Fuochi di primavera

Sull'Appennino Forlivese, a Rocca San Casciano, la festa di San Giuseppe viene celebrata con l'accensione di due immensi falò. E prendono fuoco anche gli animi nella storica rivalità tra i rioni del paese.

Indice dell'itinerario

A Rocca San Casciano, nel cuore dell’antica Romagna toscana, la passione per i fuochi in onore di San Giuseppe è così grande che subito dopo la guerra, quando i botti per la festa non si trovavano, un tal Cassiano Garzanti fu preso da struggente nostalgia e lanciò una bomba a mano nelle acque del Montone. L’esplosione fece tremare i muri delle case e frantumò i vetri: le schegge arrivarono fino a Piazza Garibaldi, spaventando a morte i vecchi che giocavano a carte al bar Stella. Niente male per una tradizione le cui origini si perdono nella notte dei tempi, nata per celebrare il santo falegname che, pur definito “l’uomo del silenzio”, si vede onorare con tanto fracasso.
La sfida tra i rioni del paese, Borgo e Mercato (l’altro storico quartiere, il Buginello, ha da tempo abbandonato la competizione), consiste nell’allestire giganteschi pagliai sulle rive del fiume, costruiti assemblando giorno dopo giorno tonnellate di ginestre tagliate nella campagna, per poi bruciarle in un grande rogo che segna l’inizio della primavera.
Fino agli anni ’70 una giuria proclamava vincitore il falò che alzava le fiamme più alte e maestose, durava più a lungo e non smucchiava, cioè non disperdeva le proprie ceneri al di fuori della circonferenza della pira. Il guaio era che i rioni non accettavano pacificamente il responso, producendosi in sanguigne sfuriate romagnole, al punto che i poveri giudici venivano spesso inseguiti lungo le strade per essere presi a legnate finché intervenivano i Carabinieri per sedare risse ormai passate alla storia. La faccenda raggiunse una tale gravità che alla fine si decise di abolire la giuria: e oggi, senza vincitori né vinti, la festa si svolge ben più tranquilla, anche se l’ira funesta dei rocchigiani cova ancora latente sotto le ceneri fumanti dei falò.
Si tratta insomma di una ricorrenza talmente sentita dalla popolazione da rendere comprensibile persino il gesto sconsiderato del Garzanti. La festa del resto non si era interrotta neppure negli anni bui della guerra, quando la linea del fronte passava proprio sul ponte del paese e i cannoni, quelli sì, tuonavano sul serio: i più anziani ancora ricordano che nel 1942 e nel 1943 i pagliai furono incendiati a mezzogiorno perché di sera c’era il coprifuoco, mentre nel ’45 gli Alleati permisero l’accensione di un unico falò, quello del rione Mercato, messo su alla buona con quello che si trovava, fascine, pezzi di legno, carta e gomme bucate. Fu forse il fuoco più piccolo e modesto mai allestito, ma bastava per segnare il ritorno alla vita.
Al termine del conflitto, finalmente, i rocchigiani si riappropriarono della festa e ripresero a farsi la loro guerra personale, quella che da tempo immemorabile combattono a suon di colpi bassi, onte imperdonabili, risse e sabotaggi. La rivalità che li divide, come l’appartenenza familiare all’uno o all’altro rione che non si dimentica nemmeno se si va ad abitare in quello “nemico”, è fonte di aneddoti di ogni tipo: durante la festa può succedere che moglie e marito di fazioni opposte non si rivolgano la parola nemmeno dentro casa, e sino a non molto tempo fa c’erano donne che si guardavano bene dall’andare a fare la spesa nel quartiere rivale. Per non dire dei saluti: nei giorni del falò la gente si guardava in cagnesco e, ricorda qualcuno, «ci volevano almeno due settimane per tornare a dirsi a denti stretti buongiorno e buonasera». Alla regola non sfuggivano nemmeno i defunti, tanto che i carri funebri erano fatti oggetto di terribili offese quando passavano sotto le finestre di una casa dell’altra consorteria.Quanto alle remotissime origini della festa, risalgono alla consuetudine agreste di accendere fuochi propiziatori per ingraziarsi la natura e avere messi abbondanti. Fino a pochi decenni fa, intorno a Rocca San Casciano, non c’erano aia, campo o cortile che non avessero il loro fuoco rassicurante e divinatorio, in base al quale i vecchi predicevano l’andamento dei raccolti.
Il taglio delle ginestre per costruire i pagliai comincia a febbraio e va avanti per un mese intero; in precedenza si lavorava anche per due o tre mesi, quando le pire arrivavano a un’altezza di 20 metri (ora le dimensioni si sono ridotte per ragioni di sicurezza). Ma oggi come una volta, durante i finesettimana d’inverno, i colli intorno al paese pullulano di gruppetti che armeggiano con coltelli e seghe a caccia di arbusti, in una sorta di spontanea festa agreste che avvicina i cuori e rinsalda le comuni radici… anche se il Borgo sta da una parte e il Mercato dall’altra, a debita distanza. Uomini, donne e bambini tagliano e trascinano rovi e ginestre per poi buttarle sui camion che fanno la spola da Rocca, accumulando via via il carico sulle rive del Montone. In passato, ovviamente, i camion non c’erano e i rioni trascinavano le pesanti balle a forza di braccia lungo la strada non ancora asfaltata, salvo doversela dare a gambe per sfuggire alle ire dei contadini poiché i rovi servivano a scaldare i forni per il pane e le ginestre ad allevare i bachi da seta.
Dopo qualche settimana, quando i rami occupano interamente le sponde del fiume arrivando fino al livello stradale, ha inizio l’assemblaggio delle pire che dura diversi giorni, sotto la guida dei capi che detengono il segreto della costruzione del falò. Le tecniche sono diverse: il Borgo costruisce il pagliaio alla romagnola, più voluminoso e a forma di panettone (che si dice produca il fuoco più spettacolare), il Mercato invece lo realizza in stile toscano, più alto, di forma conica (che invece avrebbe il pregio di non smucchiare le ceneri). In ambo i casi, a sostenere l’enorme massa di arbusti è la zerbela, un tronco di pino, abete o acacia che viene tagliato nei boschi del circondario e innalzato sul greto per mezzo di funi.
Completata l’opera, i due pagliai svettano giganteschi accanto alle acque del Montone, sorvegliati dai contradaioli con ronde notturne perché gli atti di sabotaggio non mancano mai. Le sentinelle dei due rioni passano insonni le notti che precedono la festa, all’erta come gatti, memori della volta in cui il pagliaio del Mercato non emise fiamme ma solo fumate nere sospette: accadde per via di un ignobile traditore, vendutosi al Borgo, che solo dopo aver bevuto un intero fiasco di vino confessò di aver approfittato dell’oscurità per mettere degli stracci inzuppati d’acqua tra i rovi, impedendo così al pagliaio del rione natio di bruciare.
Sabotaggi a parte, se tutto va come deve andare, intorno alle 20 del giorno campale si benedicono le torce nella chiesa di Santa Maria e poi si dà fuoco in contemporanea alle due gigantesche pire, che iniziano a consumarsi in fiamme alte come palazzi illuminando a giorno le case e riflettendosi nelle acque del Mugnone. Una folla immensa, come sempre, assiste allo spettacolo tra il rimbombo dei petardi e l’intrecciarsi dei commenti; subito dopo inizia la sfilata dei carri allegorici dei rioni – concessione più o meno inevitabile al moderno folklore – allietata da canti, balli e abbuffate, che viene replicata il pomeriggio del giorno dopo. Ma il vero spirito della festa è lì che si consuma negli ultimi bagliori di fuoco in riva al fiume: e tutti sanno che a Rocca San Casciano quell’antica passione per i falò non morirà mai.

PleinAir 404 – marzo 2006

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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