Grattacieli e alligatori

Miami Beach è forse la più rinomata stazione balneare del mondo. Qualcosa di bello c'è, qualcosa di brutto ed esagerato anche, ma soprattutto c'è un sorprendente retroterra.

Indice dell'itinerario

Una città estesissima eppure non caotica, fronteggiata da una duna praticamente edificata a tappeto, dall’altisonante nome di Miami Beach. Non pare certo il posto dove recarsi in camper. Ambiente esclusivo, lussuoso, caro, la duna si rivela una specie di gigantesca Rimini, con una ricettività di quasi due milioni di persone e un mare raramente limpido. Tutti gli alberghi hanno perciò la loro piscina, dove torme di turisti fanno il bagno, mentre la spiaggia è libera e accessibile a tutti. Una domanda diventa ovvia: ma se quasi tutti se ne stanno in piscina, che bisogno avevano di costruirli qua, gli alberghi? Forse la spiaggia con le palme, i pellicani che sfrecciano sopra la testa e il sole che nasce dal mare (altra analogia con la riviera adriatica) sono gli aspetti coreografici che fanno la differenza.
Miami ha tante facce. Dietro la striscia degli alberghi-grattacielo, la laguna è ormai edificata dappertutto con villette esclusive, ognuna con il suo molo privato e barca ormeggiata. Oltre la laguna la città vera, ostile nella sua estensione, elementare nella sua planimetria, con strade diritte, parallele, numerate progressivamente e perpendicolari fra loro. Per trovare un punto qualsiasi basta seguire la logica della vecchia tavoletta pitagorica, nemmeno un cieco potrebbe perdersi. Una città nata ieri, priva di un centro storico o dell’equivalente, dove andare a passeggiare la sera. L’abitante di Miami, costretto a percorrere chilometri solo per trovare un negozio, non vive senza l’automobile. Gli spazi sono tali che non ci sono pedoni e quindi, spesso, neanche i marciapiedi. A Miami ci si sposta solo sulle ruote. Una città comunque aperta, aerata, con ampi parchi, boschetti e campi da golf, addirittura due aeroporti inglobati nella cerchia urbana, percorsa da strade sopraelevate come minimo a sei corsie, eppure spesso intasate. Ma oltre la città, ecco che le sei corsie si riducono alla strada semplice e malmessa che porta nell’interno. In quella direzione, oltre Miami, vanno evidentemente in pochi. Il motivo è semplice, non c’è altro che paludi, con gli alligatori che si spingono spavaldi fino alla periferia della città.
Per visitare sia la città che le paludi, la cosa migliore è recarsi all’autonoleggio dall’aeroporto internazionale, appena arrivati. Si può optare fra un camper locale, generalmente grande come un bus, o un’auto con cilindrata che supera generalmente i tremila, ma mai brillante in proporzione, almeno secondo i nostri standard. In ogni caso, negli USA la guida sportiva non è apprezzata e la gentilezza, agli incroci, quasi una religione. L’auto è limitativa perché non ci sono motel all’infuori delle città e si perde la possibilità di pernottare in mezzo alla natura. Il camper ha la sua controindicazione nel fatto che Miami detiene il record statunitense di rapine e delitti ai danni dei turisti, abbastanza da rendere sconsigliabile il pernottamento libero.

Le Everglades
Da Miami si può attraversare il parco con due sole strade che la collegano entrambe con Naples, cittadina situata sulla sponda opposta della Florida. La più frequentata è la Everglades Parkway, detta anche Alligator Alley, un nome che è tutto un programma. Attraversa le riserve degli indiani Seminole e Miccoglikee ma, a parte qualche finto villaggio per turisti, dove ci vengono rifilate le stesse perline che i primi coloni davano ai pellirosse in cambio di preziose pellicce, non è possibile vedere granché. Dopo tutto, agli antichi padroni di queste terre non è rimasta altro che la privacy… lasciamogliela. Più a sud c’è invece la Tamiani Trail, malridotta ma appunto per questo maggiormente inserita nell’ambiente, quindi la migliore. Su questa strada si trovano i Visitor’s Center più attrezzati.
Il parco nazionale delle Everglades è quello che rimane di terre malsane, percorse un tempo dalle agili canoe degli indiani Seminole e oggi dai rumorosi battelli per turisti, scafi a fondo piatto spinti da gigantesche eliche. Questi battelli scivolano velocissimi in superficie, piegando senza danno le piante acquatiche e danneggiando al minimo la palude. C’è chi si diverte a lanciarli in una folle corsa sopra lo sconfinato acquitrino, ma è solo un modo per non vedere niente. Le Everglades sono un ambiente ricco di vita e, con un po’ di attenzione, anche chi non sa niente di piante e animali ne coglie la particolarità. Gli operatori turistici, cioè i guidatori dei barconi, offrono ai visitatori incontri con animali semiaddomesticati, abituati pazientemente a prendere il cibo dalle mani. Se la sceneggiata, in uno stile spettacolare tipicamente americano, ha del pacchiano, in compenso l’ambiente non delude e vale la scampagnata. I tour operator sono dappertutto, non importa cercarli, vi cercano loro.
L’alligatore è l’abitante simbolo di queste terre sommerse. La prima speranza è di vederne almeno qualcuno; la seconda, una volta giunti sul posto, è che non si avvicinino troppo, visto che sono più numerosi delle lucertole e non sembrano troppo spaventati dagli uomini. Bestioni di quasi due metri sonnecchiano con apparente indifferenza a due passi dal ciglio stradale, con banchi di pesci che nuotano spavaldi a poca distanza dai loro musi arcigni. Poi uno scatto improvviso, l’acqua diventa torbida e l’alligatore mastica deciso qualcosa. La coda di un grosso pesce gli esce da un lato della bocca, muovendosi su e giù in sincronia con le mascelle. Cacciano standosene immobili, in agguato; come tutti i rettili ci vedono poco e, se non si fa attenzione, è facile che scambino il nostro piede per un pesce.Le Everglades non sono un tutto omogeneo, ma si dividono in più ambienti diversi. Il più comune è la distesa palustre, acqua bassa meno di un metro da cui spuntano steli sottili a formare una prateria allagata che si perde all’orizzonte. La più affascinante è invece la foresta allagata, posizionata nella parte nord del parco ma parzialmente visibile anche lungo la strada, oppure raggiungibile dal sentiero trekking che parte dal centro visitatori e porta direttamente all’interno della Big Cypress National Preserve.
I cipressi delle Everglades sembrano uscire direttamente dall’acqua, mentre i tronchi abbattuti ristagnano nel putridume, si confondono con gli alligatori e si coprono di funghi colorati. In alto, sui rami tenuti ben asciutti dal sole, le bromeliacee fioriscono in bella vista. Buffo contrasto, gli alberi tengono il piede nell’acqua mentre le tillandsia fiorite, dieci metri più in alto, sono parenti delle nostre piante d’appartamento (quelle che vanno innaffiate solo una volta ogni quindici giorni, altrimenti marciscono). Le epifite, cioè le piante che vivono su altre piante, sono la caratteristica più evidente del bosco sommerso delle Everglades, trasformando i rami in festoni colorati. Piante strane, che si appoggiano dove capita, lungo un tronco o alla biforcazione di due rami. Non sono parassiti, nel senso che non danneggiano la pianta ospite, si appoggiano soltanto. Ce ne sono di tante famiglie e le orchidee più spettacolari, ad esempio, fanno parte proprio di questo gruppo. Tutte hanno in comune una cosa: si contentano di poco per vivere. Le macchie rosse delle bromeliacee in fiore fanno contrasto con i nidi dell’aninga e dei cormorani, posizionati sui rami più alti, mentre in cielo il goffo e comunissimo avvoltoio nero è il padrone assoluto.
C’è infine una terza faccia delle Everglades, decisamente la più spettacolare, ma per raggiungerla bisogna attraversare tutta la Florida (ottanta chilometri circa) e arrivare sulla costa ovest, in prossimità di Naples. Qui, a ridosso del mare, dove l’acqua diventa salmastra comincia il mangrovieto. Questo ambiente era un tempo comune dappertutto, ma a Miami le poche mangrovie superstiti si trovano solo al Fairchild Tropical Garden, che è uno dei più grandi giardini botanici del mondo per le piante tropicali e che quindi merita una visita. La costa occidentale, invece, è inglobata nel parco naturale e mantiene integra la sua conformazione originaria, frantumata in migliaia di isolotti che formano, visti dall’alto, un vero labirinto vegetale. Qui vive il dugongo, o lamantino, un buffo sirenide col nasone e l’aspetto pacioso. Qui nidifica l’aquila dalla testa bianca, orgoglioso simbolo americano… finché qualcuno non ha fatto notare che, al di là dell’aspetto fiero, più che un’aquila è un avvoltoio. Qui dominano le mangrovie, sia la rossa (Rizophora mangle), capace di resistere ad un’elevata salinità e quindi colonizzatrice degli isolotti sabbiosi costieri, che la nera (Avicennia germinans) meno tollerante del sale e più diffusa nell’interno, dove le acque dolci si miscelano con quelle del mare. Le radici delle mangrovie hanno la curiosa caratteristica di ricavare ossigeno dall’atmosfera, uscendo dal fango e dall’acqua salmastra per assumere l’aspetto di canne d’organo intorno all’albero, intrecciate spesso fino a formare griglie invalicabili. Queste radici aeree, dette pneumatofori, formano uno dei più caratteristici ambienti delle coste tropicali.
Dopo un’ora circa di strada, lasciata Miami in direzione di Naples, un bivio sulla sinistra indica Everglades City e Chokoloskee, due minuscoli centri turistici circondati dall’acqua. Difficile sbagliare, perché le strade sulla sinistra si contano sulla punta delle dita. A Everglades City un piccolo aeroporto permette di effettuare il volo cosiddetto delle 10.000 isole. Forse nessuno le ha mai contate ma, una volta lassù, viene il sospetto che siano addirittura di più. Trenta dollari a testa (minimo due persone) sono pochissimi per un’emozione indimenticabile. Il mangrovieto assume dall’alto un fascino che non è possibile rendere con parole stampate sulla carta. Si può soltanto vedere con gli occhi e con la mente.

PleinAir 331 – febbraio 2000

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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