Il Pupo e l'ombrello

Il Pupo, la maschera simbolo del Carnevale di Fano, apre le sfilate. E la folla apre gli ombrelli, per raccogliere i dolci che piovono dall'alto dei carri.

Indice dell'itinerario

L’augurio migliore che si possa fare a chi visita Fano per il Carnevale, è quello di incontrare il fantasma di Fabio Tombari, il defunto scrittore fanese che per filosofia di vita più d’ogni altro incarnò lo spirito godereccio e goliardico della festa più allegra dell’anno.
Tombari scrisse un libro, Tutta Frusaglia, mettendoci dentro piccole favole di ogni giorno: cinquanta cronache surreali che, non si sa come, finirono nelle mani di Pirandello. Piacquero o no al grande siciliano, fatto sta che dopo un po’ il giovane Tombari vinse il Premio dei 10, prestigiosa tenzone letteraria degli anni Trenta.
Tombari rappresenta tra i suoi concittadini un protagonista senza tempo: che conobbe D’Annunzio, scriveva sul Corriere della Sera e sul Resto del Carlino, ma amava parlare in dialetto. E Tutta Frusaglia descrive una Fano disincantata e immaginaria, popolata di marinai e contadini, mostri, animali e altre meraviglie. Così come è popolato il Carnevale, che si vanta d’essere il più antico d’Italia, visto che se ne parla addirittura in uno statuto malatestiano e anche in un più antico documento del 1347.
La particolarità di questo Carnevale è l’ombrello. Il giorno dei corsi mascherati, che piova o ci sia il sole, una folla multicolore apre ombrelli all’incontrario, li punta contro il cielo e aspetta. Di lì a poco, infatti, lanciati all’impazzata dalle maschere che s’agitano sui carri, piovono tra la gente e dove capita dolci in quantità industriale. Piovono caramelle e cioccolatini (sfusi ma anche in scatola!), torroni e croccanti, merendine, lecca lecca, perfino panettoni scampati al Capodanno.
E al termine della sfilata, quando gli ombrelli tracimano calorie e gli astanti lamentano contusioni, Viale Gramsci, solitamente martoriato dal traffico, è un festoso camposanto di dolciumi, stelle filanti e coriandoli (“dei confetti sparsi la via biancheggia”, recitava un allegro motivetto carnevalesco del 1765).
I giganteschi carri sfilano guidati dal Pupo o Vulon: è questo il simbolo del Carnevale di Fano, una sorta di divinità pagana che il Giovedì Grasso riceve dal sindaco le chiavi della città e il Martedì Grasso (quest’anno il 4 marzo) viene bruciato nella piazza del municipio, in un rogo rigeneratore che non senza rimpianti riporta il mondo alla normalità.
Davanti ai carri, insieme al Pupo, aprono il corteo gli scatenati suonatori della Musica Arabita, band nata nel 1923: una miscellanea di personaggi con cappello di paglia che danno randellate sui tamburi e fiato a strumenti familiari.
Il genere della loro musica è cosa complicata da definire, anche se Guido Piovene nel suo Viaggio in Italia si sbilanciò a dire che il jazz è nato a Fano e non sul delta del Mississippi, ma questo è davvero troppo. Anche se, a onor del vero, gli strumenti originari della Musica Arabita non erano come oggi fisarmoniche, trombe e cembali ma, come per i neri d’America, macinini da caffè, matterelli, forbici, pettini, seghe e pialle: insomma gli arnesi del lavoro quotidiano trasformati per un giorno nel passepartout dell’allegria.

Non solo carri
A visitare Fano si scoprono singolari parallelismi tra la vita del Carnevale e le vicende storiche della città. Per dirne uno, durante l’ultima guerra i tedeschi in ritirata fecero saltare torri e campanili come fossero di cartapesta; e quello ricostruito del duomo somiglia piuttosto a uno scherzo di cattivo gusto: un incrocio tra un siluro e un missile in partenza.
Per dirne un altro: la torre del Palazzo del Podestà crollò di schianto proprio sul Teatro della Fortuna ideato nel 1665 da Giacomo Torelli, uno dei più grandi scenografi e scenotecnici di ogni tempo, fanese purosangue approdato nientemeno che alla corte di Luigi XIV.
A quei tempi, anche qualche ricca famiglia aveva allestito il proprio teatrino privato. A Palazzo Uffreducci, in Via San Francesco, ora abitazione dell’ingegnere Fabio Tombari (omonimo ma non parente del famoso scrittore), si trova un’antica scena dipinta dove forse il primo Teatro della Fortuna fa da fondale al teatrino di casa.
Così, come nelle viscere dei carri si cela un altro mondo di macchine, strutture, puntelli e cavi, nelle fondamenta delle vecchie case si rincorre una fitta trama di cunicoli, pavimenti a mosaico d’epoca romana e strati di mura sovrapposti che raccontano il passato remoto.
I sotterranei sono tantissimi, scavati soprattutto nel Seicento. Si usavano come rifugi e nevai ma per lo più come cantine, rivestendo le grotte che man mano si formavano con mattoni contenitivi. Sono visitabili e lo saranno anche meglio dopo gli interventi previsti da un progetto urbanistico quasi miracoloso per una città di appena 60.000 abitanti, basato su un fondo di 20 miliardi di vecchie lire che è stato stanziato alcuni anni fa per ristrutturare i principali siti storici della città tra cui l’Arco di Augusto, le mura romane, la Rocca Malatestiana.
Tornati in superfice, un altro omaggio immancabile a Fano è sedersi al Caffè del Porto per sorseggiare una moretta calda. La moretta è un emblema cittadino, una bevanda oggi entrata nella lista dei cocktail internazionali che pare sia stata inventata dalla ciurma di un peschereccio con quel che avevano in cambusa: limone, cognac, anice, zucchero e caffè. Inoltre al Caffè del Porto, dalle quattro del mattino fino all’una e trenta di notte, si ascoltano storie di lupi di mare e anche leggende. Per esempio, quella della carrozzaccia: un cocchio tirato da quattro cavalli che nelle notti di luna porta per la città uno strano individuo dal mantello scuro. Forse un’anima peccatrice costretta a un tour d’espiazione. Forse lo stesso Pandolfo III Malatesta, uscito dalla tomba di Via San Francesco una decina d’anni fa, quando il suo corpo mummificato fu rinvenuto durante alcuni lavori e studiato a fondo da un’équipe di specialisti guidati dal professor Fornaciari dell’Università di Pisa.
Di lui si scoprì che aveva la prostata ingrossata e la muscolatura forte, d’un cavaliere abituato a combattere; e che aveva mangiato chicchi d’uva, il suo ultimo pasto, 575 anni orsono.

PleinAir 366 – gennaio 2003

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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