Il colore della vita

Affacciato sull'Atlantico lungo il margine settentrionale del Golfo di Guinea, il Senegal è un paese da scoprire con i modi dell'abitar viaggiando: una meta certamente non convenzionale, dove le difficoltà logistiche dell'itinerario sono ampiamente ripagate da inattesi paesaggi naturali e dall'incontro con un popolo fiero e ospitale.

Indice dell'itinerario

A chi pensa che guidare in Senegal non sia cosa facile, diamo senz’altro ragione. Le strade sono spesso sterrate per non dire sabbiose, la trazione integrale è d’obbligo: in caso contrario si rischia di dover chiamare in soccorso qualche contadino che, in cambio di una mancia, ti tira fuori attaccando lo zebù al paraurti. Le poche direttrici asfaltate non sono migliori perché in alcuni tratti la copertura è venuta via, magari a sorpresa dietro un dosso, e ci sono buche capaci di spaccare le gomme. Indicazioni nemmeno una, si procede a occhio. Per fortuna, se così si può dire, le vie di comunicazione sono poche ed è difficile sbagliare. Insomma, è un po’ un’avventura: ripagata però dal fatto che il Senegal è un paese bellissimo, di forte impatto emotivo, pieno di luce, gente, animali, colori. Un’Africa sotto molti aspetti ancora intatta, ma da noi praticamente sconosciuta se si eccettua lo stereotipo del “paese dei venditori ambulanti”. Disponendo di un mezzo adeguato e soprattutto robusto, condizione irrinunciabile per una visita in autonomia, immergersi in questa realtà è un’esperienza che segna il ricordo di ogni viaggiatore.

Un’isola di conchiglie
La capitale Dakar, moderna e caotica, è circondata da un’estesa periferia dove la miseria e la polvere coprono tutto come un velo. Il traffico è confusionario, non tanto per il numero di veicoli ma perché si tratta perlopiù di mezzi ormai vecchi che spesso rimangono in panne, bloccando la circolazione. In giro per la città ci rendiamo conto che, nonostante questo sia un paese musulmano, le ragazze non portano il velo, anzi sono spesso fasciate in abiti stretti e ostentano elaborate acconciature.
Dirigendosi a sud lungo la costa, su una strada ancora accettabile, si raggiunge il paese di M’Bour dove si svolge un celebre mercato del pesce. Difficile dire se sia rischioso o meno per il turista infilarsi in questa babele, perché in ogni caso sarà impossibile farlo da soli: le gite organizzate hanno da tempo escluso questa tappa dal programma a causa della grande confusione, ed esiste una specie di mafia locale che si propone di gestire il turismo, creando non pochi problemi agli accompagnatori. All’arrivo ci vedremo dunque avvicinare da ragazzoni alti e muscolosi che, con aria decisa, si offriranno come guida: ma non tutto il male viene per nuocere visto che basta contrattare per il servizio, di solito non caro, e con loro accanto il giro del mercato si potrà effettuare in assoluta sicurezza, avendo inoltre la possibilità di socializzare con gli innumerevoli amici e conoscenti che la nostra pattuglia non mancherà di presentarci. Chi vuole potrà ovviamente comprare del pesce fresco, con l’accortezza di cuocerlo bene.
Le barche dei pescatori sono vere opere d’arte, come scopriremo anche alla tappa successiva, Joal-Fadiouth, in realtà due villaggi gemelli: il primo sorge sulla terraferma, il secondo su un’isoletta di conchiglie che scricchiolano sotto i piedi, unita alla terraferma da un ponte in legno costruito di recente. I negozietti di souvenir rivelano che è una meta molto più turistica della precedente, anche se l’offerta consiste in una parata di oggetti in legno identici a quelli che si trovano nei nostri mercatini etnici. Ma la principale attrazione, curioso a dirsi, è il cimitero, o per meglio dire le croci disseminate sull’isoletta e circondate da splendidi baobab, gli alberi simbolo del Senegal. Le praterie dell’Africa centrale ne mostrano di enormi ma mai numerosi come qui intorno, dove si stendono interi boschi formati da massicci esemplari, più larghi che lunghi: durante l’inverno sono senza foglie e le loro silhouette si stagliano nel cielo ancora più imponenti.

Guerrieri e lottatori
Più a sud la strada comincia a diventare sterrata, ma ancora accettabile. Raggiungiamo così Ndangane che si trova sul confine nord-occidentale del delta del Saloum, il grande fiume del Senegal. L’area è oggi protetta da un parco che include estese foreste di mangrovie, tra le poche piante che riescono a vivere in ambienti salmastri tenendo parte delle radici fuori dall’acqua: piacevoli gite in barca permettono di ammirarle da una postazione privilegiata.
Ndangane è un tradizionale villaggio popolato dai mandingo o mandingue, una popolazione di grandi guerrieri e oggi lottatori. In paese si vantano di aver avuto molti campioni della tipica lotta senegalese, non dissimile da quella greco-romana, in cui si deve atterrare l’avversario non solo con la forza ma anche con la tecnica corretta. All’imbrunire, quando la temperatura è accettabile, cominciano le lotte divise per categorie in base alla statura. I tamburi rullano ossessivamente, gli atleti danzano fino al momento in cui i giudici indicano due di loro che, dopo un rituale preliminare, danno inizio al combattimento. Nel frattempo i tamburi continuano a suonare per gli esclusi che, sempre ballando, osservano la disputa. Se ne esce dopo qualche ora, completamente frastornati dal rumore e dall’atmosfera, ma con la netta sensazione di aver avuto un raro privilegio: può infatti capitare di essere gli unici turisti ad assistere all’evento, guardati dagli altri spettatori come una curiosità.
La parte più interessante del delta del Saloun è quella meridionale, quasi al confine con il Gambia. Qui si trova Toubakouta, un altro villaggio mandingue a pochi chilometri in linea d’aria da Ndangane, anche se sulla strada sono molti di più: il terreno paludoso e instabile costringe infatti a un lungo giro arrivando sino a Fatick dopo aver attraversato la splendida foresta di Samba Dia, un bosco di palme borasso unico nel suo genere, e da qui a Kaolack, dove si trova un altro grande mercato. Conviene approfittarne di quest’ultimo per acquistare a poco prezzo riso e sapone, che risulteranno graditissimi nei villaggi in cui ci fermeremo in seguito, e dove il turismo è ancora sostanzialmente sconosciuto. Considerando le precarie condizioni in cui vive la gente del posto, lasciare in regalo questi generi di prima necessità al capo villaggio ci renderà ospiti bene accetti, e tutti si faranno in quattro per farci entrare nelle loro capanne e per mostrarci i bambini a cui scattare bellissime foto ricordo. Una sola raccomandazione: evitate di distribuire caramelle ai bimbi anche se le dovessero chiedere, perché non hanno la possibilità di lavarsi i denti e tantomeno di andare dal dentista, e una carie sarebbe una vera maledizione. Le ragazze, dal canto loro, si adornano con anelli, bracciali e orecchini, e l’entusiasmo con cui accolgono il dono di una semplice saponetta contrasta stranamente con la cura degli abiti, dell’aspetto e della pettinatura. Anche in questo caso una foto e un complimento saranno accettati con piacere.
Da Toubakouta partono le bolong, piroghe dalla forma slanciata per l’escursione fra le mangrovie, che si effettua al tramonto sia per evitare il sole a picco, sia per la luce suggestiva. Aggirandosi tra gli infiniti canali si possono ammirare diverse specie di uccelli, dal martin pescatore bianco e nero ai fenicotteri. Il nibbio locale forma colonie nidificanti con centinaia di individui, comportamento davvero inusuale in un rapace.
Non rimane adesso che tornare indietro e da Kaolack spingersi nell’interno, raggiungendo Diourbel e Touba. Entrambe le cittadine hanno una splendida moschea, che avremo l’accortezza di fotografare da lontano poiché la presenza di turisti intorno ai luoghi sacri non è gradita ed è bene non indugiare troppo per non provocare atteggiamenti ostili.
Conviene approfittare del lungo tragitto fino a Saint-Louis per fermarsi nei villaggi lungo la strada, divisi fra tre etnie principali: wolof, peul e toucouleur, più alcuni gruppi di minore importanza. La convivenza è pacifica, ma i matrimoni misti sono accuratamente evitati e soprattutto i wolof tendono a sentirsi migliori degli altri. Sono del resto i più numerosi, circa il 43% della popolazione, abitano soprattutto la costa e la zona attorno a Dakar e rappresentano la classe dominante, poiché detengono il controllo dell’economia e delle più alte cariche politiche. I peul discendono invece da pastori nomadi e ancora oggi sono insediati perlopiù nell’interno, dove allevano zebù. Difficile però distinguere gli uni dagli altri (lo possono fare solo i senegalesi, basandosi sui disegni degli abiti) e non c’è gaffe peggiore dello scambiare un peul per un wolof o viceversa. I toucouleur, infine, sono di origine mauritana, hanno tratti leggermente berberi, abitano solo nel nord del paese e sono i più poveri. Vista con occhi occidentali è una situazione che a tutta prima fa sorridere, ma probabilmente anche loro sorriderebbero di noi sapendo che ci distinguiamo in terroni e polentoni. E’ proprio vero che tutto il mondo è paese.

Come un secolo fa
Da Touba arriviamo a Kébémer su una strada asfaltata, ma in alcuni tratti il fondo è saltato e la carreggiata è un susseguirsi di voragini dilavate dalle piogge stagionali. Dopo Louga si raggiunge Saint-Louis, la seconda città del Senegal dopo Dakar. Di stampo coloniale, oggi è il centro universitario del paese, attivo porto di pescatori e strano amalgama fra vecchio e nuovo. Si trova sul delta del fiume Senegal, che per un lungo tratto segna il confine con la Mauritania: i primi insediamenti, sorti su alcuni banchi di sabbia, sono collegati alla parte nuova, moderna e pulita, da un ponte in metallo lungo 500 metri. Oltre la città vecchia c’è l’isola estrema che si affaccia sull’Atlantico, la Langue de Barbarie, raggiungibile tramite piccoli ponti. Poche decine di metri di passeggiata ci catapultano all’indietro di almeno un secolo: la confusione è totale, l’insieme così fuori dal tempo da sembrare irreale, ed è indescrivibile l’odore diffuso nell’aria da un numero imprecisato di pesci messi a seccare, preparati senza alcuna regola che noi definiremmo igienica.
Per quanto interessante, non varrebbe la pena spingersi fin qui per la sola città se non fosse per la vicinanza alla terza area protetta ornitologica del mondo, il Djoudj National Bird Sanctuary. Lo si raggiunge risalendo il fiume e, arrivati in zona, ci sono varie possibilità d’esplorazione, ma la migliore è un giro in battello. Si tratta infatti di un’ampia zona paludosa, ben 160 chilometri quadrati di stagni e canali, in cui staziona oltre un milione di uccelli: dalle anatre ai pellicani, dai fenicotteri alle aninghe, e poi coccodrilli e varani che riposano pigri sulle sponde.
Il rientro a Dakar, passando per Thiés, ci consente un’ultima tappa al Lac Retha. Si tratta di una sacca di acqua marina rimasta isolata e prosciugatasi quasi completamente nel corso del tempo, fino ad assumere un colore rosato a causa della presenza di particolari microrganismi, gli stessi che si trovano nelle saline. Sul fondo del bacino si è depositato uno spesso strato di sale, e più d’uno sbarca il lunario raccogliendolo con una sorta di pale e portandolo via sulle barche. Un vicino villaggio, dune di sabbia e una spiaggia infinita che si affaccia sull’oceano ci offrono l’immagine di un’Africa antica e vera, ancora integra. La vista di alcuni ragazzi che arrivano di corsa, distendono un tappetino e lo coprono di statuette di legno ci riporta alla realtà: ma qui, lontani migliaia di chilometri dai marciapiedi delle nostre città, anche questa scena ha tutto un altro sapore.

PleinAir 438 – gennaio 2009

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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