Dove soffia lo scirocco

Tassello mediterraneo battuto dai venti d'Africa, Sant'Antioco è un concentrato di natura e storia sarda. Ci siamo andati in camper, e abbiamo trovato una felice sintesi di opportunità per apprezzarla anche a piedi, in bici e in kayak.

Indice dell'itinerario

Bastano cinque minuti di strada lungo lo Stagno di Santa Caterina per ritrovarsi a Sant’Antioco, isola-non isola che un istmo collega alla Sardegna sud-occidentale. Cinque minuti, forse anche meno, eppure quest’angolo di Mediterraneo conserva enigmi storici lontanissimi nel tempo, generati da un passato archeologico che ancora fa discutere. Già all’arrivo, i due menhir d’epoca neolitica conficcati all’inizio della lingua di sabbia rievocano l’antico interrogativo sull’origine del popolo sardo. L’isola poi è costellata di domus de janas, nuraghi, pozzi sacri e villaggi preistorici, anche se è famosa soprattutto per la più antica e grande colonia fenicio-punica della Sardegna. L’archeologia ufficiale sembra non avere dubbi: i due betili (pietre sacre) furono collocati dal popolo eneolitico sardo, nativo dell’isola, che aveva una tecnologia semplice ma un culto dei morti e degli antenati piuttosto articolato, tanto da creare appunto le domus de janas, camere sepolcrali scavate nella pietra, ed erigere i menhir, rappresentativi delle divinità maschili e femminili.
Nei secoli questa civiltà si evolvette in quella nuragica, iniziando a costruire le famose torri circolari e inumando i cadaveri nelle cosiddette tombe dei giganti. Ogni clan aveva il suo nuraghe che rappresentava il potere del gruppo (religioso o militare ancora non è certo); un popolo di pastori bellicosi, che si teneva ben lontano dal mare e non conosceva la navigazione. Arrivarono poi i Fenici dalla costa mediorientale e fondarono avamposti commerciali, importando la loro raffinata cultura e il culto di numerose divinità. Più tardi i Cartaginesi si sovrapposero ai precedenti occupanti, continuando però la medesima lotta contro il predominio della Magna Grecia e di Roma. Sarebbero state proprio queste due popolazioni a fondare l’antica acropoli, Sulkis, che ha lasciato al margine della città un’area di sepoltura tra le più originali di tutto il Mediterraneo settentrionale: ancora si discute se lo spazio sacro, il tophet, fosse destinato alle urne delle ceneri dei bambini morti in tenera età o ai giovani sacrificati alla dea Tinnit o Tannit e al dio Baal Hammon, ma è certo che il vicino cimitero ipogeo, trasformato in abitazione nel corso dei secoli, fosse destinato solo agli adulti.
Civiltà cittadina e abilità mercantile sarebbero insomma arrivate dalla vicina Asia e dall’Africa. Da qualche anno, però, vari studiosi si sono allontanati da questa teoria: se gli abitanti originari dell’isola non sapevano navigare, perché vi si trovano bronzi nuragici rappresentanti vascelli? E perché i neolitici-nuragici iniziarono a costruire torri imponenti e guerriere da una cultura di capanne, facendosi poi cacciare dai nuovi arrivati? Come mai scomparve il culto delle divinità prenuragiche? La possibile soluzione è intrigante: i nuragici sarebbero un ceppo semitico arrivato da Cipro portando con sé la tecnologia delle costruzioni di forma conica che si ritrovano nelle Cicladi, a Creta, in Puglia e nella stessa Sardegna, avrebbero inoltre importato il culto della Dea Madre e del dio Toro, che ben si sarebbe adattato all’ideologia dei pastori prenuragici, e infine – colpo di scena – i villaggi si sarebbero evoluti autonomamente in quelle città di commercianti e navigatori che gli archeologi hanno scambiato per colonie fenicio-puniche. I menhir maschili e femminili sarebbero comunque la rappresentazione delle due divinità, Tinnit un’evoluzione della Dea Madre e Baal Hammon dello spirito taurino. In qualunque modo siano andate le cose, la battaglia delle prosperose città nuragiche contro Roma, alla fine vincitrice, avrebbe fatto sì che le fonti classiche e imperiali da Cicerone in poi unificassero gli antichi Sardus ai cattivi, barbari e perdenti cartaginesi. A dimostrare che i fondatori di Sulkis e i nuragici sono la stessa gente resterebbero il nome del mare, chiamato Sardus sin dall’antichità, e innumerevoli coincidenze linguistiche tra l’area turco-cipriota e i toponimi locali.
Che si scelga la tesi ufficiale o quella più sfuggente e stimolante delle ultime versioni, a Sant’Antioco si trovano resti di ogni epoca. L’isola è un concentrato di Sardegna in formato ridotto, con il vantaggio di essere a portata di camper, bici e kayak. Dalla terra madre a cui è legata ha ereditato le acque cristalline, le coste di falesie color rosso fuoco o bianco abbagliante, le spiagge di sabbia candida, le calette riparate di ciottoli, gli scogli popolati da una variegata fauna subacquea. E non mancano grotte marine o terrestri, pascoli fioriti ondeggianti al vento e brulicanti di pecore, una tenace vegetazione costiera di piante grasse resistenti alla salsedine che ricorda certi paesaggi di quell’Africa non troppo lontana (ogni tanto il vento di scirocco ne trasporta da queste parti la polvere del deserto e il caldo torrido). C’è perfino la laguna, tipicamente sarda, di acque calme e salmastre in cui talvolta sostano i fenicotteri. L’artigianato vanta l’ultima custode della tecnica di tessitura del filo di bisso, e il folklore locale offre una processione in costume documentata fin da XVI secolo in onore del martire patrono più antico della Sardegna: quell’Antioco guaritore, originario della Mauritania, che ancora una volta rimanda ai legami con l’altra sponda del Mare Nostrum.

In camper
L’ingresso all’isola e alla cittadina di Sant’Antioco, che dà il nome anche al promontorio, avviene sul lungo ponte che separa la laguna dal mare aperto e che già esisteva in epoca romana, ma solo pochi cartelli lo segnalano. All’inizio dell’istmo, ancora sul versante continentale , ci sono i due menhir su Para e sa Mongia, il frate e la suora, ma anche queste due rappresentazioni dell’epoca prenuragica non hanno purtroppo l’attenzione che si meritano.
Il centro storico di Sant’Antioco va ad arroccarsi in cima a una collina, ma l’ingresso ai camper è vietato oltre il campanile di cemento, ben riconoscibile dalla piazza principale; una limitazione assolutamente giustificata dalla presenza di strade strette e terrazzi molto bassi, che rendono impossibile il transito ai veicoli ingombranti. Meno comprensibile il divieto di sosta nell’ampio parcheggio di fronte al porto, ma in compenso è possibile sostare nell’area a pagamento di Piazzale Sandro Pertini, dietro le strutture sportive e il bocciodromo. C’è spazio inoltre nei vari parcheggi dei grandi supermercati, non riservati ai clienti, oppure nei pochi posteggi sul lungomare non vietati.
Una breve passeggiata nella città vecchia permette di raggiungere la basilica di Sant’Antioco, costruita sopra antiche catacombe dell’epoca imperiale e che conserva le reliquie del patrono: trasportato sull’isola come schiavo ribelle che rifiutava il politeismo romano, organizzò una delle prime comunità cristiane clandestine prima di morire nell’anno 127.
Il pellegrinaggio in memoria del santo e la devozione alla sua chiesa mantennero viva la città nel periodo giudicale, quando la sede vescovile e la popolazione si trasferirono in massa nell’entroterra a causa delle continue e fatali incursioni saracene. La festa ha luogo ancora oggi il secondo lunedì dopo Pasqua, con spettacolari processioni in costume, e viene ripetuta in pompa magna il 1° agosto. Vicino alla basilica c’è il Laboratorio del Bisso e il Museo Etnografico, dove vengono conservati i preziosi manufatti di filo di pinna nobilis: questa tecnica di tessitura, che prima dell’arrivo della seta era oggetto di un’industria fiorente a Taranto e in Sicilia, si conserva al giorno d’oggi solo qui nelle mani di Chiara Vigo, l’ultima tessitrice di bisso in Italia. In alto nel paese, completamente inglobato nella struttura urbana, c’è il forte Su Pisu (in restauro e non visitabile al momento del nostro sopralluogo), costruito sopra l’antica acropoli per difendersi dai pirati moreschi.Dirigendosi con il camper verso l’area archelogica e il museo, in fondo al paese in direzione Calasetta, c’è un parcheggio indicato a sinistra dell’ingresso, di fronte al cimitero. La famosa zona dei tophet e la raccolta dei ritrovamenti dal Neolitico all’epoca bizantina sono purtroppo attrezzate in maniera piuttosto essenziale, anche se la loro particolarità in tutta l’area mediterranea merita comunque la visita. A sensibilizzare l’opinione pubblica sui beni culturali qui presenti è intervenuta anche la manifestazione televisiva MaratonArte, che nel 2007 ha raccolto i fondi per il restauro e la valorizzazione turistica di due sepolcri della necropoli punica situata nelle vicinanze: conosciuta anche come villaggio ipogeo, nel corso del tempo fu riadattata dagli isolani più poveri per abitarvi. C’è da augurarsi che in breve tempo le ricchezze preistoriche di Sant’Antioco siano valorizzate come meritano, non necessariamente realizzando nuove invadenti strutture ma semplicemente predisponendo percorsi di visita con cartellonistica e frecce, usufruibili con semplicità.
Lasciato il capoluogo, una strada interna scorrevole e ben indicata conduce a Calasetta, secondo comune dell’isola, con un bel parcheggio per camper proprio di fronte al porto, davanti alla sede Avis. Fondata da una colonia di liguri, la località conserva l’influenza genovese anche nell’impianto architettonico, mostrando casette a più piani affacciate sul porto. La mattina presto i pescatori vendono ciò che hanno catturato durante la notte direttamente dalle barche attraccate alle banchine; qui inoltre partono i traghetti per l’isola di San Pietro e le escursioni a vela o in gommone, e da qui si possono noleggiare i quad, piccole moto a quattro ruote, utili per visitare l’interno o gli sterrati più impervi della scogliera rocciosa. Si può raggiungere il borgo marinaro anche con una strada costiera più faticosa, piuttosto strettina e non indicata, che passa tra numerosi villini ma permette di ammirare Punta Giunghera e Punta Dritta.
Le spiagge successive a Calasetta, Sottotorre, Salina e Spiaggia Grande, così come la caletta Mangiabarche, hanno bei parcheggi su sterrato non vietati, dove è possibile anche il pernottamento (massima discrezione, ovviamente, per non far prosperare divieti anche qui come in molte parti della Sardegna). Questi punti sosta sono anche la base di partenza ideale per un’escursione in canoa verso gli scogli indicati dal faro, piuttosto pericolosi in caso di mare mosso ma eccezionalmente ricchi di fauna marina, ben visibile con acque calme. Passati i faraglioni di Nido Passeri, visibili solo a piedi sporgendosi dalla parete, la strada si allontana dalla costa lungo la ripida scogliera Mascari per ritrovare l’accesso al mare a Cala Lunga, dove un breve sterrato a destra e un piccolo spiazzo su terra rendono possibile anche il pernottamento a qualche equipaggio.
Poco più avanti, a Cala Saboni, troviamo un bel parcheggio a pagamento non vietato e il più bel camping dell’isola. La strada principale taglia quindi verso la costa orientale, passando per la dolce campagna dell’interno. All’incrocio, prendendo a destra si va a Capo Sperone costeggiando la bella spiaggia di Coaquaddus, con ottimo punto sosta, mentre le altrettanto suggestive Torre Cannai e S’Acqua sa Canna sono ben più complesse da raggiungere non potendo assolutamente avvicinarsi con il camper, che va lasciato in posizione piuttosto provvisoria lungo la strada scendendo infine a piedi per qualche centinaio di metri.
Se dall’incrocio si prosegue diritti si raggiunge invece la spiaggia di Maladroxia, ben indicata. E’ la baia più famosa dell’isola, grazie alla sua sabbia bianca e alla posizione riparata dai venti di maestrale, ma è anche l’unica problematica per la sosta del camper, che dev’essere lasciato a notevole distanza all’ingresso del paese venendo da sud. In compenso poco più avanti, sulla strada verso Sant’Antioco e poco prima di ritrovarne l’abitato, una breve stradina sterrata devia a destra verso il mare fino a un bellissimo parcheggio in riva all’acqua. Non c’è una vera spiaggia ma un piccolo scalino di poseidonie e ciottoli, in una posizione tranquilla anche per il pernottamento.

In kayak
Per esplorare la costa orientale dell’isola il punto di partenza è presso il punto sosta Coaquaddus, riparato da venti di maestrale. Per scaricare l’imbarcazione in acqua è necessario portarla a mano per circa 300 metri sino all’arenile, ma la fatica è ripagata dalla sabbia bianchissima che rende anche l’acqua di un colore spettacolare. Pagaiando verso nord si incontra dapprima una falesia di roccia calcarea chiara, molto appuntita, senza possibilità di sbarco e pericolosa con il mare mosso, che però è un paradiso rimasto intatto da qualunque possibile assalto del cemento: qui nidificano i martin pescatori, che si scorgono spesso fuggire dalle cavità nella roccia con un pii-piii in crescendo per attirare l’attenzione del predatore lontano dal nido. Questi simpatici uccelli fanno a gara in acrobazie e riflessi cangianti con i gruccioni, anche loro svernanti in Africa, che riempiono l’aria di un ben diverso richiamo, una sorta di pliuli-pliuli che ricorda le note di un’arpa. Questo è il tratto più selvaggio, con l’acqua che passa dal verde smeraldo al blu intenso là dove la poseidonia si estende in ampie praterie. Il novellame di orata e sarago, lungo appena un mignolo, confidente e numeroso, ti mordicchia i piedi se li lasci penzoloni fuori dalla canoa. Salendo ancora verso nord, in un quarto d’ora di pagaiata la costa si fa rossa, meno ripida ma spettacolare, con curiosi scogli forati e numerose grotticelle. Più avanti, dopo circa mezz’ora di remata, si incontra la lunga candida spiaggia di Maladroxia, dove lo sbarco è possibile ma il recupero è reso difficoltoso dal menzionato divieto di sosta camper. La spiaggia crea un canale naturale per le correnti e il vento, che possono rendere un po’ più faticosa la pagaiata. Le altre due calette sabbiose che si incontrano ancora verso nord sono ideali per riposarsi, anche perché spesso deserte, ma pure qui il recupero del kayak è complicato poiché la strada passa circa 300 metri più in alto. Molto meglio sbarcare più avanti, dove la costa digrada dolcemente fra ciottoli e poseidonia ed è ben raggiungibile anche in camper.
Sul lato opposto dell’isola, l’itinerario marino parte dall’insenatura di Cala Saboni. L’accesso all’acqua è possibile sostando temporaneamente di fronte al ristorante in legno, per poi andare a parcheggiare nei due piazzali lungo la strada a nord o a sud, oppure direttamente dalla spiaggetta del camping Tonnara. Usciti dalla baia, sempre riparata dalle onde grazie al cordone naturale di roccia, si prende a destra costeggiando la scogliera. La coloratissima falesia reca i segni di un passato geologico di vulcanismo: bianca dove il magma era ricco di gas, rossastra e viola dove la lava pesante era ricca di metalli. La costa è movimentata da grotte e anfratti, che rendono estremamente divertente la pagaiata. In poco più di mezz’ora si raggiunge il fiordo di Cala Lunga, ben protetto dai venti, dove è possibile accedere con il veicolo per un eventuale recupero. Pagaiando ancora dritti per un’altra mezz’ora si raggiunge invece il promontorio di Perdas de Is Ominis, il tratto più elevato di tutta la scogliera.
Uscendo da Cala Saboni e svoltando invece a sinistra, i più allenati e arditi – a patto di conservare sufficienti energie per il ritorno – potranno cimentarsi in una lunga pagaiata, ma con pochi approdi e nessuna possibilità di recupero, sino agli inconfondibili faraglioni di Poggio Mezzaluna e dell’omonima grotta; oppure, ancora più a sud, fino alla grotta di Porto Sciusciao, una spiaggia di pietre dallo scomodo attracco e non raggiungibile via terra.

A piedi
Camminare nel tratto sud-occidentale dell’isola permette di raggiungere passo passo alcune mete altrimenti inarrivabili con altri mezzi. Subito oltre il parcheggio a sud di Cala Saboni un sentiero su sterrato devia verso il mare (indicazioni anche per Bacino Nuragico Grottiacqua o Villaggio Polifemo). Arrivati a una cabina Enel si segue lo sterrato a sinistra e quindi, passato un cancello rosso, si imbocca il primo sterrato di sabbia a destra. Con questa pista si arriva sino al ciglio della falesia, da cui si inizia a camminare tra i cespugli mantenendosi il più possibile vicino al bordo della scogliera. Non esiste un sentiero segnato, quindi occorre seguire le varie tracce lasciate da greggi al pascolo ma anche da altri escursionisti e pescatori, facendo attenzione alla vegetazione (talvolta si rende necessario rientrare sui propri passi per uscire dalla selva di arbusti ed è consigliabile, soprattutto in primavera, l’uso di scarpe chiuse e pantaloni lunghi). Il percorso non è molto impegnativo perché non presenta grandi dislivelli, ma richiede qualche dote da esploratore. In alternativa si può seguire la più ampia carrareccia su sabbia che passa all’interno ma compie giri molto tortuosi e può essere terribilmente afosa perché non raggiunta dalle brezze. Il paesaggio è incantevole, dall’atmosfera antica e solenne: pinnacoli rosa, dune ocre, tavolati di pietra levigata, faraglioni a picco sulle onde. In circa un’ora e mezzo si raggiunge la spiaggia di Porto Sciusciao, un litorale di ciottoli viola e verdi impreziosito da un arco naturale. Arrivati in alto, in vista della spiaggia, solo gli escursionisti esperti e con buone scarpe potranno arrischiare la discesa dalla costa; agli altri consigliamo di spingersi verso l’interno e il boschetto di pini, dove parte un sentiero che scende a monte dell’insenatura. Arrivati al mare, il faro di Capo Sperone è ben visibile in cima alla collina ma è necessaria più di un’ora per raggiungerlo, zigzagando tra pietre e cespugli su un sentiero difficile da trovare e molto imboscato.
Seconda possibile meta dell’esplorazione a piedi è il Bacino Nuragico Grottiacqua che, come abbiamo visto, è già indicato dal parcheggio di Cala Saboni. Si prosegue in direzione Capo Sperone ma dopo circa 400 metri, seguendo il cartello, si svolta a destra su un’ampia strada brecciata costeggiata da muretti di cemento (percorribile senza problemi anche con il camper). In circa 2 chilometri si arriva al posteggio allestito per la visita dell’area archeologica: qui però gli interventi di valorizzazione si sono limitati al piazzale e alla delimitazione del pozzo sacro con una antiestetica rete rossa da cantiere, perché al parcheggio stesso la cartellonistica scompare. E’ necessario costeggiare la casa diroccata di un pastore, aprire uno scardinato cancello di legno ed entrare in un vecchio tratturo chiuso da muretti a secco, seguendo a vista l’arancione imperdibile dell’area di scavo. Al pozzo si incontra il sentiero principale che sale, con alcuni lavori di consolidamento e scalini, fino all’incantevole bacino d’acqua dolce sacro agli antichi Sardus e ai resti, un po’ poco visibili, del nuraghe. Più o meno a metà strada sulla brecciata imboccata all’inizio, in cima a una salitella sulla destra, vi sono i resti di una bella tomba dei giganti, non indicata ma che vale la pena di sforzarsi a cercare. Proprio nelle vicinanze, una pista sconnessa e inagibile con i mezzi a motore porta sino alla scogliera in paesaggi dall’atmosfera sahariana.

In bici
L’escursione segue per il primo tratto la cartellonistica del Tour dei Nuraghi, a dire il vero in cattive condizioni: le rovine sono sporche e nascoste dalla vegetazione, senza spiegazioni né indicazioni. I siti però hanno ottimi parcheggi non vietati e la ricerca dei villaggi nuragici è un ottimo pretesto per addentrarsi in un paesaggio eccezionalmente selvaggio, a tratti lunare, dove la malattia della seconda casa non ha ancora cementificato una natura potente e padrona. Le uniche opere che disturbano sono purtroppo quella sorta di piccole cattedrali nel deserto realizzate al presunto scopo di valorizzare il territorio con finanziamenti europei, tra cui strade lastricate, casette e muretti di cemento, laddove sarebbero molto più utili una buona cartellonistica con mappe e una regolare pulizia di sentieri e siti. L’escursione in bici attraversa una zona molto calda, poco ombreggiata e riparata dal vento: per non rischiare un colpo di sole è bene evitare le ore centrali della giornata.
Da Cala Saboni si pedala su asfalto in direzione di Maladroxia e Sant’Antioco, ben indicati anche al primo bivio; quindi, dopo circa 3 chilometri e mezzo, si svolta a sinistra sempre su asfalto, seguendo le indicazioni per il villaggio nuragico di Corongiu Murvonis (le frecce sono però visibili solo provenendo dalla direzione contraria). Si pedala per circa 5 chilometri tra campi di grano, oliveti e pascoli riarsi, seguendo il corso della valle. All’apice della salita si svolta a sinistra su uno sterrato in direzione delle costruzioni e dei ripetitori in cima al monte. Dopo 600 metri si incontra l’ingresso al bacino di recupero acqua del Corpo Forestale e si segue lo sterrato principale in discesa, con una splendida vista sulla laguna e sul mare. Giunti in fondo, dopo circa un chilometro e mezzo, ci si infila a sinistra tra i cespugli di lentisco, tralasciando poco dopo la strada privata. Si costeggia quindi il muretto a secco in direzione di una montagnola rossa ben visibile. Dopo 700 metri si svolta a destra verso il mare seguendo la principale e trovando, dopo circa un chilometro, il bivio che conduce alla zona archeologica, distante altri 500 metri. Rientrati sulla strada principale si prosegue verso il mare entrando, poco meno di un chilometro dopo, in una zona di cava abbandonata. Uscendo sul lato opposto si ritrova l’asfalto dopo 2 chilometri e si prosegue in discesa a sinistra, per poco più di un chilometro e mezzo, tornando a chiudere l’anello a Cala Saboni

PleinAir 431 – giugno 2008

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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