Fuochi di Sant'Antonio

In onore del santo, a metà gennaio un antichissimo rito si rinnova a Fara Filiorum Petri, piccolo paese ai piedi della Maiella. Tra fiamme, suoni e canti vanno in fumo enormi torce di canne, le farchie.

Indice dell'itinerario

L’antica magia delle farchie si compie in una sera di gennaio, quando l’ultima luce del crepuscolo ha abbandonato i boschi e le nevi della Maiella. Sono le sette o giù di lì, fa un freddo cane, per l’ultima ora o poco più un grande spiazzo alla periferia del paese si è trasformato in un operoso alveare. Una dopo l’altra le dodici farchie (una per ogni quartiere o frazione), trainate fin qui dai trattori, sono state controllate con meticolosa attenzione e poi innalzate a forza di braccia. E ora rivelano le loro imponenti dimensioni: formate da canne legate con rami di salice e corde, queste gigantesche torce superano – una volta sistemate in verticale – i dieci metri di altezza. Per un’ora la fatica degli uomini sulla piazza è stata accompagnata da un brusio ininterrotto, dall’andirivieni dei curiosi, dai flash delle macchine fotografiche, dagli applausi che si alzano all’arrivo di un fiasco di vino. Che fossero contadini, muratori, impiegati, operai, gli uomini di Fara Filiorum Petri hanno lavorato con brio. Poi è sceso un silenzio irreale.
A romperlo, all’improvviso, sono una raffica di botti e una cascata di scintille. Di colpo, da una delle farchie, arriva una scarica di piccole esplosioni, simile a una salva di mortaretti. Il pubblico del paese applaude, tra i forestieri colti di sorpresa si sente qualche urlo spaventato. Quando il fuoco arriva alla sommità, l’intera cima della torcia prende fuoco innescando a sua volta altri fuochi che partono in tutte le direzioni. Poi, una dopo l’altra, anche le altre farchie vengono date alle fiamme. In dieci minuti, dal silenzio e dal buio, lo spiazzo alla periferia di Fara passa alla luce, all’entusiasmo, alla baldoria. Le cascate di scintille delle farchie piovono verso il suolo e il pubblico, fisarmoniche e organetti (i ddu’ bbotte della tradizione abruzzese) iniziano a suonare festosi, grida, canti e applausi aumentano di intensità e di volume, l’allegria generale sottolinea che questo è il momento clou della festa. Facendo attenzione al fuoco (qualche pezzo di canna in fiamme può sempre cadere dall’alto) i paesani di Fara Filiorum Petri camminano tra le farchie accese, si scambiano impressioni sulla loro costruzione, salutano gli amici, i compaesani, i parenti. Anche i bambini, passato il timore iniziale, si rincorrono fra le torce fiammeggianti. Poi il rumore dei mortaretti finisce, le cascate di scintille si spengono, le farchie continuano a bruciare con minor vigore: la festa non è ancora finita, ma l’atmosfera inizia a tornare verso la normalità.
Piccolissimo centro ai piedi del gigantesco versante orientale della Maiella, Fara Filiorum Petri è circondata da campi e da alti calanchi argillosi. Chi percorre la superstrada da Chieti a Guardiagrele la degna di uno sguardo veloce, poi prosegue senza fermarsi verso i boschi, le piste da sci e i sentieri della montagna madre d’Abruzzo: ma il 16 gennaio, all’improvviso, il paese ridiventa quel crocevia di popoli e storia che è stata per quindici secoli e più. La stessa denominazione di Fara, sinonimo di abitato o villaggio, ne rivela – come per la vicina Fara San Martino, o per Fara Sabina nel Lazio – la chiara origine longobarda: ma il villaggio dei figli di Pietro celebra con un nome arabo (afac, che significa fascio di canne o torcia) questa festa mediterranea antichissima, oggi dedicata a Sant’Antonio Abate.Secondo una tradizione diffusa, la ricorrenza delle farchie risale al 1799 quando il santo, per salvare Fara Filiorum Petri dalle truppe francesi, trasformò le querce di un vicino boschetto in gigantesche torce che spaventarono e misero in fuga i nemici. La presenza di riti simili in buona parte del Mediterraneo e d’Italia (ad esempio si chiamano faoni a Norcia, sui Monti Sibillini, e fracchie a San Marco in Lamis sul Gargano) suggeriscono però che l’origine della festa sia molto più remota. Come altri santi molto venerati nell’Appennino, da San Michele Arcangelo a San Domenico Abate (celebrato nella festa dei serpari di Cocullo), Sant’Antonio Abate protegge dal male il mondo dei contadini e dei montanari. In suo onore, il 16 gennaio, in decine e decine di paesi si portano in processione gli animali domestici o si accendono falò nelle strade. Il suo culto protegge dagli incendi dei boschi ma anche da quelli del corpo, a iniziare dal fastidiosissimo herpes zoster (popolarmente conosciuto come fuoco di Sant’Antonio).
A Fara Filiorum Petri, qualche giorno prima della festa, tutti i quartieri e tutte le frazioni (Fara Centro, Colle San Donato, Giardino, Mandrone, Pagnotto, Piane, Via Fuori Porta, San Nicola, Campolungo, Via Sant’Antonio e Sant’Eufemia) iniziano a costruire la loro farchia; la contrada di Via Madonna del Ponte, per antica tradizione, partecipa alla celebrazione con due torce. In passato era ammesso procurarsi le canne rubandole alle contrade rivali, una pratica oggi scomparsa: ma fin dai primi giorni di gennaio, mentre gruppi di giovani battono la campagna (in particolare le rive del fiume Foro) per procurarsi la materia prima, altri provvedono a custodire il tesoro raccolto.Le farchie vengono costruite issando fasci di canne intorno a un palo che funge da anima. Quando la farchia è completa, l’intera struttura viene strettamente legata con rami di salice rosso, poi viene rifinita con l’inserimento di fuochi d’artificio e mortaretti. Le farchie migliori hanno forma perfettamente cilindrica, e quando una riesce male i compaesani sfottono gli autori dicendo a fatte le panze .
Dopo essere state completate, le farchie vengono trasportate allo spiazzo dove si celebra la festa, accanto al quale sorge una chiesetta dedicata a Sant’Antonio Abate. In passato venivano trascinate a braccia o trainate su dei carri: oggi si usano i trattori ma l’atmosfera è rimasta festosa e, come in passato, i suonatori di organetto si esibiscono in antichissimi inni che ricordano episodi leggendari della vita del santo.Seguono l’accensione delle farchie e il momento culminante della festa. Quando il fuoco ha finito di consumare le grandi torce, la celebrazione si sposta nel paese. Frazione per frazione, gli abitanti di Fara Filiorum Petri si radunano intorno ai resti della propria farchia, ne raccolgono i tizzoni spenti e li conservano come preziose reliquie. Ai piedi della Maiella, anche la cenere rimasta può servire a proteggere i campi, le case e la gente dalle tempeste, dagli incendi e dalle malattie degli animali domestici.

PleinAir 365 – dicembre 2002

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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