Il giardino segreto

Pizza e sfogliatelle ci sono già, ma almeno per la carta geografica è ancora Lazio. La costiera di Formia e Gaeta è meta tradizionale di turismo e suscita interesse per le tracce stratificate di millenni di storia. Ma la sua novità più grande è nell'immediato entroterra, e ha il fascino e le dimensioni di un grande parco naturale: quello dei Monti Aurunci, che muove adesso i primi passi. Sconosciuto ai più, è un autentico giardino mediterraneo da scoprire in anteprima sulle pagine di PleinAir.

Indice dell'itinerario

Sul calar della sera, quando le luci si accendono a illuminare il campanile del duomo (uno dei più belli del Lazio), nei finesettimana di mezza stagione decine e decine di camper si assiepano sul lungomare di Gaeta e su quello adiacente di Formia. Alle loro spalle, cupo ma di morbide forme, incombe il profilo di monti sconosciuti: gli Aurunci.
Lontane da Roma ma pure da Napoli, senza cime svettanti, senza valloni né scorci selvaggi, senza comode strade di accesso per i gitanti della domenica, queste montagne per decenni hanno conosciuto unicamente la solitudine. Solo di recente gli studi dei botanici ne hanno evidenziato l’eccezionale valore floristico. E poi, nell’estate di due anni fa, è giunto il parco. I Monti Aurunci si trovano nel settore più meridionale della regione. Fanno loro da confine la costa tirrenica a sud, il fiume Garigliano a est (oltre il quale ha inizio il territorio campano), la Valle del Liri a nord, mentre verso ovest a dividerli dai vicini Ausoni è la linea Fondi-Lenola-Pico-Ceprano. In realtà i due gruppi hanno in comune paesaggi, geologia e storia: fino alla fine del Settecento – assieme ai Lepini, l’altro sottogruppo dell’antiappennino laziale – andavano infatti sotto la comune denominazione di Monti Volsci.
Più di altre si meritano l’appellativo di montagne sul mare, essendo il gruppo più vicino alla costa tra quelli che passano i 1500 metri di altitudine. Gli Aurunci li raggiungono e li superano col Monte Petrella (alto 1533 metri e distante dalla linea di costa appena 7 chilometri in linea d’aria) e contano altre cime di un certo rilievo come il Sant’Angelo (1404 m), l’Altino (1367 m), il Ruazzo (1314 m), il Redentore (1252 m). Su quest’ultimo, che domina la costiera di Formia con ripidi e nudi pendii alternati a salti verticali di roccia, troneggia dai primi del secolo una gigantesca statua di ghisa che dà ragione del nome, meta di una magnifica e panoramica escursione. La natura calcarea di questi rilievi è il motivo dell’assenza pressoché totale di corsi d’acqua, nonché della presenza di assai diffusi fenomeni carsici. Doline e inghiottitoi si incontrano un po’ ovunque e spesso hanno acceso la fantasia popolare, come la splendida Fossa Juanna, una dolina circolare dove pare avesse dimora una strega o una donna dai facili costumi, autrice di sortilegi e riti satanici. Dalla Ciauchella ai Serini, le grotte non sono da meno e talora raggiungono proporzioni ragguardevoli: l’abisso del Vallaroce, dall’apertura situata tra le cime dell’Altino e del Sant’Angelo, sviluppa in profondità qualcosa come 560 metri.
Brulli e dalle pendici quasi completamente spoglie su quello meridionale, sul versante opposto gli Aurunci nascondono un insospettato cuore verde. Le faggete del Petrella sono in estate un’oasi di frescura e in autunno un caleidoscopio di colori, mentre d’inverno i freddi venti di tramontana garantiscono al manto bianco delle nevicate qualche settimana di permanenza. Di aspetto più tipicamente mediterraneo le leccete di Monte Ruazzo e di Monte Campone, come pure la sughereta di Costamezza. Ovunque, nelle radure come sulle rupi più esposte, una incredibile ricchezza di fiori (1300 le specie censite, una cinquantina le sole orchidee) ha iniziato solo in anni recenti a richiamare l’interesse dei botanici: oggi, loro relazioni sono molto eloquenti. Il Monte Lapillo è ‘un vero paradiso per gli amanti delle orchidee’, contandone una ventina di specie diverse. Ma camminando un po’ ovunque si constata ‘l’enorme varietà di piante di questi luoghi’, dai gigli ai gladioli selvatici, dai cisti alle fragili campanule. Alcune specie come la delicata Viola pseudogracilis hanno qui il limite settentrionale della loro area di diffusione, altre invece come la Campanula tanfanii quello meridionale. E’ la conseguenza della grande diversità ambientale dal livello del mare ai 1500 metri, dai versanti soleggiati a quelli ombrosi. Punto di contatto tra l’Appennino centrale e quello meridionale, dal punto di vista floristico gli Aurunci oggi sono ufficialmente riconosciuti come l’area più interessante del Lazio. E non occorre essere degli esperti: basta percorrerne subito i sentieri e poi tornarci in primavera, quando pendii che sembravano pelati rivelano da vicino un’esplosione di colori e profumi. Ben più difficili da ammirare delle piante sono gli animali che qui, come in buona parte delle montagne del Lazio, sono assai rarefatti soprattutto per l’intensa pressione venatoria. Resistono tra i rapaci il falco pellegrino, il biancone, lo sparviero nonché, fra i più comuni, gheppi e poiane. Tra i mammiferi sono presenti l’istrice, il tasso, la lepre, la martora e gli ubiquitari cinghiale e volpe. Piccole rarità si contano tra gli anfibi, per esempio la salamandrina dagli occhiali o il tritone italiano, spesso confinati nelle grandi cisterne circolari in pietra o in vasche per l’assenza di pozze naturali e corsi d’acqua: i tritoni, pazientando un po’, si riesce a scorgerli per un attimo quando salgono in superficie per prendere aria.Incontri non meno inconsueti e graditi sui sentieri degli Aurunci sono quelli con i pastori. A un’ora da Roma, c’è chi a primavera sale quassù dalla pianura e ci resta dei mesi, sotto le stelle, a governare pecore e mucche. Come Gino alla Piana di Sant’Onofrio che, manco fossimo in Supramonte, offre al cronista ricotta e disponibilità all’obiettivo, in cambio però di una foto-ricordo di quelle bianche caprette di cui va fiero. O come al Guado del Faggeto, dove le capanne sono ancora in pietra e vegetazione. E’ un’altra conseguenza della natura appartata di questi luoghi pure così vicini alla folla, rimasta giù sul lungomare. E va detto che grande dovrà essere lo sforzo del parco, soprattutto per rendere fruibili le ricchezze naturalistiche di queste montagne dove le strade sterrate abbondano, ma il fondo pessimo e l’assenza di indicazioni le rendono impraticabili ai forestieri, e figuriamoci se in camper. La nostra perlustrazione del territorio, così, si è rivelata quasi una prova su strada delle capacità di manovra del mezzo: dietro-front improvvisati in spazi quasi inesistenti, slalom tra appenninici toulte-ondulée, passaggi al rallentatore nel bosco per non rischiare di vedersi portar via il tetto da un ramo. Conclusione, meglio non avventurarsi più di tanto per le molte stradine che puntano in montagna: promettono prati, ma spesso assicurano guai. Seguite i nostri suggerimenti verificati uno per uno, e semmai riservatevi più agili sortite giornaliere con l’auto, meglio se accompagnati da guide pratiche del luogo. Almeno per ora.

Le nostre escursioni
I sentieri agli Aurunci non mancano. In una pubblicazione di recente curata dall’APT di Latina, il CAI ne ha individuati e segnati ben 34, molti dei quali però percorribili con difficoltà per le cause appena menzionate, e cioè l’assenza di indicazioni sul terreno e la cattiva condizione della rete di strade secondarie. Anche altre fonti, come libri distribuiti in loco, si riferiscono ottimisticamente a una rete escursionistica che invece ancora non c’è in concreto, col rischio quantomeno di frustrare le aspettative dei visitatori (se non, peggio, di causare smarrimenti di persone o rotture della coppa dell’olio). In attesa che il parco cambi le cose, noi suggeriamo di seguito due tra i sentieri più belli e percorribili a piedi senza problemi, nonché due percorsi da fare in mountain-bike. E’ l’approccio agli Aurunci più fruibile e spettacolare, per programmare poi altre escursioni via via che il territorio si aprirà al turismo di scoperta.
Il sentiero del Redentore. Da Maranola, grazioso paesino rapidamente raggiungibile da Formia, superato il centro abitato si prosegue per la stradina asfaltata che, stretta e con qualche tornante, si arrampica sulla montagna. Da marzo a giugno, le vistose fioriture delle orchidee si fanno notare fin dai finestrini del camper. Al quadrivio in località Campone (nel bosco, mentre davanti si apre una radura con un edificio) si continua a salire a destra fino a raggiungere in breve la tabella d’inizio sentiero, in vista del Rifugio di Pornito (840 m) di proprietà della Comunità Montana (nel parco ce ne sono altri otto: nessuno però gestito per l’accoglienza, quasi tutti invece periodicamente visitati dai vandali).
Parcheggiato il camper come si può (i mezzi più ingombranti possono fermarsi allo spiazzo di Campone), si prende a salire a piedi lungo l’evidentissima traccia che sale a mezza costa. E’ un percorso antichissimo, utilizzato da almeno un millennio per raggiungere l’eremo di San Michele incastonato tra le rocce del Monte Altino. Al tratto iniziale, a fine primavera ravvivato da una strepitosa fioritura di salvia, seguono una serie di tornanti colonizzati dai ciuffi di viole, potentille e centauree, mentre sulle rocce i gruppi di fiori viola simili a campanule appartengono all’edraianto. Dopo più o meno un’ora e mezzo di comodo cammino si giunge all’eremo, risalente all’830 d.C. ma ricostruito nelle attuali forme vagamente goticheggianti alla fine del secolo scorso, dietro la cui facciata si apre una grotta. Quest’ultima è meta di una manifestazione religiosa ancora vivissima nella comunità locale, una processione con cui due volte l’anno si ribadisce l’attaccamento alla protezione che San Michele garantisce alla gente di montagna.
Piccola annotazione naturalistica: sulle pareti di roccia si scorgono senza difficoltà i nidi di una cospicua colonia di balestrucci, rondini presenti assai di rado in ambienti così selvatici cui preferiscono senz’altro quelli delle nostre città. Dall’eremo si guadagna in breve la cima del Redentore, dove sorge una gigantesca statua in ghisa di Cristo, una delle venti innalzate nel 1900 su altrettante montagne d’Italia. Destinata da lassù a sfidare i secoli, in realtà un violento temporale pensò a decapitarla già l’anno seguente e quel che vedono oggi gli escursionisti (ma pure i passeggeri della tratta ferroviaria costiera, presso Formia) è un rimpiazzo collocato nel 1919. Comunque sia la posizione è davvero panoramica, e soprattutto le terse giornate invernali garantiscono panorami d’eccezione dal Vesuvio al Circeo, fino agli arcipelaghi pontino e campano. Alle spalle della vetta, si aprono verso la dorsale principale del gruppo pascoli aerei dove si possono scovare le fioriture del verbasco e, più nascoste, quelle dello splendido giglio di San Giovanni. Il ritorno è per la via dell’andata e prende circa un’ora. Il monte Fammera. Da Selvacava, sul fronte orientale del gruppo montuoso, si seguono le indicazioni per la pineta, superata la quale, sempre sull’asfalto, c’è una fonte e poco oltre il cartello del Passo Bastia (474 m). Qui si parcheggia il camper e si prosegue a piedi per una deviazione posta subito a sinistra, dov’è pure un emporio. Quindi si inizia la salita sul fianco della montagna, dal profilo dolomitico già avvistato sulla strada, seguendo il ben evidente ghiaione dove risaltano i tornanti di una mulattiera. Tra campi e macchie di bosco, alle spalle di una baracca, si giunge ai gradoni della vecchia strada costruita decenni fa per realizzare il rimboschimento. Camminando lungo i muretti di sostegno in pietra si supera il ghiaione e ci si inoltra quindi nella macchia mediterranea, tra i cisti e le eriche.
Tralasciata una deviazione a destra si prosegue, poi la salita si fa a tratti più ripida alternando bosco e ghiaioni fino alla base dell’impressionante parete del Fammera, a un’ora e mezza dalla partenza. Da qui è tutt’altro che improbabile assistere alle evoluzioni aeree del falco pellegrino e del biancone, due rapaci che nidificano in zona, oppure incontrare sui propri passi la delicata fioritura della Campanula fragilis che predilige le rocce esposte a mezzogiorno. Proseguendo si giunge in cresta, alla Sella di Fammera di Spigno (921 m) dove il panorama, che a dire il vero è già magnifico da un pezzo, spazia dall’abbazia di Montecassino ai monti del Parco d’Abruzzo, al mar Tirreno. Da qui si può risalire verso nord la cresta sassosa senza tracciato obbligato, fino ai 1184 metri della cima, in tre ore e mezza circa complessive dalla partenza. Per il ritorno si può seguire la stessa via (calcolare un’ora in meno del tempo di salita), oppure dalla cima scendere per una traccia in direzione ovest verso la Valle Gaetano, dove sale pure una carrareccia (non adatta ai camper!) proveniente dal castello di Esperia. Ricca di scorci ameni un poco rovinati da brutte costruzioni recenti, la valle è un susseguirsi di pianori dove fioriscono tra l’altro diverse specie di orchidee. Risalendola fino alla testata si è di nuovo alla Sella di Fammera di Spigno, da cui si scende al Passo Bastia.

Sui pedali
Tra i tanti percorsi in montain-bike possibili, prendendo come base la rete di sterrate, ne suggeriamo un paio. Per il primo si porta il camper fino al Valico di San Nicola, sulla strada tra Itri e Campodimele, in corrispondenza di un edificio dell’Anas e poco dopo del bivio per il santuario della Madonna della Civita. In bici si sale per una stradina asfaltata, si tiene la sinistra a un successivo bivio e ci si inoltra nella foresta demianiale di Campello. L’asfalto va e viene ma non è un problema e il bosco d’autunno è un’esplosione di colori. Dopo circa 7 chilometri si arriva a una fonte, oltre la quale si aprono una serie di pianori carsici, inghiottitoi, sorgenti, in un ambiente assai ameno un tempo popolato da pastori e contadini. Nel sottobosco è possibile incontrare le splendide fioriture del giglio martagone, del tulipano giallo, dell’Orchis mascula. Altro percorso in mtb è quello delle gole del Rio Polleca. Da Esperia vi salirebbe una strada, però uno stretto passaggio tra le case del paese (non transitabile ai mezzi più larghi di due metri) ne preclude di fatto l’accesso ai camper. Poco male, si va in bici per dieci chilometri e più di percorso tra pareti a strapiombo scavate dal fiume, grotte, doline e una cappella votiva dedicata a Sant’Onofrio, fino alla località Portella dove si trovano un bivio e un pozzo, e da dove partono sentieri per il Monte Petrella e per il Revole.

I paesi
Tutti ai margini del parco e nessuno che conservi la purezza delle forme antiche, i centri abitati degli Aurunci assicurano però motivi d’interesse storico e artistico e scorci caratteristici. Gaeta, Formia e Itri sono i principali, e soprattutto la prima è una meta turistica di prim’ordine, meritevole di più giorni di visita per apprezzare appieno l’enorme ricchezza delle testimonianza lasciate da almeno duemila anni di storia.La cittadina è distinta in due nuclei dall’altura di Monte Orlando (vedi paragrafo successivo).
Sant’Erasmo, sull’apice del promontorio, è il quartiere più antico dove in un continuo saliscendi di scalinate e rampe si incontrano i monumenti più importanti: l’imponente castello angioino-aragonese, composto di due corpi di fabbrica (occupato fino a un decennio fa da un carcere, oggi ospita una scuola della Guardia di Finanza), e il duomo di Sant’Erasmo con lo stupendo campanile attiguo in stile normanno-moresco (XII-XIII secolo), appena restaurato. Alla sua base si trova l’accesso al piccolo museo diocesano, visitabile solo la domenica mattina (avvisare prima il parroco, don Alberto Giordano, al numero 0771/462909), che custodisce tra l’altro tre preziosissimi exultet. Si tratta di rotoli illustrati in pergamena usati durante le funzioni, risalenti al Mille e di produzione benedettina.Pure interessante è la visita alla mostra permanente in Palazzo De Vio, allestita dall’attivo Centro Storico Culturale – associazione locale che conta una cinquantina di volontari, in parte finanziata dalla Regione – e comprendente una ricca raccolta di opere d’arte provenienti da vari monumenti cittadini, un gabinetto di disegni e stampe, una rassegna storica sul famoso assedio del 1861 da parte dell’esercito piemontese (Gaeta fu l’ultima città del Regno di Napoli a capitolare ai Savoia). Per il resto, pur se migliorate negli ultimi anni, le condizioni di conservazione e fruizione del centro storico restano tuttavia precarie e chiese come San Giovanni a Mare, San Domenico e la neogotica San Francesco sono chiuse alle visite. Sul lungomare da non perdere è il gioiellino barocco della chiesa della Santissima Annunziata, con un curioso campaniletto a vela e la Cappellina d’Oro dalla volta a botte con cassettoni dorati.
L’altro nucleo storico di Gaeta è il quartiere di Porto Salvo, alle spalle del lungomare dove alla sera si espone il pescato. Nella ordinata geometria di vicoli disposti a pettine lungo il rettifilo di Via Indipendenza e occupati da botteghe, odori e colori, edicole votive e scugnizzi vocianti, a più di un secolo dal ritiro dei Borboni il quadro di napoletanità che vi si compone è sincero e ancora pressoché perfetto. Se la bellezza ben nota di Gaeta è una conferma, è almeno in parte una sorpresa quella di Formia, oggi il centro principale della zona (la sua popolazione è raddoppiata dal dopoguerra a oggi, contando trentacinquemila abitanti contro i ventiduemila di Gaeta). Sono recentissime infatti la riapertura e l’ampliamento del museo archeologico, e il nuovo raffinato allestimento dà giusto risalto alle sculture d’età romana rinvenute numerose nel territorio cittadino. La torre di Mola, il criptoportico sulla spiaggia, la cosiddetta Tomba di Cicerone sono altrettanti monumenti tanto noti quanto poco valorizzati nel loro significato storico e potenziale turistico; ma l’attrazione forse maggiore sono in molti a non conoscerla affatto. Si tratta del quartiere Sant’Erasmo o Castellone, posto in alto alle spalle del porticciolo turistico e raggiungibile per la Via Gradoni del Duomo. Passeggiando per vicoli, archi e piazzette vi si ammira un animato esempio di architettura mediterranea impostata su resti romani, mura megalitiche o tracce medioevali. Assolutamente unico è il colpo d’occhio sul teatro romano che non è più un teatro, ma un condominio popolare del Seicento a quattro piani sorto sopra la curva della cavea (chiedere per l’accesso che da soli non si troverebbe mai, avviene tramite un arco su Via Gradoni).
Lasciata la costiera e addentrandosi nell’entroterra, il centro più interessante che si incontra è Itri. Duramente colpita durante l’ultima guerra, come le cittadine precedenti, conserva ancora un piacevole nucleo storico. Da vedere sono soprattutto il campanile di Santa Maria Maggiore (la chiesa fu distrutta da una bomba) e la chiesa di Sant’Angelo, affacciata su una raccolta piazzetta, nonché i vicoli tutt’intorno dove una bottega tiene ancora viva la tradizionale lavorazione artigianale dello strame (vedi riquadro). Dal paese, scendendo dalle pendici del contrafforte aurunco, si raggiunge in breve Fondi, col torrione cilindrico del castello medievale, il quattrocentesco Palazzo del Principe, il pergamo cosmatesco del duomo e poi anche un animato viavai serale, assai piacevole per chi decidesse di pernottare da queste parti.
Verso nord con la statale 82 della Valle del Liri si raggiunge invece Campodimele, sede del parco nonché “paese della longevità”. Degli 850 abitanti, infatti, 168 sono almeno ottuagenari e alcuni ultracentenari. Prima del paese, una deviazione a metà strada porta al frequentato santuario della Madonna della Civita, in bella posizione panoramica sopra un colle verde di lecci. Come un altro ben conosciuto luogo di culto degli Aurunci, il santuario della Madonna del Piano presso Ausonia, attualmente è interessato da lavori di ampliamento e restauro in previsione del Giubileo. Tra gli altri paesi citiamo Maranola, Esperia Superiore (soprattutto per gli scenografici ruderi del castello di Roccaguglielma), il piccolo centro di Spigno Saturnia Superiore e, sulla costa, Scauri e soprattutto Minturno, sulla sponda destra del Garigliano. Oltre al castello e a una bella chiesa medievale, intitolata a San Pietro, da vedere qui ci sono pure gli scavi con un teatro, l’antiquarium e le tracce della Via Appia che portava a Napoli.

PleinAir 328 – novembre 1999

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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