Fantastiche Foreste

Antichi manieri in cui si aggirano misteriose presenze, splendide pievi che custodiscono tesori d'arte, caratteristici borghi circondati dalla natura di uno dei più bei parchi italiani, usanze e prodotti tipici pazientemente riscoperti per dare nuova vita alle comunità locali: ai piedi dell'Appennino Tosco-Romagnolo, l'Alto Casentino è il felice e accogliente scenario di un turismo itinerante dalle mille sorprese.

Indice dell'itinerario

La prima volta che dormì al castello di Porciano, nel 1978, alla contessa Martha Specht si gelò il sangue nelle vene: nella penombra una mano fece scivolare le lenzuola giù dal letto, mentre la voce di un’anima in pena reclamava cristiana sepoltura. Nemmeno la presenza della madre Flaminia Goretti de’ Flamini, che insieme al marito George Specht aveva avviato negli anni ’60 i lavori di restauro dell’edificio, bastò a dissipare le ombre della notte.
Eppure il maniero, a dispetto dei segni del tempo e dei lunghi assedi cui era stato sottoposto nei secoli, sembrava un luogo sereno. Dalla terrazza della torre merlata, la più grande di tutto il Casentino, la visione era incantevole: apparivano il sentiero che serpeggiava in salita verso il Lago degli Idoli, non lontano dalle sorgenti dell’Arno (qui sono state rinvenute oltre 500 statuette votive etrusche, alcune delle quali esposte al Louvre e al British Museum), e un vecchio albero di sorbo, oggi scomparso, sotto le cui fronde si ascoltava un’eco perfetta e cristallina capace di ripetere persino un endecasillabo, la famosa Eco di Porciano.
Nella sua stanza all’ultimo piano del castello, nominato per la prima volta in un documento del 1017 come una delle roccaforti della potente famiglia dei conti Guidi, Martha era sprofondata nella lettura delle Novelle della Nonna, tenebrosi racconti neogotici scritti alla fine dell’800 da Emma Perodi, una sorta di Edgar Allan Poe in gonnella del Casentino. La suggestione fu tale che ben presto la nobile ospite iniziò a percepire un’inquietante presenza: si trattava del fantasma di Amerigo di Narbona, protagonista di una delle storie più agghiaccianti della raccolta. E qui i fatti si confondono con la leggenda.
Era l’11 giugno 1289 quando i guelfi di Firenze, guidati appunto da Aimeric de Narbonne, si scontrarono con i ghibellini di Arezzo comandati dal vescovo-guerriero Guglielmo degli Ubertini. La memorabile battaglia (in cui combatterono anche Cecco Angiolieri e Dante, che poi ne scrisse nella Divina Commedia) si svolse nella piana di Campaldino, intorno a Poppi, proprio ai piedi del castello dei conti Guidi, simbolo del Casentino toscano. Tra cavalieri e fanti i caduti furono circa 2.000, perlopiù aretini, ed entrambi gli schieramenti persero i propri capi. Il corpo di Amerigo non fu mai ritrovato, ma perché guadagnasse il Paradiso occorreva che i suoi resti fossero ricomposti e sepolti: ed ecco il motivo per cui l’ombra del sire di Narbona apparve alla contessa.
Ai nostri giorni, immerso nella sua pace bucolica tra le pecore al pascolo e i concerti notturni dei grilli, il castello di Porciano conserva ai piani alti gli appartamenti con arredi d’epoca abitati dalla famiglia, mentre al pianterreno si può visitare un’interessante raccolta di ceramiche dal XIV al XVIII secolo, vasellame, monete e altri reperti emersi durante gli scavi degli anni ’60. Una vecchia fotografia mostra invece altri lavori voluti da Goretto Goretti de’ Flamini, nonno dell’attuale proprietaria, che nel 1913 fece legare intorno alla torre quattro robuste catene in ferro: un lavoraccio, e forse anche una premonizione. Nel 1919, infatti, il terremoto che rase al suolo il paese risparmiò solo la torre.

Il ferro e la lana
Il castello di Porciano è la prima visione che si presenta a chi, arrivando dal versante romagnolo, scende in Toscana lungo i 18 chilometri di curve del Passo della Calla. Se percorrete la strada di sera, è bene procedere con prudenza: gli incontri con daini e cervi che attraversano la statale 310 sono tutt’altro che infrequenti, e di recente è stata segnalata perfino la presenza di un orso.
Avvolte da un alone di mistero nelle ore di buio, con la luce del giorno le Foreste Casentinesi offrono un paesaggio in cui il verde regna sovrano per gran parte dell’anno: ma è l’autunno la stagione più affascinante, quando il fogliame è un tripudio di rosso e d’oro. Una visione incantevole che ci accompagna mentre ci dirigiamo verso il fondovalle dell’Arno per raggiungere Stia. In settembre, negli anni dispari, il paese ospita la Biennale Europea d’Arte Fabbrile, incontro internazionale dei migliori fabbri del continente che creano al momento vere e proprie opere d’arte. Per l’occasione Piazza Mazzini si trasforma in una sorta di antro del dio Vulcano dove si perpetua il connubio primordiale tra ferro e fuoco. La mostra-mercato occupa invece l’incantevole Piazza Tanucci, nascondendone al visitatore praticamente ogni centimetro: ma adesso, spenti i riflettori sulla manifestazione, si può ammirare a piacimento questo spazio architettonico triangolare con la fontana in pietra, le vecchie case, i portici e la Pieve di Santa Maria Assunta, bellissimo tempio romanico in cui si conservano una terracotta invetriata di Andrea della Robbia, una Madonna con Bambino della scuola di Cimabue e un meraviglioso trittico di Bicci di Lorenzo, l’Annunciazione. Se intanto i primi freddi cominciano a farsi sentire, niente di meglio di un caldo panno casentino in lana robusta e riccioluta a doppio strato. Una volta lo adoperavano monaci, contadini e anche i barrocciai per coprire i cavalli, poi divenne una sorta di status symbol tanto che persino Verdi e Puccini si avvolgevano nei mantelli dai tipici colori arancione e verde. Al piano superiore del negozio Tessilnova, in Via Sartori, c’è un piccolo museo che illustra la vicenda pionieristica del lanificio di Stia: foto in bianco e nero dell’impianto di fine ‘800 con i macchinari, oggetti della nonna e persino la campana che chiamava le maestranze al lavoro. Erano tempi duri di miseria e carestia, tanto che gli operai avevano creato una società di mutuo soccorso che fungeva da cassa comune per i più poveri. La fabbrica, dal canto suo, servì anche a migliorare la qualità della vita: ai primi del ’900 infatti fu installata nello stabilimento una grande caldaia, una rarità per l’epoca, grazie alla quale ogni sabato i lavoratori potevano farsi una doccia calda. Ciò che resta del diroccato lanificio in mezzo al paese è invece un ottimo esempio di archeologia industriale che nel giro di un paio d’anni dovrebbe ospitare il Museo della Lana e, nella parte più antica, la cosiddetta Fabbrica Beni, museo del ferro battuto con annessa scuola di forgiatura di livello internazionale.

In riva all’Arno
Da Stia, prendendo la tortuosa regionale 556 diretta a Londa, incontrerete dopo circa 4 chilometri la breve deviazione che porta al santuario di Santa Maria delle Grazie, consacrato nel 1432 dopo una miracolosa apparizione mariana a Monna Giovanna, una contadina locale. Nella casa a fianco risiede l’anziana custode, che apre le porte della chiesa ai visitatori già al mattino molto presto: rimarrete estasiati di fronte alle due meravigliose terrecotte invetriate robbiane attribuite a Benedetto Buglioni, la Natività e l’Apparizione della Vergine a Monna Giovanna.
Ancora una manciata di chilometri sulla strada principale, ed ecco l’indicazione per il Mulino di Bucchio. Un breve sterrato percorribile anche dai camper (che qui sono sempre i benvenuti, come del resto in tutto il Casentino) raggiunge il duecentesco opificio a ridosso dell’Arno, nelle cui acque troverete probabilmente a sguazzare il simpatico Spillo: si tratta di uno dei due cani di Carla e Claudio, i proprietari del mulino. Scartata l’ipotesi di un bagno nel fiume, qui limpidissimo ma gelido anche in piena estate, non mancate di dedicare la vostra attenzione agli antichi macchinari che per secoli hanno prodotto farina di castagna, grano, mais e anche biada per il bestiame; di particolare interesse il ritrécine, ovvero la ruota orizzontale che captava l’acqua e faceva girare le macine. Ormai tutto è immobile dagli anni ’60 quando andò in pensione il mitico Pietro Bucchi detto Pietrone il Filosofo, l’ultimo barbuto mugnaio con un’anima da eremita. Al piano superiore si trovano invece il vecchio forno in pietra e l’intatta cucina ottocentesca con il camino, il tavolaccio e le sedie di paglia: e può darsi che a questo punto la gentilissima Carla vi infligga il colpo di grazia servendovi bruschette condite con genuino olio toscano, sale e pomodori dell’orto.
Nell’edificio, oltre ad alcuni nostalgici reperti della civiltà contadina, c’è anche il vecchio registro di carico e scarico che riporta la data, il nome di chi portava il grano da far macinare e la quantità di farina ritirata. Ma il 12 novembre 1944 nessuno si recò al Mulino di Bucchio: quel giorno una divisione tedesca comandata da Albert Kesselring, come rappresaglia per un soldato ucciso, seminò il terrore in tutto il Casentino uccidendo senza pietà, di villaggio in villaggio e di casale in casale, 156 persone fra uomini, donne e bambini. Fu una delle stragi più efferate della Seconda Guerra Mondiale, e c’è di che riflettere prima di riprendere il viaggio.

Altri castelli, altri fantasmi
In questa piccola Scozia di Toscana, i castelli che via via si profilano all’orizzonte racchiudono altri misteri e leggende, e naturalmente fantasmi. Quello che infesta il maniero di Castel San Niccolò si chiama Telda ed è lo spirito inquieto della donna guerriera che nel 1440 comandava una delle guarnigioni contro l’assedio del feroce Niccolò Piccinino, inviato dai Visconti di Milano alla conquista dell’Italia centrale. Dopo la caduta del castello tutti gli occupanti furono massacrati, ma Telda fece una fine ancora più orribile: squartata viva da due cavalli in corsa.
Rimarrete sbigottiti ad ascoltare questi e altri racconti dalla voce di Giovanni Biondi, che nel 1970 ha acquistato ciò che restava dell’edificio e lo ha riportato a nuova vita dopo lunghi restauri. Accompagnandovi nella visita, vi mostrerà la corte interna, gli antichi disegni dei prigionieri, le sale al piano superiore con il piccolo museo, l’insolito affresco del ‘400 dove l’Arcangelo porta la novella della maternità a una Vergine che sembra già conoscere la notizia. Poi vi dirà del furto di reperti archeologici subito qualche anno fa, di una misteriosa statuetta acefala trovata nel giardino e soprattutto del profilo di donna dai contorni perfetti (forse la stessa Telda?) apparso sulle mura della sala del trono. Ai piedi del castello, vicino all’ex carcere, la cappella del Crocefisso conserva un affresco del ‘400 che, si dice, venne dipinto da un antico prigioniero servendosi di mollica di pane.
Poco più a valle, nel capoluogo comunale di Strada in Casentino, troneggia la millenaria pieve di San Martino a Vado, una delle più importanti chiese romaniche del territorio, probabilmente fatta costruire da Matilde di Canossa. Le colonne dai capitelli eterogenei sono opera di maestranze lombarde e scalpellini locali: una tradizione portata avanti dalle nuove generazioni che ha valso a questa località il titolo di Città della Pietra Lavorata. L’omonima grande mostra, anche questa in programma a settembre negli anni dispari come a Stia, trasforma il piccolo abitato in un museo a cielo aperto di artisti e scalpellini che lavorano in diretta la pietra serena. Continuando la visita si incontreranno la pieve di San Michele Arcangelo, le Logge del Grano (che in varie occasioni fanno da scenario a concerti e spettacoli) e le Panchine d’Autore, opera di diversi artisti.
Da qui al castello di Poppi si percorre una manciata di chilometri, ma se arrivate al mattino di buon’ora potreste anche non vederlo: a volte, infatti, quest’antica roccaforte dei Guidi è completamente celata dal tappeto di nebbia che ricopre la valle. Prima o poi, comunque, il sole dissiperà le nuvole e lascerà apparire il fantastico maniero, che fece da modello per la costruzione di Palazzo Vecchio a Firenze. Fra le sue molte peculiarità citiamo almeno la scalinata in pietra con gli originali ballatoi di legno, gli antichi stemmi delle famiglie dei Vicari, la cariatide del conte Simone da Battifolle in assetto di guerra e la cosiddetta colonna eccentrica, che sostiene il peso di tutta la struttura. Potrete inoltre visitare la Biblioteca Rilliana stipata da 25.000 antichi volumi tra incunaboli e manoscritti, la cappella privata dei Guidi con i dipinti trecenteschi di Taddeo Gaddi che fu discepolo di Giotto, il salone delle feste, le vecchie prigioni, l’enorme plastico della battaglia di Campaldino e, fino al 29 novembre, un’avvincente esposizione dell’illustratore Silvano Campeggi dedicata proprio a quell’epico scontro. Osservando i suoi lavori, carichi di potenza espressiva, non sembra poi così infondata la leggenda secondo la quale, nelle notti di luna piena, i cavalieri periti nella battaglia cercano di risalire le mura del castello. Ma qui si manifestano molti altri inquietanti segnali ultraterreni: la statua di Simone da Battifolle che ogni tanto si stacca dal muro alle spalle dei visitatori, il fantasma del Grifo, buffone di corte creduto morto che invece resuscitò, e quello della perfida Matelda, sposa di uno dei Guidi, che in assenza del marito attirava giovani amanti nel castello per soddisfare le sue bramosie, facendoli poi cadere da una botola in un pozzo rivestito di lame acuminate. Scoperta dal popolo e murata viva nella Torre dei Diavoli, dove morì di stenti, ancora oggi la perfida e sensuale contessa si aggira nelle sale in cerca di vittime, indossando una lunga veste a volte bianca, a volte nera.
Immune dalle apparizioni degli spettri è invece il castello di Romena, arroccato da mille anni sui colli alle porte di Pratovecchio con le tre imponenti torri superstiti (in origine erano quattordici), il cassero e tratti dell’imponente cinta muraria. Qui si rifugiò Dante dopo la battaglia di Campaldino e qui, intorno al 1280, forgiava fiorini falsi su istigazione di Firenze il Mastro Adamo, collocato dal Sommo Poeta nel girone infernale degli idropici. Con un salto nel tempo fino al XX secolo, troviamo fra gli illustri frequentatori del castello Gabriele d’Annunzio che nell’estate del 1902 vi soggiornò per più di tre mesi come ospite di Goretto Goretti, nonno dell’attuale proprietario. Il Vate si fece innalzare una tenda tra il cassero e la terza torre superstite e qui completò diverse poesie dell’Alcyone. Quando ne aveva abbastanza dei versi cavalcava nudo nella natura in groppa a Bucefalo, il fedele cavallo bianco, oppure raggiungeva l’amata Eleonora Duse che era ospite alla Cappuccina, una fattoria poco distante dalla pieve di Romena. A volte era l’attrice stessa a raggiungerlo al castello, seduta su soffici cuscini, a bordo di un carro trainato dai buoi lungo la mulattiera che portava dal fondovalle alla Fonte Branda. Comunque sia, entrambi avranno più volte osservato la millenaria pieve di San Pietro a Romena, gioiello romanico a tre navate con capitelli decorati da figure zoomorfe e antropomorfe; su due di essi, vicino all’entrata, appare il nome dell’antico committente, un tale Alberico che fece innalzare il tempio nel 1152 tempore famis, cioè in tempo di carestia. Bisogna invece raggiungere il centro storico di Pratovecchio per visitare la Badia di San Fedele, tempio romanico del 1195 in cui sono conservati i resti di San Torello, patrono del paese (se la trovate chiusa potete rivolgervi alla custode Marisa).

L’oro della terra
A una decina di chilometri da Castel San Niccolò, salendo nettamente di quota, Montemignaio si raggiunge con la provinciale 70 ed offre, oltre al vecchio borgo con i resti del castello, ancora una pieve dedicata a Santa Maria Assunta, edificata nel 1103; all’interno una splendida Madonna col Bambino di Giovanni Francesco Toscani e una terracotta invetriata del Buglioli, in cui la Vergine e il piccolo Gesù sono raffigurati con Sant’Antonio Abate e San Sebastiano. All’andata o al ritorno, in località Pagliericcio non fatevi sfuggire l’indicazione per il Mulino Grifoni, la cui attività è documentata fin dal 1548. I fratelli Fabrizio e Andrea Grifoni, bianchi di farina o con gli stivaloni alla coscia, vi illustreranno volentieri storia e funzionamento dell’impianto e vi spiegheranno che un mugnaio deve saper fare un po’ di tutto: il falegname, il muratore, l’agronomo, l’idraulico e anche lo scalpellino, perché ogni tre o quattro mesi la macina “perde il filo” e bisogna ribattere la pietra. Sono invece di legno i secolari ritrécini ancora perfettamente funzionanti, ma è praticamente impossibile vederli poiché l’accesso è molto difficoltoso e anche pericoloso a causa degli spazi ristrettissimi in cui sono collocati i meccanismi (il vostro reporter è riuscito a fotografarli solo con grande cautela).
A mo’ di eccellente consolazione, sopra i banconi sono orgogliosamente in mostra e in vendita granaglie e legumi genuini, ad esempio ceci, zuppe miste, lenticchie e talvolta i deliziosi fagioli zolfini del Pratomagno, insigniti della denominazione di origine protetta. Non è da meno l’ottima farina prodotta con le squisite castagne portate al mulino, adesso che è stagione, da “Quelli di Cetica”. Il curioso appellativo è presto spiegato: si tratta di un gruppo di persone appassionate della propria terra che, con il contributo di Comune, Provincia, Università di Firenze e della Pro Loco guidata da Mauro Mugnai, sono riuscite a salvare una comunità e un territorio destinati all’oblio, come tanti piccoli centri delle nostre montagne. Alcuni dei prodotti più profondamente legati alla cultura locale, che sembravano destinati a scomparire, sono stati recuperati e riproposti come specialità locali di qualità: e così Cetica, da paese fantasma quale rischiava di diventare, ha ritrovato le proprie radici ed è tornata a ripopolarsi.
La prima ad essere rivalutata è stata l’ormai celebre patata rossa di Cetica, che in passato era uno dei pochissimi mezzi di sostentamento della popolazione provata dalle guerre e dai rigidi inverni. Nel 2000 una brutta virosi l’aveva portata a scomparire quasi del tutto, ma grazie a un produttore che ne aveva conservato il seme è stato possibile salvare il tubero, che dal 2005 gode della tutela di un apposito consorzio. La festa in suo onore si tiene a luglio, poco prima del raccolto che quest’anno è stato particolarmente abbondante, coinvolgendo giovani e vecchi come l’arzillo ottantenne Pietro Cargi il cui padre, ci racconta, fu ucciso dai tedeschi mentre cercava funghi qui intorno.
Ma a Cetica non ci sono solo patate. Grazie all’impegno della gente e degli enti locali sono stati trovati fondi per restaurare un ponte romanico e sono stati rivalutati antichi mestieri come il carbonaio (a cui sono dedicati un ecomuseo e un suggestivo allestimento didattico). E ancora, sono stati intervistati gli anziani e spulciate intere biblioteche per riportare in auge i poeti estemporanei di un tempo, veri artisti popolari dell’ottava rima resa celebre dai poemetti del Boccaccio e tramandatasi fin dal Medioevo. Non mancano, ovviamente, i tesori d’arte che caratterizzano ognuno di questi paesi: qui si tratta della duecentesca chiesa di Santa Maria e San Michele, con la bellissima Madonna del Melograno del Cesellino, un Crocefisso ligneo dalle braccia snodabili della scuola di Donatello e la Vergine in trono di Bicci di Lorenzo.
Per entrare in perfetta sintonia con questo piccolo mondo antico, niente di meglio della sagra dedicata alle castagne che si svolge quest’anno nel primo finesettimana di novembre: potrete raccogliere i prelibati marroni locali, passeggiare nei boschi, assistere alla rievocazione della pestatura, partecipare a cene a base di prodotti tipici.
Ci saranno le musiche popolari del chitarrista Enzo Carro, napoletano trapiantato a Firenze, e naturalmente i canti in ottava rima, riesumati dai versi del defunto poeta dialettale Antonio Bettazzi. Poi, a sera fatta, potrete partecipare alla veglia nel seccatoio: era in questi rifugi secolari, mentre il fuoco prosciugava lentamente la castagna, che i nostri nonni si riunivano. Sarà un autentico salto nel passato, quando non c’era la televisione e lo stare in compagnia era un valore quotidiano. Nei seccatoi di Cetica la gente si raccontava di paure, gioie, dolori, chiacchierava di politica non meno che di patate, condivideva quel poco che c’era, e magari vedeva nascere nuovi amori. Ma l’amore più grande, forse, è quello dei casentinesi per il loro Casentino.

Testo e foto di Paolo Simoncelli

PleinAir 447 – Ottobre 2009

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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