Gli ultimi Sanniti

Un viaggio nel cuore del Molise alla ricerca degli artigiani superstiti: gli ultimi veri Sanniti che, a dispetto del mondo esterno, continuano a coltivare le tradizioni locali: le stesse, in gran parte, dei fieri antenati che si batterono contro Roma.

Indice dell'itinerario

I Sanniti scomparvero dal Molise più o meno 20 secoli fa, massacrati fino all’ultimo uomo dai soldati di Roma perché, diceva Silla, “nessun romano avrebbe mai potuto vivere in pace finché i Sanniti avessero continuato a esistere”. Ci vollero tre guerre e una lunga storia di orrori perché lo sterminio fosse portato a compimento.I Sanniti erano guerrieri indomiti e fieri, valorosi, con sinistri elmi alati, incapaci di arrendersi persino alla morte, sepolti sempre con le spade sguainate semmai qualche romano avesse osato sfidarli nell’aldilà. Dicono che il loro spirito, per uno strano gioco del destino, non sia mai sparito dal Molise. E’ rimasto nell’aria, attaccato alle pietre, sulle ali degli insetti che ronzano a primavera nel vecchio teatro di Pietrabbondante. Paradossalmente il tempo trascorso sembra avere alimentato questa convinzione, soprattutto quando si passeggia da soli all’alba per le antiche strade di Sepino, in attesa che le prime luci del giorno si posino sul mausoleo di Ennio Marsio e poi entrino trionfalmente sotto la grandiosa porta di Boiano.
Dei Sanniti si sa poco, della loro vita non ci sono ricordi. Una parte del leggendario spirito guerriero potrebbe essere trasmigrata nei molisani di oggi che parlano poco e lavorano molto, in umidi garage o in piccole botteghe, sotto il sole dei campi o dentro a un’ombrosa fonderia, magari in attesa che il bronzo fuso coli nelle forme per dare la vita a una campana. Sono gli artigiani coraggiosi del terzo millennio, Sanniti dell’era moderna col volto fiero dei guerrieri di un tempo, razza gloriosa oramai sull’orlo dell’estinzione.
Per trovarli bisogna girare con pazienza nell’aperta campagna molisana, stanarli da loculi cittadini, riesumarli dagli scempi edilizi dei paesi, vagando a lungo nell’entroterra, a volte in luoghi così piccoli da non meritare neppure un nome. Ci siamo messi sulle loro tracce in compagnia di Nicola Di Niro, appassionato cultore della storia e delle tradizioni locali, compiendo un piccolo e tortuso viaggio nel tempo.
Un buon indizio nella ricerca è l’eco rassicurante dei piccoli rumori domestici che sino a pochi decenni fa si alzavano a profusione per i vicoli dei paesi, il tintinnìo del martello sull’incudine, il fruscio di un lesatore che fa il buco nel fuso di una zampogna, il rumore sordo dell’accetta contro un pezzo di legno. Un altro buon indizio sono le lunghe attese e i silenzi consacrati che precedono i miracoli, come per esempio il giorno della colata alla Fonderia Marinelli.
La Pontificia Fonderia Marinelli si trova ad Agnone e fonde campane da dieci secoli. I gesti e gli attrezzi da lavoro sono quelli di sempre. Le macchine sono le mani e l’attesa lo strumento. Il cervello filtra le passioni senza l’ausilio di computer o di supertecnologie. Ecco perché uomini e campane in punto di nascere si fronteggiano sempre nella penombra con grande rispetto. Basta un piccolo errore per compromettere mesi di lavoro. E questo alla fonderia lo sanno tutti, uomini e campane. Per costruire una campana occorre passare attraverso lunghe fasi di lavoro. Prima si fa l’anima di mattoni ricoperta d’argilla, la misurazione con la sagoma di legno, la falsa campana con gli stemmi e le iscrizioni, poi il mantello ancora d’argilla, l’essiccazione coi carboni ardenti, la cera che si scioglie, la distruzione della falsa campana, il bronzo fuso nei forni, infine il raffreddamento, la lucidatura e la rifinitura.
Il giorno della colata è però il giorno campale. Un rito collettivo di silenzio e d’attesa. L’ora in cui alla fonderia si respirano le pause di un’antica liturgia. Come nel profondo Medioevo, luci oblique filtrano delicatamente dai finestroni, illuminando un operoso universo di cose che si ha l’impressione resterà così per l’eternità.
Pasquale Marinelli è il “dottore” della fonderia. Vede nascere campane da cinquant’anni e regolarmente da altrettanti la vigilia della colata non chiude mai occhio. Si rigira nel letto immaginando il colpo secco del martello, il magma del bronzo fuso che scende a 1200 gradi nei canali d’argilla e l’urlo propiziatorio dei lavoranti, “Santa Maria”, un grido liberatorio di passione che si alza nell’aria insieme ai primi vagiti della campana che qui tutti chiamano “la voce degli angeli”. Ad Agnone c’erano a metà Settecento almeno dieci fonderie; oggi è rimasta solo la Fonderia Marinelli, che si fregia anche del titolo di “Pontificia” apparso nel 1924, quando Papa Pio XI concesse alla bottega il permesso di imprimere lo stemma di Sua Santità. Non lontano da qui, in una vecchia bottega sotterranea di Via Vittorio Emanuele, si può ascoltare ancora il battito del rame colpito da un piccolo martello.
Al piano superiore c’è un negozio moderno pieno di oggetti in vendita ma per respirare il passato bisogna scendere giù. Chi ci capita vedrà il vecchio Gino Cerimele, memoria vivente di Agnone, che siede incurvato sullo sgabellino di legno in una piccola stanza, tra la stufa e un grande piatto di carboni ardenti, circondato da un campionario di antichi strumenti costruiti personalmente da lui.
Gino Cerimele è l’ultimo ramaio del paese, leggenda storica di un’epoca di operosi artigiani (quasi 300 ancora negli anni Sessanta) che battevano il rame tutto il santo giorno inondando di echi squillanti i vicoli, compreso l’antico quartiere veneziano del paese. Gino incominciò la carriera cinquant’anni fa. Attraversava eroicamente l’Italia e andava a vendere tine (anfore) e marmitte di rame nientemeno che a Capri. Erano i tempi romantici e duri in cui le donne del Molise si mettevano la spara (un rotolo fatto con un pezzo di stoffa) sulla testa e così bardate, con la giara in rame in equilibrio sul capo, andavano ad attingere l’acqua ai pozzi e alle fontane.
Trent’anni soltanto sono bastati per uccidere un mondo laborioso di uomini e di cose. Nessuno se n’è accorto in questa folle corsa di navigatori virtuali. Nessuno che abbia pensato almeno ad un piccolo lutto cittadino. Così, quando anche Gino Cerimele smetterà di battere il martello, calerà per sempre il sipario e non ci sarà più nemmeno il tempo di capire. E non basteranno a consolare l’antico mondo molisano il canto di una zampogna o una di quelle vecchie canzoni che intonavano in dialetto le merlettaie di Isernia al lavoro, mentre muovevano freneticamente le tummarieglie (i tipici fuselli a forma di rullo) e il gomitolo girava inseguito dai gatti, scandendo le lunghe giornate della filanda. I pizzi e i merletti al tombolo, arte antica introdotta dalle Benedettine, erano il lavoro delle donne di Isernia che ogni tanto, ancora oggi, in estate fanno tintinnare i fusi del pallone, cuscino riempito di paglia, lungo le strade e nei cortili o davanti all’antica Fontana Fraterna.
Per trovare gli ultimi costruttori di zampogne bisogna invece dirigersi ancora più a ovest, salendo verso il piccolo paese di Scapoli per poi ridiscendere alla frazione Fontecostanza. Qui vive l’ultimo manipolo d’artigiani in grado di scegliere il legno adatto (ciliegio, mandorlo, ulivo) intuendone le venature e poi innestandoci dentro, come un’opera d’alta chirurgia, il cuore nobile e musicale della zampogna, la nota, protetta nel guscio della vornea.Il segreto di una buona zampogna, dopo il lavoro al tornio, è il buco che il lesatore, lungo e sottile “strumento di tortura”, praticherà nel fuso. Dal buco dei fusi e dall’abilità dell’artigiano dipende il suono che uscirà dalla zampogna, se darà melodie di brume celtiche o di campi molisani, se avrà un po’ d’anima nelle vene oppure no.
Tra gli ultimi costruttori di zampogne c’è Gerardo Guatieri, vecchia anima dell’Alto Molise che abbiamo incontrato in un gelido giorno di febbraio nel garage di casa, mentre portava a compimento la costruzione di una ciondolante zampogna modello “25 con chiave”. Terminata l’opera si sedette fuori a provare lo strumento, seduto tra le pecore e le nuvole, ricordando malinconicamente i tempi lontani di De Gasperi, quando gli zampognari del Molise erano così numerosi che questi decise di farli suonare solo a Natale perché il resto dell’anno dovevano pensare a lavorare. L’aria lasciava i polmoni, entrava nei fusi, gonfiava l’otre di pelle e poi ritornava alla canna con lunghissimi lamenti. E il suono di quella zampogna sembrava l’agonia di un altro mondo sulla via dell’estinzione.
Il nostro piccolo viaggio prosegue poi verso est e si conclude trionfalmente a Frosolone, il vecchio paese dei coltelli e dei coltellinai, gloriosa tradizione le cui radici affondano nel Medioevo, quando i signorotti locali imposero ai loro sudditi la fabbricazione di spade acuminate e di affilatissimi pugnali. Era un clima oscuro di terrore che non veniva mitigato nemmeno dall’aria frizzante di Colle dell’Orso o da una passeggiata rinfrancante nella faggeta di Monte Marchetta, cosa che oggi possono fare tutti in assoluta tranquillità, magari passando sotto la magica Morgia Quadra, processione di rocce modellate dal vento dove s’aggrappano con soddisfazione i colorati free-climbers del terzo millennio. Le cose a Frosolone incominciarono a migliorare solo molto tempo dopo, quando Carlo Borbone III decise con un editto che doveva essere solo il Ministro della Guerra a scegliere i luoghi di fabbricazione delle armi. Era più o meno il 1750 e in paese incominciarono a fiorire operose botteghe, dove artigiani d’ogni tacca smisero di fabbricare strumenti di morte e incominciarono invece a forgiare con arte sopraffina coltelli, forbici e rasoi.
Nel 1920 c’erano a Frosolone 86 artigiani, 26 coltellinai e 13 forbiciai. Poi piano piano tutto finì. Le botteghe chiusero e gli uomini se ne andarono lontano a cercare fortuna.
Oggi di quel mondo restano solo pochi ricordi, un’antica bottega con dentro ragnatele e attrezzi arruginiti, come quella rimasta intatta del defunto Filippo Piscitelli che la figlia Vittoria mostra sempre con piacere a chi chiede di vederla. Ma per quanto si giri per Frosolone la cosa migliore che può capitare è l’incontro col mitico Nicola Russo, altra memoria storica del Molise, arzillo novantenne che ha la bottega in Vico Municipio 9 e continua a fabbricare meravigliosi coltelli coi manici stilizzati in corno dalle forme più bizzarre: cannoni, rondini, farfalle. Al mio passaggio stava progettando la costruzione di un coltello a 12 lame a forma di aeroplano, di gondola e di pesce spada. Nella sua bottega erano esposte anche spade e lunghe scimitarre luccicanti, alte fino a un metro e mezzo, mostrate con orgoglio dal vecchio Nicola, casomai qualcuno ne avesse voluta acquistare una in vista di tempi peggiori.

PleinAir 328 – novembre 1999

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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