Il fu Teodoro

Gallipoli, la "bella città" di Puglia, si veste in maschera e sale sui carri allegorici per festeggiare un Carnevale tra i più grassi del meridione. E con la scusa di un funerale tutto da ridere, ci invita a partecipare.

Indice dell'itinerario

E’ il pomeriggio del Martedì Grasso: lungo il viale principale della città sfilano giganteschi carri allegorici. Ma la festosa allegria del Carnevale è rotta dal pianto degli amici che accompagnano nel suo ultimo viaggio il figlio della Quaresima, Teodoro (lu Titoru o Tituoru in dialetto), disteso immobile, con il volto coperto di cerone bianco. Ad ascoltare meglio ci si accorge però che non sono lamenti, bensì lazzi e battute sull’estinto.
Questa tradizione ha radici antichissime, a metà tra il carattere religioso e quello della grande festa popolare. Il Carnevale di Gallipoli, come nella stragrande maggioranza delle città pugliesi, ha inizio nel giorno di Sant’Antonio Abate – il 17 gennaio – durante il quale il popolo usava un tempo riunirsi per le strade intorno a grandi falò (le focareddhe) per ballare la pizzica, una coinvolgente danza accompagnata dal ritmo di tamburelli e fiati. L’uso di mascherarsi, limitato inizialmente alle feste private nei palazzi nobiliari, si diffuse man mano in tutta la città. Tutto il periodo era caratterizzato da infiniti scherzi e, soprattutto, da grandi scorpacciate di carni d’agnello e di maiale con le quali la gente si rifaceva dell’astinenza passata, dovuta a pestilenze e carestie, e di quella futura in vista dei digiuni prescritti nei quaranta giorni della Quaresima.
In questo clima nacque la leggenda del giovane soldato Teodoro, lontano dalla sua terra natale a causa della guerra. Sua madre, la Caremma (rappresentata nelle vesti di una vecchia megera), come tutte le mamme dei ragazzi al fronte pregò il Signore di restituirle il figlio in salute. La preghiera non fu ascoltata e la vecchia chiese allora che si prolungasse il Carnevale per altri due giorni, affinché anche il figlio potesse approfittare dell’abbondanza di cibo. Esaudita questa richiesta, il Martedì Grasso tutta la popolazione di Gallipoli salutò il ritorno di Titoru con sfrenati festeggiamenti. Per cercare di recuperare il tempo perduto il giovane si ubriacò di vino e s’ingozzò di salsicce e polpette di maiale, in un pasto pantagruelico che lo condusse alla morte. Da allora la sua figura è messa alla berlina e sbeffeggiata per tutta la durata del Carnevale.

Il Carnevale oggi
La sera del 17 gennaio si rinnova ancora la tradizionale accensione delle focareddhe, in onore di Sant’Antonio, che danno il segnale d’inizio al periodo carnevalesco.
I giorni canonici delle sfilate, comunque, restano sempre l’ultima domenica di carnevale e il martedì successivo (quest’anno il 22 e il 24 febbraio). Già dalle prime ore del pomeriggio, con una gran voglia di divertirsi, il pubblico affluisce alla spicciolata sulla centralissima Via Roma, non ancora chiusa al traffico. Infiniti i travestimenti: dalle più semplici maschere di gomma calate sul viso, ai costumi più ricercati e ai fantasiosi maquillage.
L’originaria consuetudine di lanciare confetti è stata sostituita da quella assai meno elegante di spruzzare schiuma bianca, con l’intento di ricoprire i malcapitati bersagli dalla testa ai piedi. A nulla vale l’intervento dei vigili per sequestrare le bombolette che rispuntano dovunque; vittime preferite sono le ragazze, che spesso però si oppongono vigorosamente mettendo in fuga gli assalitori. Con il passare delle ore l’affluenza aumenta, finché in un fremito si sparge la voce della partenza dei carri.
Alla grande sfilata dei gruppi mascherati, nella quale spicca il corteo funebre di Teodoro come forte legame con la tradizione, si è aggiunta, a partire dal dopoguerra, quella delle composizioni in cartapesta. Semplici all’inizio, anno dopo anno sono divenute sempre più elaborate, tanto che oggi non hanno nulla da invidiare a quelle dei cortei più noti. Scolaresche in costume e singole maschere preannunciano i quattro carri allegorici, opera di appassionati artigiani locali, preceduti ognuno da tre folti gruppi mascherati che eseguono coreografie legate al tema di ogni carro.
Il lungo serpentone avanza lentamente tra musiche e lanci di coriandoli per sfilare al termine della strada, nei pressi della Fontana Ellenica, dinanzi alla giuria che assegnerà il premio alla migliore opera.
La kermesse gallipolina, grazie anche al contributo organizzativo prestato in questi ultimi anni dalla locale Associazione Premio Barocco, è notevolmente cresciuta, tanto da essere inserita nel circuito della Fondazione Città Europee del Carnevale (FEEC).

La città segreta
Il Carnevale può essere un’occasione per visitare o rivisitare Gallipoli. Anche a voler tralasciare le emergenze architettoniche più note (il castello, il duomo, le riviere, e così via) c’è sempre qualche altro angolo che merita di essere scoperto. Naturalmente bisogna recarsi nella parte più antica della cittadina, dove troviamo una delle più belle e meglio conservate farmacie della regione: la Garzja, risalente al 1814 e divenuta Provenzano dal 1878, situata in un signorile palazzo del 1500 che affaccia su Via De Pace. Pavimenti in cotto, volte con tracce di affreschi e mobili in legno accolgono in una sala semiellittica; le teche a parete espongono una coloratissima collezione di vasi in ceramica e di alberelli, gli antichi contenitori delle essenze.
Poco più avanti il Palazzo Granafei, sotto il quale si apre uno dei più grandi frantoi ipogei di Gallipoli. Questi, scavati a mano nel carparo sin dal 1600, erano utilizzati per la produzione d’olio da illuminazione (lampante). Per l’ottima qualità del prodotto la città ne divenne fino alla prima metà del 1800 la maggior esportatrice in Europa, tanto che ogni giorno dal porto partivano più di 35 battelli da carico.
Le olive raccolte nell’entroterra salentino affluivano al frantoio dai camini di scarico, all’epoca aperti nei cortili, ed erano lasciate in deposito un mese per accrescerne il grado d’acidità. Trascorso questo tempo, venivano frantumate mediante grandi macine di pietra azionate con animali da traino e la pasta ottenuta era raccolta nei cosiddetti fiscoli, contenitori in fibra intrecciata, poi accatastati e pressati da speciali torchi di legno.
La necessità di lavorare in questi ambienti, in cui la costante temperatura caldo-umida permetteva d’accelerare il processo di macerazione, decadde nel 1850 con l’avvento del petrolio e, nonostante l’attività si spostasse sulla produzione di olio alimentare, l’avvento delle presse di ferro nel 1900 segnò la chiusura definitiva dei 35 frantoi della città.

PleinAir 378 – gennaio 2004

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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