gioielli d’argento con decorazioni in filigrana (il più caratteristico è la croce di Agadez), lavorazioni in pelle e pugnali ornamentali, molti dei quali provenienti dal vicino Niger. Il ritorno a Ubari è questa volta per la strada asfaltata, lunga quasi 400 chilometri, che corre per lunghi tratti ai piedi della scenografica falesia dell’Akakus e di bellissime dune.
Dopo oltre 600 chilometri di pieno deserto, il campeggio di Tikerkiba è di nuovo l’accogliente campo base per rimettere in sesto uomini e mezzi, ma pure il punto di partenza per un’altra escursione fiabesca, quella ai laghi di Ubari o Mandara. Si tratta di una dozzina di specchi d’acqua a elevato contenuto salino, che s’incontrano come un miraggio tra le dune dell’erg a nord della strada. Il circuito classico, su sabbie estremamente molli e della durata di una giornata con le doverose soste, inanella i laghi principali e cioè il Mahfu, il più grande Gabron (525 metri di lunghezza per 225 di larghezza, addossato a una duna gigantesca), il pittoresco Oum el Ma circondato da giunchi e palme, il Mandara. L’origine di queste acque non è ancora del tutto chiara agli studiosi: secondo alcuni riaffiorano dopo essere cadute nella conca del Fezzan e sui suoi rilievi, secondo altri si tratterebbe di acqua fossile tornata in superficie. L’evaporazione estiva e l’abbassamento della falda, a seguito dello sfruttamento agricolo intensivo del vicino Wadi al-Hayat, stanno in ogni caso portando al prosciugamento di alcuni di questi bacini. Raggiungerne le sponde dopo una lunga e a tratti impegnativa cavalcata tra le dune, all’ombra di freschi palmeti, è un’altra delle emozioni di questo viaggio davvero unico. La Roma d’Africa
Con il deserto ancora negli occhi si torna verso nord, dove mete d’altro genere attendono di essere visitate: la prima è Leptis Magna, tra i più grandiosi siti archeologici della Roma antica, situata sulla costa un centinaio di chilometri a est di Tripoli e ben segnalata presso il moderno insediamento di El Kohms. Si sosta senza problemi nel parcheggio n. 1 con bagni attigui, bar-ristorante, illuminazione e chiusura notturna dei cancelli. Calcolate almeno 3 ore per la visita, compreso il museo da cui conviene iniziare il giro poiché chiude a mezzogiorno (l’area apre alle 8 del mattino e chiude alle 17): vedere tutto è praticamente impossibile, ma non dovreste perdervi il Foro dei Severi e la sua magnificente distesa di rovine, le famose Gorgoni che ne adornavano i portici, l’attigua Basilica Severiana, il teatro, l’arco di Settimio Severo. Spostandosi in auto o camper si arriva all’anfiteatro in riva al mare, e se è possibile (informarsi presso i custodi) alla bella Villa Seelen, i cui variopinti mosaici giungono fin quasi alla battigia.
Quanto a Tripoli (il cui nome locale è Tarabulus), la sua visita prende non più di una giornata. Per i camper è comodo il parcheggio tra il mare e la famosa ma alquanto anonima Piazza Verde dove affacciano il castello, l’arco di accesso alla medina e il museo nazionale della Jamahiriya, per la cui visita va dedicata parte della mattina essendo aperto solo fino alle 13; interessante soprattutto la sezione preistorica con le copie dei graffiti del Mathendusc e dei dipinti dell’Akakus. Merita una tappa anche la medina, non particolarmente estesa: nel suq del rame gli artigiani lavorano rumorosamente a recipienti di varia foggia e alle mezzelune che adornano la cima dei minareti. Da vedere sono alcune moschee tra cui quella di Gurgi, con l’interno riccamente decorato, e l’arco di Marco Aurelio, pur se un po’ malconcio. Può essere interessante una visita alla libreria Fergiani, in Sharia 1° Settembre, che dispone di un discreto assortimento di titoli in italiano e in inglese sulla Libia. Nel variopinto mercato di Sharia ar-Rashid i patiti dello shopping potranno fare invece ottimi affari acquistando capi d’abbigliamento occidentali e calzature sportive di marca.
E siamo alla degna conclusione del viaggio, l’area archeologica di Sabratha, una cinquantina di chilometri a ovest della capitale procedendo verso il confine tunisino. Assai vasta, anche se non come Leptis Magna, è in bellissima posizione proprio in riva al mare, che qui appare particolarmente invitante. Il celebre teatro fu ricostruito con il materiale d’origine dagli archeologi italiani negli anni Venti del Novecento (lo aveva distrutto un terremoto nel 365): davanti a una cavea tuttora in grado di ospitare 1.500 persone si eleva la grandiosa scena, alta oltre 20 metri sul palcoscenico e scandita da 108 colonne in tre ordini. Il tempio di Iside, la basilica di Apuleio, la curia sono altri monumenti sullo sfondo del Mediterraneo, tra i cui resti è piacevole aggirarsi.
Ras-Ajdir e la sua frontiera sono ormai vicine: dopo quest’Africa così vera resta giusto il tempo di rifornire di gasolio i serbatoi e cambiare i dinari rimasti in tasca, ed è già quasi Europa.

PleinAir 399 – ottobre 2005

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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