Il cuore e la memoria

Tunisia, vent'anni fa o quasi: dai ricordi di un viaggiatore per passione, ecco un ritratto del deserto, della sua gente e degli incontri che fanno il bello di un viaggio.

Indice dell'itinerario

Molto spesso un viaggio ci segna profondamente: per le esperienze vissute, per le atmosfere, per i contatti umani. A volte no, non ne rimane traccia, perché la presenza fisica in un luogo non sempre comporta quella emotiva. Insomma, è come se lì non ci fossimo mai stati perché non restano i ricordi, quelli veri, quelli che lasciano il segno, come può accadere a chi va a rinchiudersi in certi costosi villaggi turistici completamente avulsi dal contesto in cui sono collocati, senza immergersi nell’essenza di un paese e della sua gente. Voler capire e farsi coinvolgere, del resto, è una forma di sensibilità che non tutti possiedono: ma so che spesso qualifica chi ama l’abitar viaggiando, in particolar modo quando la destinazione è un paese che sembra particolarmente distante dal proprio modo di vivere, dalla propria cultura, dalle proprie abitudini quotidiane. Si parte, dunque, e si torna a casa con il desiderio di trasmettere agli altri le sensazioni, le emozioni, le immagini che sono rimaste impresse nel cuore e nella memoria. Come quella volta che…

Gli avventurosi di Tozeur
Tunisia, ottobre 1990. Dopo anni di campeggio qua e là in Italia, Europa e non solo, il richiamo delle sabbie era forte: quello che desideravo di più era attraversare il paese nordafricano con la mia tendina al seguito. Sognavo di viaggiare su un potente fuoristrada, come negli ammiccanti poster dei tour operator, ma, ahimé, dovevo accontentarmi della mia Fiat Uno. A dirla tutta, partii con un velato complesso d’inferiorità nei confronti di quegli avventurosi turisti del deserto che si affidavano alle attrezzatissime carovane motorizzate: venti giorni dopo, tornato a casa, avrei sorriso della mia stessa invidia.
I treni di Tozeur, la nota canzone di Franco Battiato, fu la colonna sonora del nostro itinerario. L’idea di visitare la costa tunisina non ci sfiorò minimamente e, senza esitazioni, appena giunti al porto di La Goulette puntammo direttamente a sud verso la mitica Tozeur. Man mano che ci avvicinavamo alla regione delle sabbie, però, cresceva l’ansia in merito a prestazioni e affidabilità della mia utilitaria. Continuavo infatti a pensare a quei convogli di fuoristrada superattrezzati per le traversate nel deserto, e il confronto con la mia auto mi faceva sudar freddo. Ad ogni modo, a Tozeur ci arrivammo seguendo una normale strada asfaltata – e con non poca delusione, speranzosi come eravamo di percorrere le piste fin da subito. Nella cittadina il richiamo delle sabbie fu ancora più forte, accresciuto dall’impalpabile atmosfera di ultimo avamposto civile. Le agenzie di viaggio, più numerose dei negozi di souvenir, proponevano escursioni indimenticabili su piste insidiosissime e dune vertiginose. Tutto questo rendeva la mia ansia ancora più profonda: come ci sarei arrivato io nel deserto? “Avventura nelle Oasi di Montagna – Mides, Tamerza, Chebika” recitava un cartellone pubblicitario, con tanto di vettura e autista in abiti tuareg. In questo luogo di frontiera l’iniziativa dei ragazzini certo non manca e quasi senza rendermene conto mi ritrovai su una pista, sabbia mista a sale, in direzione delle oasi, accompagnato dalla mia giovane guida a bordo della Uno. Sotto la direzione del mio accompagnatore, scoprii le doti nascoste della mia auto: marce basse e su di giri per attraversare i tratti insidiosi, accelerate e controsterzo per tenermi nel solco della pista. Sudato più per la tensione che per il caldo, feci così la mia entrata trionfale nelle oasi di montagna.
Nel pomeriggio, quando la mia auto si stava godendo il meritato riposo, dal fondo della pista scorsi una nuvola di sabbia che s’ingigantiva sempre più, accompagnata da un rombo cupo. In un attimo fummo avvolti dalla polvere, e quando tornò la calma ci ritrovammo circondati da un gruppo di fuoristrada carichi di turisti e relativi accompagnatori con tanto di tagelmust, il caratteristico copricapo tuareg: proprio quelli del cartellone! Passata l’euforia e lo stordimento, uno ad uno gli avventurosi esploratori del deserto scesero dalle auto tra gridolini di giubilo e di meraviglia, eccitati per aver conquistato così arditamente l’oasi. Le espressioni di contentezza, però, andarono via via scemando quando si accorsero che lì di fianco, in disparte, c’era la mia umilissima Uno. Vidi sui loro volti una sensazione di delusione mista a imbarazzo: ma come c’è arrivata lì quell’auto, chiesero. Dalla vostra stessa pista ma con la trazione integrale del cuore, risposi soddisfatto.

Cuscus a Mides
La mia permanenza nelle oasi fu di qualche giorno, sempre attento a star lontano dalla schiamazzante folla a trazione integrale. Una sera a Mides, stanco e assonnato, lontano dal villaggio, avevo piazzato la tenda e acceso un fuoco sotto un palmeto da datteri ripensando alla giornata trascorsa. Nel pomeriggio avevo rischiato di perdere la macchina nelle sabbie di un torrente: la tentazione di scattare una foto ricordo nel deserto con l’auto al centro di un guado era troppo forte ma stava per essermi fatale. Regolando la fotocamera per un autoscatto, infatti, mi accorsi che la macchina scompariva lentamente dal mirino: stava affondando nel letto del corso d’acqua! Col cuore in gola, riuscii per fortuna a strapparla dalle quelle sabbie mobili. Un attimo in più e sarei tornato a Tozeur con i “turisti avventurosi”, e che smacco sarebbe stato, chissà se più per la perdita dell’auto o per la rivincita morale della truppa in fuoristrada.
Mentre ripensavo al pericolo scampato, udii un fruscio di passi sulla sabbia, leggeri. Dalla semioscurità, rischiarato dalla luce del fuoco, apparve un ragazzo che portava tra le mani un tajine ricolmo di cuscus fumante. Notando il mio stupore, mi fece capire a gesti che sua madre mi aveva visto mentre montavo la tenda e, dato che era ora di mangiare, lo aveva mandato con del cibo per me. Questa è la sacra ospitalità del deserto: la donna aveva preparato la cena per quel nomade che, pur solo per una notte, aveva cercato ospitalità presso il suo villaggio e che all’alba sarebbe partito alla prima preghiera del muezzin.

Notti pungenti
Strada per Le Kef. Era ormai sera inoltrata ed eravamo in ritardo sulla tabella di marcia; il maltempo ci aveva sorpresi lungo il cammino e ora l’unico pensiero impellente era quello di trovare una sistemazione per la notte. Tutt’intorno, il buio più assoluto non faceva scorgere il benché minimo particolare dell’area che stavamo attraversando. Visto che era impossibile montare la tenda a causa del forte vento e delle precipitazioni, decidemmo di proseguire alla ricerca di un tetto solido. Unico riferimento, in quella notte senza luna, un tenue chiarore verso sud che annunciava la presenza di un centro abitato. Così era, infatti: dopo qualche chilometro giungemmo al margine di una modesta cittadina di cui ho dimenticato il nome e per le cui strade, curiosamente, non si vedeva circolare anima viva. Quello che ricordo è che trovammo una pensioncina sistemata in fondo a un vicolo strettissimo, quindi fummo obbligati a fare un paio di volte la spola per scaricare i bagagli, il tutto sotto il vento incessante.
La notte fu un inferno, e non per i letti scomodi: un atroce prurito ci teneva svegli, come se avessimo milioni di spilli piantati in tutto il corpo, e neanche le ripetute docce ci diedero sollievo. Non sapevamo spiegarci il fenomeno fino a quando, al mattino, il nostro dormiveglia fu spezzato dal canto del muezzin che si spandeva per l’aria. Aprendo la finestra avemmo la rivelazione: davanti a noi, a perdita d’occhio, un’immensa distesa di fichi d’India, vanto e sostentamento di questa parte del paese.

Le fornaci di Sejenane
Nel piccolo paese berbero sulla direttrice Bizerte-Tabarka capitammo per sbaglio. Ad attirare la nostra attenzione furono, in lontananza, le colonne di fumo che si levavano dal terreno, come se tutt’intorno si stesse verificando un’intensa attività vulcanica. Giunti sul posto, d’improvviso ci ritrovammo circondati da un nugolo di bambini che parevano usciti dal nulla, e ognuno di loro cercava di venderci dei rudimentali manufatti in terracotta: piatti, vasi, animaletti di forma varia.
Capimmo allora che tutto quel fumo proveniva da primitivi forni scavati nella terra, dentro i quali venivano cotti quegli oggetti. Il villaggio traeva probabilmente il suo sostentamento solo da quell’attività, visto lo stato in cui erano i bambini: anneriti dal fumo, sporchi d’argilla e con gli occhi arrossati dal calore delle fiamme. Comprare qualcosa fu il minimo che potemmo fare davanti a quegli sguardi supplicanti e speranzosi: ma non con quell’atteggiamento di carità mista a furbizia, come spesso capita di veder fare, quanto per un senso di rispetto verso il lavoro di quelle genti, verso chi creava qualcosa, testimonianza di una cultura berbera che chissà per quanto ancora sopravviverà al progresso.
Ai margini del capannello che si era formato intorno a noi, non potei fare a meno di notare un bimbo molto più piccolo degli altri e che, in quanto fisicamente minuto, non poteva certo competere con la sgomitante confusione degli altri ragazzini. Era seduto in disparte, composto e silenzioso, mangiando un po’ di minestra in una fondina simile a quelle che ci erano state offerte in vendita. Quando avvertì su di sé la mia attenzione, mi fissò con un sorriso disarmante e, ripulendo il piatto con l’angolo della maglietta, tese le braccia verso di me in segno di offerta. Quella coppa oggi arreda un angolo della mia casa, ed è l’unico oggetto che ho tenuto; tutti gli altri li ho regalati.

Testo e foto di Francesco Lo Mastro

PleinAir 448 – Novembre 2009

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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