Fuorirotta trapanesi

Erice e Rocche di Cusa, due luoghi da non mancare sull'atlante storico della Sicilia

Indice dell'itinerario

L’estate in cui percorremmo in bicicletta il periplo della Sicilia ci toccò affrontare più di una salita, e anche impegnativa. Ma in un caso dovemmo arrenderci: il nido d’aquila che avrebbe costituito la “Cima Coppi” dell’itinerario misurò i nostri limiti, perché salire ai 751 metri di Erice dal livello del mare, in soli 14 chilometri e sotto il sole d’agosto, non è proprio uno scherzo. Ci saremmo tornati anni più tardi, in primavera e questa volta in camper.
Erice, che si raggiunge da Trapani seguendo una bella e panoramica strada a tornanti, è giustamente famosa per almeno due motivi: la Fondazione Ettore Majorana, dedicata al grande fisico misteriosamente scomparso nel 1938 e oggi sede di importanti convegni scientifici internazionali, e il patrimonio monumentale di inattesa ricchezza e complessità. Mura ben conservate, il cui primo impianto elimo-punico risale all’VIII-VI secolo a.C., rendevano inespugnabile l’acropoli; in età normanna vennero completate aggiungendo le tre porte denominate Trapani, Carmine e Spada. La cinta fortificata abbraccia il nucleo antico di forma triangolare che culmina a sud-est nel Castello di Venere (così chiamato perché eretto sui resti di un tempio dedicato alla Venere Ericina) e nelle vicine Torri del Balio. I giardini ottocenteschi in stile inglese che fanno parte del complesso si devono al conte Agostino Pepoli, il quale fece parzialmente ricostruire le torri e dispose la costruzione, su proprio disegno, della Torretta Pepoli Balio, in forme che ricordano l’architettura moresca. Il vertice dell’abitato che guarda verso nord è invece occupato da un gruppo di edifici che comprendono la chiesa di Sant’Antonio, fondata nel XIII secolo ma largamente rimaneggiata, l’adiacente Sant’Orsola del XV secolo, in cui sono conservati i gruppi processionali dei Misteri, e i resti del cosiddetto Quartiere Spagnolo, che nel ‘600 avrebbe dovuto ospitare una guarnigione di stanza in città ma non venne mai completato. L’ultimo angolo, corrispondente all’accesso di sud-ovest dove si apre Porta Trapani, è segnato dalla presenza della Chiesa Matrice, realizzata in stile gotico nel 1314 e di poco successiva alla torre che ne divenne poi il campanile. Fra le numerose altre chiese, quindici in tutto, è d’obbligo citare almeno San Giovanni Battista, con il bel portale duecentesco, e le coeve San Giuliano e San Cataldo, del XIV secolo.
Famosi sono anche i panorami che si godono da quassù, a patto di capitare in una giornata limpida. A noi, dopo una serata magica su e giù per vicoli deserti e un pernottamento tranquillo subito fuori le mura, accadde però di risvegliarci in un banco di nebbia che, ci dissero, nelle mezze stagioni non è infrequente da queste parti. Prima di tornare a valle ripetemmo il giro dei vicoli scoprendo, passo dopo passo, l’acciottolato sempre diverso della pavimentazione, ultimo piccolo dono che ci ripagò delle viste mancate.

La fabbrica dei templi
Inesorabili i secoli distruggono ciò che l’uomo ha creato, quando non è l’uomo medesimo, con guerre o vandalismi, ad accelerare il corso del tempo. Di tanto passato restano così le rovine, spesso affascinanti nel loro abbandono fra rovi ed erbacce; e laddove l’area non sia stata recintata e sistemata, diventando sito archeologico, il turista si immedesima in colui che per primo scoprì il luogo. Dopodiché sorge il dilemma: lasciare tutto come si è trovato oppure ricostruire? La questione divide storici e archeologi, soprattutto nel caso in cui i pezzi, per quantità e stato di conservazione, si possono ancora incastrare gli uni con gli altri come in un gigantesco puzzle tridimensionale.
Ma quei cilindri spezzati, che abbiamo visto a terra immaginando di ricomporli in una colonna, a volte vivono altrove. E’ il caso di un’antica miniera a cielo aperto in cui le pietre venivano estratte e, già sul posto, ridotte alle forme necessarie per completare una fabbrica. Si tratta delle cosiddette Rocche di Cusa (in loco sono denominate anche Cave) che erano destinate a completare edifici e templi della non lontana Selinunte, la celebre città della Magna Grecia che tuttora costituisce uno dei principali motivi di richiamo dell’intera Sicilia. I reperti, di dimensioni impressionanti, formano una sorta di labirinto in cui ci si muove come fra gole naturali. Una rocca è in realtà ancora unita alla pietra da cui stava per essere separata, ed è qui che si scoprono i segni della storia: i Cartaginesi, nel 409 a.C., assalirono e distrussero la colonia, e di certo da Selinunte l’allarme giunse fino alla cava, determinando l’interruzione dei lavori e la fuga degli operai. Si prova l’identica emozione che ci coglie a Pompei, dinanzi a un’intera città sorpresa dall’eruzione del Vesuvio e immortalata nel suo quotidiano dalla lava che ne ha stampato le forme. Qui alle Rocche di Cusa sono rimaste solo pietre, o meglio frammenti di templi che non ci fu modo di assemblare e neppure di trasferire, ma la suggestione è comunque notevole e vale senz’altro la breve deviazione da Campobello di Mazara, una settantina di chilometri a sud di Trapani.

Testo e foto di Luigi Alberto Pucci e Ivana Ricci

PleinAir 442 – Maggio 2009

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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