I re delle oasi

Attraverso il deserto e lungo il Nilo per cercare antiche testimonianze e nuove rivelazioni di un tempo sospeso tra il mito e la storia: una classica (ma non troppo) avventura in Egitto per veri itineranti.

Indice dell'itinerario

Il nostro lungo e ambizioso itinerario inizia a Tunisi con lo sbarco a La Goulette, la principale porta d’ingresso in Africa per chi, come noi, viaggia con il veicolo ricreazionale. Durante i normali controlli un solerte doganiere trova nel cassetto della cabina di guida una coppia di piccole ricetrasmittenti, delle quali è proibito l’ingresso e l’utilizzo su tutto il territorio tunisino: non ci vengono sequestrate soltanto perché dichiariamo di essere di passaggio, ma prima di restituircele le sigillano trascrivendole sul passaporto, e a causa di questo imprevisto perdiamo due ore.
Attraversiamo velocemente la Tunisia per entrare in Libia, dove ci uniamo al nostro accompagnatore che insieme a un poliziotto ci scorterà in auto sino al confine egiziano, percorrendo circa 1.500 chilometri in tre giorni e due notti. Le formalità d’ingresso in Egitto con un veicolo sono piuttosto complicate e abbastanza costose, ma ci autorizzano a circolare quasi liberamente per un mese su tutto il territorio: dopo sei giorni dalla partenza e superate già cinque frontiere, finalmente iniziamo questa nuova avventura in terra d’Africa.

Nel deserto dell’ovest
Al bivio di Marsa Matruh lasciamo la bella costa mediterranea, meta estiva per i locali, e prendiamo verso sud per l’oasi di Siwa, che lambisce i margini del deserto. Questo immenso territorio, esteso quasi quanto l’Inghilterra, si incunea verso la Libia fino all’oasi di Kufra e ha ispirato numerose leggende che lo rendono ancora più misterioso: le più ricorrenti narrano della sparizione dell’oasi di Zarzura, conosciuta fin dall’antichità ma letteralmente scomparsa tra le sabbie senza lasciare traccia. Identica sorte subì nel 525 a.C. l’esercito di Cambise che, marciando in direzione di Siwa per conquistarla e per distruggere il tempio di Ammon, fece perdere ogni traccia di sé tra le infide dune. Passò di qui, con più fortuna, anche Alessandro Magno che nel 331 a.C. giunse al tempio dell’Oracolo prima di riprendere la marcia di conquista del suo impero verso oriente.
L’oasi ci appare improvvisamente come un verde miraggio, racchiusa tra centinaia di migliaia di palme da dattero e 70.000 ulivi: situata in una depressione a 12 metri sotto il livello del mare, sopravvive grazie alle acque di 300 sorgenti sotterranee che alimentano una fittissima rete di canali ed è chiusa a est da due laghi salati. Abitata da circa 5.000 anni, include il caratteristico villaggio di Shali che presenta una fortezza costruita con alte pareti in mattoni di fango e sale, ormai quasi completamente in rovina e abbandonata dalla popolazione (è visitabile solo in parte e con la massima prudenza a causa di possibili cedimenti). Nella piazza principale un grande plastico raffigura l’imponente edificio nel momento del suo massimo splendore, intorno al XIV secolo.
In condizioni analoghe si presenta il tempio del famosissimo oracolo, di cui rimane visibile una parte delle mura ricoperta da iscrizioni: anche se attualmente sono in corso lavori di restauro, solo l’immaginazione può restituire a questo luogo l’importanza che aveva nell’antichità. Vicino al tempio sgorga la sorgente che un tempo alimentava la cosiddetta piscina di Cleopatra dove, secondo la tradizione, amava immergersi la regina: ma l’acqua ora verdastra e maleodorante non invita certo a bagnarsi. Per concludere la visita non si può mancare un tramonto dal Gebel al Mawta, la montagna dei morti, una piccola collina crivellata di tombe di vari periodi; da qui è possibile ammirare quasi tutto il palmeto e i due laghi in cui si specchiano le frastagliate montagne circostanti.
Una grande strada in buone condizioni e percorribile senza particolari problemi (sono in corso anche lavori di asfaltatura) collega Siwa a Baharya, la nostra prossima destinazione lontana 400 chilometri. Lungo il percorso incontriamo postazioni militari situate a una settantina di chilometri l’una dall’altra; ne superiamo tre senza essere fermati, ma alla quarta ci viene richiesto, con nostra sorpresa, un permesso di transito che non abbiamo. Dopo un’ora di inutili discussioni veniamo rimandati di nuovo a Siwa, scortati da un militare fino all’ufficio della sicurezza nazionale dove nessuno può o vuole rilasciarci questo indispensabile permesso che, a sentir loro, può essere concesso soltanto al Cairo. Siamo così costretti a tornare sui nostri passi fino al bivio di Marsa Matruh, ma questo nuovo imprevisto ci consente la visita al sacrario italiano di El Alamein, eretto in onore dei caduti della più importante e sanguinosa battaglia avvenuta in Nordafrica durante la Seconda Guerra Mondiale, che terminò con la sconfitta dell’esercito italo-tedesco. A ricordo di quell’evento è stata eretta un’alta torre di marmo bianco che si staglia contro il blu del mare, e poco più avanti una lapide commemora le migliaia di morti con la frase Mancò la fortuna, ma non il valore .
Arrivati a Giza, una strada in ottime condizioni riprende la direzione sud evitandoci l’attraversamento del Cairo e del suo traffico caotico. Costeggiamo ancora una vasta zona desertica (parzialmente occupata da innumerevoli recinzioni che in un prossimo futuro diventeranno la nuova periferia della città) e dopo circa 300 chilometri giungiamo finalmente all’oasi di Baharya, ribattezzata la valle delle mummie d’oro . Abitata fin dall’antichità, era la più fiorente oasi dell’Egitto poiché forniva abbondanti quantità di grano e di vino agli abitanti della valle del Nilo; oggi ha perduto gran parte della sua produttività, in compenso gli archeologi stanno scoprendo un nuovo tesoro che potrebbe diventare una delle più grandi attrazioni turistiche del paese. Dal 1999 si sta infatti riportando alla luce un’immensa necropoli, situata a circa 6 chilometri da El Bawiti, che si stima possa contenere circa 10.000 mummie molte delle quali probabilmente ornate da maschere d’oro. L’accesso al sito degli scavi è vietato al pubblico, e forse ne sarà possibile la visita tra un paio d’anni: attualmente si possono ammirare soltanto quattro mummie racchiuse nel loro sarcofago originale, esposte presso un piccolo museo sommariamente allestito nell’oasi.
La strada, sempre perfettamente asfaltata, continua in direzione sud per l’oasi di Farafra attraversando il Deserto Nero, così chiamato per le caratteristiche sagome piramidali dei monti Suda i cui versanti sono quasi interamente ricoperti da pietre di questo colore: uno spettacolo molto suggestivo ma non insolito nel grande Sahara. Veramente unico è invece il panorama del Deserto Bianco che iniziamo a intravvedere all’orizzonte, e grazie a una pista ben tracciata che vi penetra per molti chilometri ci dedichiamo a una visita accurata. L’area è soprannominata dai beduini “valle delle carote” per le concrezioni rocciose dalle forme bizzarre e dal candore accecante che al tramonto prendono sfumature dai toni differenti, dal rosa all’arancio fino all’azzurrino. Decidiamo di sostare qui per la notte, e al risveglio i primi raggi del sole avvolgono il luogo di una magia che non ha eguali.La prossima oasi è Dakhla, snodo principale del nostro viaggio in Egitto. All’arrivo ci rechiamo all’ufficio turistico per organizzare la visita del vasto territorio di Gilf El Kebir con una guida locale, ma grandissima è la nostra delusione quando ci viene risposto che è possibile inoltrarci in quella parte di deserto esclusivamente se partecipanti a un viaggio organizzato o se si è in possesso del solito permesso di transito. Ci rivolgiamo al comandante militare della zona, il quale gentilmente ci conferma che nessuno si prende la responsabilità di concederci questo lasciapassare per problemi di confine con la Libia: purtroppo, per viaggiare autonomamente in questi territori in tempi politicamente instabili, si devono mettere in preventivo anche possibili variazioni all’itinerario deciso sulla carta, benché prima della partenza ci fossimo accuratamente informati su ogni fonte possibile.
Ritornati dunque in anticipo sulla nostra tabella di marcia ci dedichiamo all’oasi di Dakhla, la più pittoresca del deserto occidentale, racchiusa tra montagne e alte dune di sabbia e alimentata da oltre 500 sorgenti sotterranee. E’ costituita da numerosi piccoli insediamenti risalenti al Neolitico, sorti intorno a un grande lago ora prosciugato, nei quali vivono quasi 100.000 persone che vivono della coltivazione di palme da dattero, olivi, riso, grano e frutta. Il centro principale è Mut, di nessun interesse turistico, mentre a Deir al Haggar si possono ammirare i resti di un tempio romano risalente al I secolo durante il regno di Nerone, recentemente restaurato e che mostra preziosi altorilievi raffiguranti divinità egizie; le dimensioni dell’edificio non sono lontanamente paragonabili ai più famosi templi situati lungo il corso del Nilo, ma l’ubicazione e la completa assenza di turismo ne permettono una visita accurata e suggestiva.
Non si può non fare tappa nella cittadella medioevale di El Qasr, le cui case a più piani sono state realizzate esclusivamente con mattoni di fango dai piacevoli disegni geometrici. Alcune porte d’ingresso presentano un architrave in legno sul quale sono scolpiti il nome del proprietario, un versetto del Corano e la data di costruzione (la più antica risale al 924). In un dedalo di viuzze, sottopassaggi ed edifici in parte ancora abitati e molti parzialmente in rovina, si notano anche case recentemente restaurate e visitabili tra le quali ricordiamo quella di Abu Nafir, tipico esempio di dimora di un ricco commerciante, e la più antica moschea realizzata nel XII secolo con l’originale minareto alto circa 20 metri.
Proseguiamo per Kharga, l’ultima più grande e moderna oasi del deserto occidentale, fin dall’antichità importante tappa sulla pista dei Quaranta Giorni, così chiamata per il tempo che le carovane di dromedari, dirette in Sudan con il loro carico di mercanzie, impiegavano a percorrerla. La città non offre nulla che valga una sosta, ma gli immediati dintorni conservano alcune interessanti testimonianze del passato che possiamo visitare esclusivamente se scortati da un’auto della locale polizia turistica, che sarà quasi sempre presente in ogni nostro trasferimento fuori dal perimetro della città. Il luogo più interessante è la necropoli cristiana di El Bagawat, risalente al IV-VI secolo: è costituita da centinaia di tombe racchiuse in costruzioni a cupola edificate con mattoni di fango in stile copto, alcune delle quali conservano ancora ben visibili pitture raffiguranti scene bibliche.
La strada, sempre asfaltata, cambia direzione e prosegue verso est per Luxor, costeggiata da alture su cui si intravvedono le imponenti rovine di alcune fortezze innalzate dai Romani per proteggere il redditizio traffico di schiavi in arrivo dall’Africa Nera che transitavano lungo la pista dei Quaranta Giorni.

Luxor e il sud-est
Entriamo a Luxor attraversando il nuovo ponte costruito a sud della città, dove un attento blocco stradale controlla scrupolosamente ogni veicolo in ingresso. L’area di sosta del Rezeiky Camp ci sembra assai confortevole, anche se ci troviamo circondati da una folla di turisti che ci riporta alla realtà del turismo di massa al quale non eravamo più abituati dopo 10 giorni nel deserto. Programmiamo la visita dei tanti siti che normalmente vengono esclusi dai classici e frettolosi giri turistici e, per prima cosa, prenotiamo un volo in mongolfiera che certamente ci consentirà un privilegiato punto di osservazione.All’albeggiare l’aerostato inizia la sua lenta ascesa e pian piano l’orizzonte si allarga, riempiendoci gli occhi con la visione dei primi raggi del sole che tingono di rosa le pietre del tempio della regina Hatspepsut e le aride montagne che lo circondano, abbracciando anche tutto il territorio comprendente la Valle dei Re e delle Regine. Trasportato da una leggera brezza mattutina, il pallone sorvola silenzioso il villaggio di Qurna dalle case dipinte in vivaci colori, noto fin dall’antichità perché costruito per ospitare gli artigiani costruttori delle tombe regali (che in seguito divennero anche i loro più assidui profanatori e saccheggiatori). Passiamo sopra a un esteso territorio confinante con il villaggio e completamente forato dagli ingressi alle centinaia di tombe dei nobili che abbiamo deciso di visitare nel pomeriggio. L’ascensione si protrae per più di un’ora, muovendosi normalmente nella direzione compresa tra i Colossi di Memnon e la Valle dei Re perché questa zona, essendo scarsamente popolata, consente buoni margini di sicurezza in caso di atterraggio d’emergenza.
Da terra gli ingressi alle tombe, nascosti tra gobbe del terreno e avvallamenti di sabbia, non sono facilmente individuabili come dall’alto; le indicazioni sono scarse e l’identificazione del nome della persona sepolta è certa soltanto quando giunge un guardiano che si dimostra molto gentile e meno assillante del solito nel richiedere la baksheesh, ovvero la mancia. Le sepolture presentano pareti riccamente decorate da pitture e bassorilievi che illustrano scene di vita quotidiana di 4.500 anni fa e in particolare l’attività svolta da colui che vi è sepolto (a differenza delle immagini contenute nelle tombe regali, incentrate soprattutto su temi divini). Alcune non sono illuminate e i guardiani provvedono a rischiarare l’ambiente con un ingegnoso gioco di specchi. Due su tutte spiccano per bellezza e stato di conservazione: quella di Ramose, governatore di Tebe durante il regno di Akhenaton, è un monumento funerario veramente affascinante le cui decorazioni appaiono di qualità superiore alla media; soprattutto la scena che lo rappresenta insieme alla moglie è straordinariamente toccante e realistica, in particolare i capelli della bellissima donna raffigurati in ciocche finemente intrecciate. La tomba di Menna è invece completamente affrescata con scene di vita quotidiana e con la famosa rappresentazione (puntualmente riprodotta su poster, papiri e cartoline in vendita nei bazar) delle tre musiciste che suonano il liuto, l’arpa e uno strumento a fiato.
Proseguiamo la visita di questo straordinario museo all’aperto che è Luxor ritornando a Karnak, soprattutto per perderci tra le altissime colonne che compongono la grande Sala Ipostila. Purtroppo siamo in piena stagione turistica e la confusione creata dalla folla rende alquanto difficile la visita di questo complesso monumentale unico al mondo, facendo svanire tutta l’atmosfera che racchiude. Ritroviamo lo stesso trambusto anche durante l’escursione nella Valle dei Re, dove per giunta le tombe più famose sono chiuse al pubblico (anche quella della regina Nefertari, definita la più bella delle necropoli tebane); ripieghiamo dunque per quella di Tutankhamon che, richiedendo un biglietto d’ingresso supplementare, ha pochi visitatori.
Ripartiamo nuovamente in direzione sud rimpiangendo sempre i grandi silenzi lasciati nell’immenso mare di sabbia: infatti, ancora scortati dalla polizia, siamo nuovamente incolonnati dietro a numerosi convogli occupati da turisti, pur se ci è consentita la sosta per una breve visita ai templi di Idfu e Kom Ombo.
Finalmente giunti ad Assuan, provvediamo subito a confermare il posto per il nostro veicolo sulla nave in partenza ogni lunedì per Wadi Alfa e, avendo ancora tre giorni di tempo prima di lasciare l’Egitto, richiediamo un permesso per poter arrivare ad Abu Simbel e pernottare sul posto con il nostro pick-up. Il magnifico tempio, insieme a quello di File, è stato salvato dalle acque risalite durante la costruzione della diga che racchiude il lago Nasser, il più grande bacino artificiale del mondo: presto lo attraverseremo per proseguire la nostra avventura in Africa dopo aver salutato – ma non per l’ultima volta, di questo siamo certi – la terra dei faraoni e delle oasi.

PleinAir 399 – ottobre 2005

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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