Giganti verdi

Spettacoli e curiosità della botanica tra steppe e foreste degli Stati Uniti.

Indice dell'itinerario

Quando fu scoperta l’America, nel Rinascimento, le scienze naturali erano tenute in grande considerazione: le corti di tutta Europa gareggiavano nel raccogliere erbari, creare giardini botanici, mantenere serragli di specie esotiche con spese a volte pari – se non superiori – a quelle dedicate alle collezioni d’arte. Il Nuovo Mondo creò dunque grandi aspettative, che però andarono presto deluse quando i primi esemplari della fauna americana furono portati nel Vecchio Continente: il pangolino e il formichiere sembravano ibridi mal riusciti, il tapiro una misera copia dell’elefante, i bisonti, gli alligatori e gli uccelli corridori delle pampas sudamericane erano assai più piccoli dei bufali, dei coccodrilli e degli struzzi africani, giaguari e puma non potevano rivaleggiare con leoni e tigri.
Superato il primo impatto, furono i botanici a rivalutare la natura americana. Molte specie vegetali – in special modo quelle che ancora oggi troviamo nella parte occidentale degli Stati Uniti – si sono infatti evolute in veri giganti, almeno a paragone con gli equivalenti europei, e non occorre certo avere l’occhio dello studioso per apprezzarne la grandezza. Il primo e immancabile incontro è con le sequoie, non solo gli alberi più alti del pianeta ma le più grandi creature viventi in assoluto: la cosa sorprendente è che sono perfettamente proporzionate e da lontano non rendono affatto l’idea delle loro dimensioni, apparendo come semplici conifere alte e slanciate, cosicché bisogna arrivarci sotto per capirlo. I turisti, di solito, si recano nel Sequoia National Park per vedere (ma non toccare, perché spesso non è consentito) gli esemplari storici più famosi come il General Sherman, che ha un diametro di oltre 9 metri ed è alto quasi 90, con un’età che supera i 3.000 anni. Più interessante la Giant Forest, dove si può camminare liberamente lungo sentieri che attraversano boschi in cui ci si sente Pollicino accanto a tronchi che hanno comunque un diametro di 6 o 7 metri: battendovi sopra la mano si percepirà un suono rimbombante come quello di un tamburo, dovuto alla spessa e spugnosa corteccia isolante in grado di difendere l’albero dagli incendi del sottobosco. Per la medesima ragione i rami cominciano a crescere molto in alto, fuori dalla portata delle fiamme.
Tra Los Angeles e Las Vegas, sotto un implacabile sole desertico, la Mojave National Preserve è uno dei rari luoghi in cui vivono le yucche giganti. Il bosco, già ai lati della strada, appare rado come se gli alberi non gradissero un’eccessiva vicinanza, ed è proprio così: il vantaggio di farsi ombra a vicenda è infatti minimo in specie che hanno imparato a trattenere l’umidità all’interno di foglie coriacee, mentre è feroce la competizione delle singole radici nel prelevare la poca acqua disponibile nel terreno. I fiori sono rari, perché la yucca ha bisogno di parecchi anni di riposo tra una fioritura e l’altra, mentre i frutti – simili a piccole banane – sono il cibo principale di molti animali del deserto. Alcune yucche hanno più di due secoli: per farsi un’idea dell’età non si deve però osservare la dimensione del tronco bensì le ramificazioni, che sono tanto più numerose quanto più è vecchia la pianta. Da Phoenix, scendendo quasi al confine con il Messico, si trova l’Organ Pipe Cactus National Monument, habitat dei cosiddetti cactus a canne d’organo e di altre 28 specie, tra cui i fichi d’India e i maestosi saguaro. Sono questi i cactus per eccellenza, vere colonne vegetali che ben conosciamo da fumetti e film western: a loro è dedicato il Saguaro National Park, intorno alla città di Tucson (ce ne sono talmente tanti che le villette della periferia ne sono letteralmente circondate). Al contrario delle yucche, questi cactus crescono anche vicinissimi e la ragione sta tutta nella diversa strategia di sopravvivenza: pur raggiungendo altezze di oltre 15 metri, hanno radici minime – tant’è che il forte vento può farli cadere – e prendono l’acqua, anziché dal terreno, direttamente dalle poche piogge, assorbendola attraverso i tessuti e immagazzinandola nelle loro cavità fibrose. Un solo acquazzone può significare un bottino di centinaia di litri, e basta misurare la circonferenza di un saguaro prima e dopo un temporale per vedere la differenza di dimensioni; un buon prelievo può significare per la pianta anche un intero anno di vita (gli indiani ben conoscevano questa proprietà e, se si trovavano nel deserto senza un’adeguata scorta idrica, prelevavano piccole quantità di liquido dai saguari). Le spine proteggono il tronco da quasi tutti gli animali, ad eccezione dei picchi che vi scavano il nido; quando lo abbandonano, alla fine della stagione riproduttiva, la cavità viene occupata da civette, gufi nani o altri uccelli. I fiori, a primavera, sono color crema e ricchi di un polline denso e viscoso, che non può essere trasportato dal vento: si aprono solo all’imbrunire, perché usano come impollinatori i cosiddetti pipistrelli messicani dal naso lungo. I frutti color rubino maturano alla fine dell’estate e gli abitanti del luogo, gli indiani Tobono O’odham, li raccolgono per farne succhi e marmellate.
Meno spettacolari ma non meno interessanti sono altri ambienti botanici che caratterizzano il paesaggio di altri parchi statunitensi. Nella Monument Valley, ad esempio, vale la pena dedicare un minimo di attenzione alla magnifica steppa che ricopre le valli tra una formazione rocciosa e l’altra: le piante sembrano giovani ma è solo un’impressione, trattandosi al contrario di veri “bonsai” che rimangono bassi a causa della cronica mancanza d’acqua, ma con cespugli che possono avere più di un secolo. Il trucco consiste nell’addormentare ogni funzione vitale durante la siccità, aspettando di risvegliarsi alla prima pioggia.
Panorami lunari si trovano anche sulle Channel Islands, il piccolo arcipelago di fronte a Los Angeles. L’isola di Anacapa, la più accessibile, è ricoperta da una suggestiva distesa di euforbie dal tronco grassoccio e robusto, con foglie rade e stente sulla sommità. Una formazione vegetale fitta e compatta per resistere ai forti venti salmastri dell’oceano nel quale passano, durante l’inverno, le balene provenienti dalle gelide acque dell’Alaska: ancora una volta, la natura si esprime in grande.

PleinAir 395 – giugno 2005

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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