Frutti di stagione

A Solopaca, in provincia di Benevento, la seconda domenica di settembre è festa grande all'insegna dell'uva: una sfilata di carri addobbati con centinaia di migliaia di acini, un corteo storico in costume, un intero paese unito dalla celebrazione di quei frutti della terra da cui nasce uno dei vini più famosi del nostro Sud.

Indice dell'itinerario

Di ritorno da un lungo viaggio in India, Dioniso avanzava a bordo di un carro trionfale. Accanto a sé aveva la sua sposa Arianna che aveva tratto in salvo dall’isola di Nasso, dov’era stata abbandonata dall’irriconoscente Teseo dopo che il giovane re di Atene era riuscito ad uscire dal labirinto del Minotauro solo grazie al filo che la principessa gli aveva dato per ritrovare la via. Il carro procedeva scortato da elefanti e pantere, satiri e menadi danzanti al ritmo di cimbali e tamburelli, ed era decorato da tralci di vite carichi di magnifici grappoli d’uva. Si presentava così il dio dell’ebbrezza e del vino al suo ritorno nelle terre mediterranee: carico di quel dono che gli uomini avrebbero imparato a conoscere.
Come a voler ricordare il mitologico evento, ogni anno nei giorni che precedono la vendemmia il paese di Solopaca, cuore agricolo e operoso della Valle Telesina, mette in scena una sfilata che rimanda proprio al trionfo di Dioniso, pur se filtrato da duemila anni di cristianesimo. Accade precisamente la seconda domenica di settembre, quando la località del Beneventano festeggia la Madonna Addolorata con una processione tra il sacro e il profano che porta per le strade del centro storico la statua della Vergine ricoperta di neri chicchi d’uva. Sempre con gli acini sono realizzati i fantasiosi manufatti che sfilano insieme all’effigie mariana, unendo così diversi elementi del folklore contadino: non per niente la festa è un concentrato di quella cultura mediterranea incentrata sulla terra e sui suoi frutti.
Dice Gigi Dongiacomo, uno dei maestri carraioli: «Già alla fine della sfilata cominciamo a pensare a come dovrà essere il carro dell’anno successivo». In realtà la costruzione vera e propria inizia verso luglio, quando il solleone inonda di luce campi e vigne, ma nonostante la calura un’insolita energia anima ogni angolo del paese. E’ qui, nell’intimità di aie e cortili, secolari pensatoi popolati da aratri dismessi e galline starnazzanti, che prendono forma nella mente dei carraioli i futuri manufatti: una dozzina di carri in ferro, legno e cartapesta, pazientemente assemblati e provvisti di ingranaggi per il movimento delle figure. In questo periodo non ci sono nemmeno le fresche acque del fiume Calore, ridotto a un modesto rigagnolo, a dar vigore alla creatività intorpidita dall’afa. Eppure l’idea dev’essere partorita prima di Ferragosto per avere tutto il tempo necessario a mettere insieme le varie parti.
«Ci sono regole ferree da seguire – spiega Gigi – se si vuole assemblare un carro a regola d’arte». La prima e più importante stabilisce che i grappoli vengano raccolti con cautela, sulle colline intorno al paese, solo qualche giorno prima della festa: i chicchi d’uva, senz’altro il componente più originale e difficile da trattare, devono infatti essere freschi, integri e asciutti, al punto che in caso di pioggia può capitare che vengano asciugati con il phon. Accatastati con cautela intorno al carro nelle ultime fasi dell’allestimento, sono centinaia di migliaia, forse milioni, gli acini che non verranno trasformati in Solopaca, il sapido vino (oggi a denominazione di origine controllata) celebrato già da Orazio.
Durante la raccolta le strade intorno a Solopaca si trasformano in un viavai di carri, carretti e trattori stracolmi di grappoli, il cui profumo si sparge nell’aria in un’atmosfera d’allegria, e sono gli stessi abitanti a dire che questo è il periodo più bello dell’anno. «La festa dell’uva è il nostro Natale» proclama con voce quasi commossa Carmine Martone, decano degli allestitori e presidente dell’Associazione Maestri Carraioli. Intanto nelle botteghe, nei cortili, nei garage svuotati dalle auto si consuma il rito: qui si radunano i gruppi di lavoro, uno per ogni carro, formati da circa una dozzina di persone fra uomini e donne d’ogni età. Si va dai marmocchi dispettosi che rubano i chicchi appena fissati alla struttura, ai più anziani che con le mani tremanti tagliano pazientemente i tralci con le forbici. Per tutta la settimana che precede la giornata clou, quando il timore di non riuscire a completare il carro si fa più forte, si resta insieme quasi giorno e notte a prendere misure, a provare e riprovare meccanismi, a installare motorini elettrici. «Tutto ciò che si muove sui carri funziona a 12 Volt tramite batterie d’auto, non usiamo gruppi elettrogeni» continua Carmine. Si discute animatamente, a volte si litiga, ma alla fine dell’opera il legame che unisce il gruppo è più forte del collante adoperato per fissare i chicchi. E’ questo uno dei valori più importanti della ricorrenza: trasformare una sagra paesana in un momento d’aggregazione dell’intera comunità, come una sorta di grande famiglia allargata. La cosa interessante è che la partecipazione dei giovani alla costruzione dei carri è massiccia ed entusiasta: passano giornate intere a selezionare e incollare acini, con la schiena curva su pianali e tavolacci, rubando il tempo alla fidanzata e alla discoteca. Carmine può dormire sonni tranquilli: a Solopaca la continuità della festa dell’uva è assicurata.

Un paese al lavoro
Le origini della kermesse sono molto antiche, legate ai tempi lontani in cui si rendeva omaggio alle divinità agricole con offerte e riti propiziatori di un buon raccolto. Notizie più precise si rintracciano nella prima metà del ‘700 quando si celebrava la festa dell’Addolorata utilizzando i fondi raccolti dalla vendita all’asta di vari prodotti, uva in particolare, trasportati su barrocci trainati da buoi; fu così che si arrivò a decorare i carri con grappoli interi. Poi ci fu un lungo silenzio, la celebrazione finì nel dimenticatoio e si dovette arrivare al 1977 perché venisse riscoperta fra l’entusiasmo generale: era come se il paese avesse ripreso possesso delle proprie radici.
Il primo carro rivestito con chicchi d’uva fu realizzato nel 1982, e dalla crescente adesione dei carraioli desiderosi di sfilare con la propria creazione nacque anche l’esigenza di stabilire precise regole di allestimento. La struttura non deve superare i 4 metri d’altezza e i 12 metri quadrati di superficie, e inoltre almeno il 70% dev’essere ricoperto dagli acini: considerando che in una decina di centimetri ne entrano circa ottanta, non è difficile calcolare che per assemblare i carri servono intere tonnellate d’uva, anche a non voler considerare gli scarti.
Durante l’ultima, frenetica settimana tutto funziona come in una catena di montaggio. C’è chi va a raccogliere i grappoli, chi li trasporta al cantiere di lavoro, chi stacca gli acini, chi li seleziona in base a dimensione e sfumature di colore e infine chi li incolla alla struttura. Le varie famiglie si trasmettono di generazione in generazione l’onore e l’onere di costruire il carro, soprattutto quello dell’Addolorata, rivestito di chicchi scurissimi dalla famiglia Tazza. Quanto al tema dell’allestimento, varia ogni anno in base agli eventi e all’ispirazione: per il 2010 l’argomento prescelto si intitola “A spasso nel tempo”. Come ci spiega Carmine mentre si sposta da una cassa d’uva all’altra per controllare che tutto proceda come si deve, «vuol essere un invito per le nuove generazioni a spaziare con la fantasia, magari rivisitando in chiave moderna i carri delle passate edizioni».
Dopo essere stati parcheggiati all’ingresso dell’abitato, i carri che formano il corteo partono intorno alle dieci del mattino, scortati dalle autorità e dai gonfaloni dei paesi limitrofi. Dal 1998 si è aggiunta alla sfilata anche una rievocazione storica ispirata all’epoca dei Ceva-Grimaldi, potente famiglia che per quasi duecento anni resse le sorti della città dai tempi del capostipite Cristoforo, entrato in possesso del feudo di Telese e delle terre di Solopaca nel 1574, fino all’ultimo discendente morto nel 1764. Tra paggi, dame e cavalieri, sono centinaia le comparse in costume d’epoca, con un ricco seguito di musici e sbandieratori. Passano davanti a Palazzo Cutillo, edificio in stile neoclassico che ai primi del ‘900 era asilo infantile e luogo di assistenza per i bambini poveri: duramente colpito dal terremoto del 1980, dopo lunghi restauri è oggi sede di un bel museo enogastronomico, una sorta di viaggio nel tempo attraverso la cultura del vino e dell’alimentazione. Si va dalle nuove frontiere del cibo biotecnologico all’interessante sezione dedicata al falso alimentare, con una sorta di “pranzo degli orrori” che illustra al visitatore i pericoli della contraffazione dei cibi e le forme di illegalità legate all’argomento. C’è anche una nostalgica sezione dedicata alle storiche etichette alimentari del XX secolo, e a guardarle sembra di tornare all’epoca del Carosello televisivo. Dal terrazzino panoramico del palazzo si domina un magnifico panorama sul massiccio del Taburno e sulla Valle del Calore, dove appare chiaramente anche il moderno acquedotto di Solopaca, opera di transavanguardia dalle lucenti pareti blu firmata da Mimmo Paladino.
Ma i veri protagonisti della festa rimangono i carri, con il loro dolce e succoso fardello. Un irresistibile invito all’assaggio del nettare che se ne ricava, e che può essere comodamente acquistato alla Cantina Sociale in Via Bebiana. Qui ci si può rifornire di Solopaca nonché di Falanghina, Aglianico, Coda di Volpe e altri vini DOC o IGT. All’entrata c’è persino una sorta di distributore dal quale, nel giorno della festa, gli addetti riempiono di vino sfuso, a ritmo frenetico, taniche e damigiane al modico prezzo di circa un euro al litro. Chi scrive deve confessare a questo punto di essere astemio e non ha potuto giudicare, ma i pareri raccolti su vini e spumanti sono stati di grande apprezzamento.
Contagiati dall’euforia generale, si può infine compiere un piccolo tour delle cantine locali tra gli assolati vigneti carichi di grappoli (la vendemmia inizia di solito ai primi di ottobre), ad esempio la masseria Vigne Vecchie dove si produce vino biologico da uve raccolte a mano. Anche qui la scelta è vasta e di qualità, dalla Falanghina all’Aglianico passando per il rosso Solopaca, il bianco classico e il rosso superiore. Su quale di essi cadrà la vostra attenzione? Se siete indecisi potete pur sempre rifarvi all’opinione di Gioacchino Murat, generale francese, re di Napoli e grande bevitore di Solopaca, che paragonò la potenza di questo nettare alla vulcanica energia di suo cognato Napoleone. A meno di non voler prendere spunto da Ferdinando II di Borbone che, con scurrile franchezza, affermava: «A’ faccia d’o c…, Solopaca co’ ‘sto vino è cchiù ricch’e Napule!».

Testo e foto di Paolo Simoncelli

PleinAir 458 – settembre 2010

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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