Etruschi e medioevo

L'entroterra della Maremma grossetana offre mete di grande rilievo per le loro eccellenze storiche, naturalistiche e gastronomiche, da visitare con i modi e i mezzi del pleinair. Andiamo a scoprirli tracciando un classico anello che si dipana tra le colline attraverso borghi e paesaggi assai rinomati, ma sempre capaci di sorprendere il visitatore.

Indice dell'itinerario

Strana terra, la Maremma. Le grandi differenze che caratterizzano il suo territorio si cominciano a notare già nella parte più bassa, che un tempo era una distesa di paludi e che oggi vede la presenza di una sviluppata attività agricola. Le bonifiche hanno prosciugato i pantani dei butteri e hanno consentito di sconfiggere il flagello della malaria: l’ultima opera di risanamento, che tra il 1951 e il 1960 ha permesso di vincere la lotta contro la zanzara, ha creato un paesaggio che prima non esisteva, fatto di ampi coltivi pianeggianti con le case rurali tutte simili fra loro, forse un po’ grigie ma finalmente salubri. Dopo essere stata una terra dura e amara, per usare le parole di un celebre canto popolare, questa zona è divenuta una destinazione ambita dal turismo, scenario di rilassanti tragitti che corrono tra i campi verso il mare e il profilo dell’Argentario. Ma dove la pianura s’increspa nei colli inizia un ambiente diverso, popolato da millenni proprio perché più alto e più sano, dove ai pascoli e ai campi arati si sostituiscono vigneti, uliveti e boschi di querce.

I borghi degli Orsini
La vecchia statale 74 Maremmana, oggi declassata a strada regionale, lascia la Via Aurelia e la costa in corrispondenza di Albinia, poco a nord dello svincolo per Orbetello. Fra curve e salite si superano i minuscoli abitati che rispondono ai nomi bucolici di Sgrillozzo e La Sgrilla sino ad affacciarsi sul profilo delle case di Manciano, che raggiungiamo dopo una breve sosta al Caseificio Sociale. Nei tempi in cui la pianura era un luogo da evitare il più possibile per la presenza di pericolosi insetti e di baffuti briganti, il paese era il mercato principale per contadini e allevatori di una vasta area, compresa tra le valli dell’Albegna e del Fiora. Cresciuto attorno alla rocca costruita dai Senesi, il borgo si presenta con un ripido centro in cui la bicicletta è di casa nonostante le salite e le strade tortuose, e dove le presenze del passato sono narrate nelle sale del Museo di Preistoria e Protostoria della Valle del Fiora, che sfoggia le testimonianze di un lunghissimo periodo compreso fra il Paleolitico e l’affermarsi del dominio etrusco.
In un clima ormai differente da quello della fascia costiera, altre curve portano alle rive del Fiora, dove nei giorni più caldi si può tentare un bagno tra sassi e fronde. Il fiume venne usato per secoli come via di comunicazione, anche se è difficile crederlo guardando il suo corso stretto e sinuoso: su questa via d’acqua scendevano i minerali che gli Etruschi estraevano dalle pendici del Monte Amiata e inviavano verso la costa per la lavorazione artistica.
Esattamente in questo punto stiamo superando un confine: lasciate le colline arrotondate d’argilla e calcare, davanti a noi si spalanca la terra del tufo, che si svela con un grande coup de théâtre una volta raggiunta la chiesetta della Madonna delle Grazie. Su un imponente blocco di roccia, le grotte e le case di Pitigliano sono legate dal colore della pietra e dalla prospettiva verticale della rupe. L’abitato è una specie di fortezza naturale: due lati su tre del perimetro sono segnati dalle valli dei fiumi Meleta e Lente, mentre il terzo fianco, più corto, è sbarrato dalle mura di una fortezza. Quando gli Orsini entrarono in possesso del paese, dopo una disputa secolare tra le nobili famiglie della zona, trasformarono il castello in un palazzo che oggi mostra sia le mura medioevali, sia le modifiche rinascimentali; all’interno sono ospitati un museo che raccoglie antichità d’arte e artigianato e una piccola collezione archeologica. Ma gli Orsini non si limitarono ad abbellire la loro residenza e incaricarono Antonio da Sangallo il Giovane di progettare un acquedotto che portasse l’acqua in città. I lavori vennero però conclusi solo un secolo più tardi, quando la contea passò al Granducato di Toscana, ed ecco perché la struttura, i cui archi accompagnano dalla porta del paese fino alla Piazza della Repubblica, è intitolata ai Medici.
La disposizione urbana di Pitigliano è semplice: dai piedi della fortezza iniziano tre vie parallele che si dirigono verso il vertice della rupe, a forma di punta di freccia. L’antica Via di Mezzo, oggi Via Roma, porta fino al duomo, mentre la Via Zuccarelli conduce nel ghetto, noto come la Piccola Gerusalemme. Presente fin dal XV secolo, la comunità ebraica di Pitigliano crebbe dopo la cacciata degli ebrei da Roma nel 1569, poi declinò con l’emigrazione verso città più grandi come Firenze e Livorno, fino ad estinguersi nel buio periodo delle leggi razziali fasciste, quando i pitiglianesi fecero quadrato nascondendo tante persone nelle loro case e nelle campagne. Le tracce di questa comunità sono facili da scoprire tra le vie del borgo, dove diversi negozi offrono bottiglie di vino kasher (cioè prodotto seguendo i precetti religiosi ebraici) mentre alcuni forni vendono pane azzimo e specialità alla giudia: una di queste è lo sfratto, un dolce che ricorda l’editto con cui i Medici imposero agli ebrei della zona di lasciare le proprie case per trasferirsi all’interno del ghetto di Pitigliano. I messi si presentavano battendo sulle porte con un bastone la cui forma è ripresa nel dolce stesso, fatto di una pasta con miele e noci aromatizzata da scorza d’arancia e noce moscata.
Mentre per raggiungere il centro di Pitigliano si sale su una balza rocciosa, per spostarsi a Sorano la strada torna a scendere. Da un parcheggio si accede alla rocca, costruita dagli onnipresenti Orsini e trasformata dai Medici in una struttura militare adatta alle strategie imposte dall’avvento delle armi da fuoco. Per saperne di più si può visitare il museo ospitato nella fortezza, per poi affacciarsi sui tetti del paese al centro del quale si staglia l’enorme blocco di roccia del Masso Leopoldino. La stessa discesa, lunga e tortuosa tra vicoli e strade, termina in fondo all’abitato, davanti all’antica Porta dei Merli.
A pochi chilometri, isolata nella quiete dei boschi, la località Vitozza è una sorpresa da non perdere. Sulle pendici del lungo sperone di tufo che si sviluppa non lontano dalla frazione di San Quirico gli archeologi hanno trovato un insediamento rupestre, fra i più importanti ed estesi d’Italia dopo Matera e Pantalica, con circa duecento grotte scavate dall’uomo e abitate già in epoca etrusco-romana. Sul crinale si trovano invece i resti dell’abitato medioevale, in origine fiorente proprietà della famiglia orvietana dei Baschi, poi passato agli Orsini e infine distrutto dall’invasione senese del ‘400. La piacevole passeggiata che dal parcheggio segnalato conduce verso l’area archeologica è pianeggiante e un fitto bosco ombreggia la strada sterrata, comodamente percorribile anche in mountain bike. Raggiunta la biglietteria, si può consultare il materiale disponibile per saperne di più sulla storia del luogo e, volendo, si può seguire una deviazione che conduce al corso d’acqua e alle piccole cascate di un ruscello a fondovalle (chi opta per questa escursione tenga presente che richiede scarpe adatte a un sentiero sconnesso e pantaloni lunghi per proteggere le gambe dalla folta vegetazione). Dall’ingresso si sale verso il crinale, dove s’incontrano tre fortificazioni: la terza, così come la chiesa dedicata a Sant’Angelo, è quasi invisibile a causa del verde, qui davvero rigoglioso. Si distingue meglio la mole della Chiesaccia, l’edificio religioso più importante del borgo duecentesco. Seguendo ancora la sterrata si procede a mezza costa, sfiorando decine di imbocchi di grotte: targhe di ceramica ne illustrano la storia, anche se purtroppo alcuni vandali hanno distrutto tutto ciò che non era stato cementato. In questa direzione si incontrano in breve alcuni cartelli che conducono a una delle grotte adibite a colombario, come rivelano le decine di fori scavati sulle pareti per accogliere i volatili.

Scavate nella roccia
Una discesa, un ponte, una salita. Le strade sulle pieghe del tufo furono tracciate dalle popolazioni che si succedettero in questo territorio, ma non dagli Etruschi che segnavano invece le colline con le vie cave, profondi tagli verticali che corrono come piccoli canyon artificiali in una luce dominata dal verde delle fronde.
Scesi da Sorano, si prende per Sovana fermandosi dove i cartelli turistici indicano il belvedere di San Rocco. Oltrepassata la chiesetta, sulla sinistra si trova l’inizio di una via cava che dopo pochi metri di cammino in discesa su un tappeto di foglie si trasforma in un fantastico tracciato, inciso profondamente nella roccia. Dall’altro lato della cappella, tra querce e pietra traforata per far spazio ad antiche tombe, si giunge a un bell’affaccio sulla falesia di Sorano, la cui vista è disturbata solo dalla presenza di alberi che rivendicano il diritto al panorama.
Tornati alla strada e al gioco di seguire le curve del paesaggio, un tratto pianeggiante si snoda su un altopiano in direzione di Sovana. Sede episcopale fin dal IV secolo, il borgo (nel quale ebbe i natali Ildebrando, il futuro papa e santo Gregorio VII) fu capoluogo della contea degli Aldobrandeschi poco prima del Mille e questo lo fece divenire il centro più importante della Maremma. Ancora oggi, lungo vie e piazze del paese, par di sentire nelle pietre e nell’aria il soffio del passato. Dai resti della rocca aldobrandesca l’unica strada che attraversa Sovana, lastricata in cotto, porta alla Piazza del Pretorio su cui affacciano l’omonimo edificio, il Palazzo dell’Archivio e la Loggia del Capitano, oltre a diversi bar. La chiesa di Santa Maria Maggiore conserva resti di affreschi e un elegante ciborio dell’VIII secolo; al termine della via si trova la cattedrale dei Santi Pietro e Paolo, splendida nella sobrietà della sua architettura preromanica, che sorge a chiudere l’ultimo tratto dello sperone roccioso di Sovana. All’ingresso del duomo è presente una libreria fornita di testi sulla Maremma e sulla Toscana, mentre sul versante opposto della vallata, ai nostri piedi, emergono le pietre della più celebrata sepoltura etrusca della zona: la Tomba Ildebranda, del III-II secolo a.C., visitabile assieme alla vicina e profonda Strada del Cavone.
La via che senza fretta porta a Catabbio e poi nuovamente in direzione della costa – uno dei percorsi più belli della Maremma grossetana – raggiunge Saturnia, che tutti conoscono per il lusso delle terme e per il fascino un po’ anni ’70 di un bagno al chiaro di luna nelle vasche della cascata del Mulino; ma la località conserva anche un tratto dell’antica Via Clodia, accessibile dalla Porta Romana. Nella frazione di Montemerano sono due le glorie locali: il polittico di Sano di Pietro nella trecentesca chiesa di San Giorgio e i pochi tavoli affollati di gourmet del ristorante Da Caino, una delle glorie culinarie della Maremma. Il paese si trova sulla provinciale 159: seguendola in direzione nord-ovest le vigne diventano uno degli elementi principali del paesaggio fino ai 500 metri di quota di Scansano, dove l’aria è fresca d’estate e può essere gelida d’inverno. Il paese degli agricoltori e dei pastori è celebre soprattutto per il Morellino e molti negozi offrono, a fianco del rosso DOCG, assortite e caloriche delizie del territorio, con una certa predilezione per il cinghiale e i suoi derivati. Allestito di recente e in modo egregio nelle sale del Palazzo Pretorio, il piccolo museo archeologico custodisce numerosi reperti tra cui ciò che rimane dell’abitato etrusco di Ghiaccio Forte, distrutto dalle legioni di Roma nel 280 a.C.; non poteva mancare al piano interrato un’interessante esposizione dedicata alla vite e al vino, con una serie di utensili tradizionali utilizzati per la coltivazione e la raccolta dell’uva nonché per la vinificazione.
Dopo la discesa verso la torre solitaria della frazione di Pereta, andiamo a concludere il viaggio in direzione delle grandiose mura di Magliano in Toscana, edificate dai senesi che dopo aver conquistato molti borghi maremmani vollero dimostrare la loro potenza militare, oltre che economica. Oltrepassato l’arco della porta dedicata a San Giovanni, lungo il corso si alzano gli occhi sulla facciata del Palazzo di Checco il Bello, quindi ci si trova all’ingresso del Centro di Documentazione Archeologica, dedicato a diverse aree dei dintorni. Forma romanica, finestre gotiche e un tabernacolo trecentesco sono i motivi d’interesse di una visita alla chiesa di San Giovanni Battista; rintracciandone il parroco gli si potrà chiedere la cortesia di aprire la non lontana pieve romanica di San Martino, una ricerca che viene premiata dalla sorpresa di notevoli affreschi del ‘500. Accanto alla pieve, dalla porta omonima, si gode un panorama che non potrebbe essere più toscano di così: una cartolina di colline verdi incorniciate dall’arco dell’ingresso in città.
Sul far della sera, scendendo verso la piana dominata dall’altura su cui svetta il castello di Marsiliana, un po’ di attenzione è necessaria per trovare il cartello che sulla sinistra indica i ruderi di San Bruzio. Le volte a crociera della chiesa medioevale, che secondo alcuni studiosi non venne mai terminata, inquadrano un cerchio di cielo; gli uliveti e le vigne si stendono attorno a perdita d’occhio, separati dal verde scuro di tratti di bosco e macchia. E basta percorrere ancora una manciata di chilometri per scorgere il blu del mare, dove iniziano e finiscono tanti itinerari sulle sorprendenti colline della Maremma.

Testo e foto di Fabrizio Ardito

PleinAir 458 – settembre 2010

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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