Dove nasce il mondo

In camper alla scoperta dell'Islanda: un paese che non ha eguali, una vacanza indimenticabile, un'esperienza per tutti.

Indice dell'itinerario

L’Islanda è l’ultimo luogo del pianeta dove è ancora possibile sentire il mistero della creazione. E’ questo che mi viene da pensare mentre un gigantesco sbuffo di acqua bollente sale all’improvviso fino a 20 metri di altezza. A brevi intervalli il geyser sprigiona la sua forza primordiale, tra gli sguardi stupiti dei turisti. E’ il respiro della Terra che qui è viva, si muove, sussulta, rigurgita la sua linfa di pietra disciolta come in nessun altro posto al mondo.
Coni vulcanici, enormi colate di magma solidificato, laghi di fango ribollente, sorgenti calde che sgorgano ovunque fanno dell’Islanda il più grande laboratorio naturale a cielo aperto per lo studio dei fenomeni geologici. Il paesaggio è forgiato dalla lava, dal ghiaccio e dall’acqua: lo si avverte, anzi lo si vede a ogni angolo lungo la strada numero 1 più conosciuta come Ring Road, una stretta striscia d’asfalto che chiude l’isola in un anello di oltre 1.000 chilometri. Noi l’abbiamo percorsa con il camper: un’esperienza straordinaria, che segna indelebilmente l’anima del viaggiatore e anzi traccia una nuova misura del viaggiare.

Granelli di sabbia
E’ giugno, e il tempo è variabile. Nel giro di poche ore si passa dal sole a una pioggerellina fredda e insistente. Tundre, praterie, arcigne montagne, aridi deserti di pietre sminuzzate, morbide e profumate distese di muschio si alternano instancabilmente. Lo scenario è mozzafiato e, se si escludono alcune fattorie isolate e qualche piccolo villaggio, è quasi del tutto spopolato. Non può che essere così, visto che gli islandesi sono appena 283.000 in un territorio di quasi 103.000 chilometri quadrati, più o meno un terzo dell’Italia.
Dopo lo sbarco a Seydhisfjördhur, la prima tappa del nostro viaggio in senso antiorario lungo la Ring Road è la suggestiva laguna di Jökulsárlón. E’ un pezzo di Artico in piena regola, con tanto di iceberg che si staccano dal ghiacciaio Breidhamerkurjökull e scivolano lentamente verso il mare, sospinti dal vento gelido. Già dalla strada e dal sentiero che costeggia la laguna la vista è spettacolare: ma per i più temerari che osano sfidare il freddo c’è l’escursione su speciali mezzi anfibi che navigano tra i blocchi di ghiaccio alla deriva. Con un po’ di fortuna è possibile anche avvistare le foche, che pare abbiano una colonia proprio da queste parti. E chissà, forse anche elfi, troll e qualcuno degli spiritelli maligni, che popolano saghe e leggende di una cultura antica e velata di mistero.
Di fronte a questi spettacoli, si capisce subito che l’Islanda non è un paese come un altro: è piuttosto una metafora della vita. L’idea che l’uomo sia come un granello di sabbia alla mercé del destino qui si fa improvvisamente concreta, quasi tangibile. Bastano pochi chilometri ed ecco la prova: tra Öræfi e Núpsstadhur, la Ring Road attraversa una piana desertica costituita da depositi di limo, sabbia e ghiaia erosi dai ghiacciai e trasportati a valle dalle piene. Dieci anni fa, nell’autunno del 1996, qui si scatenò l’inferno: un cratere vulcanico tornò improvvisamente attivo sotto la superficie del Vatnajökull, una gigantesca calotta glaciale vasta quanto l’Umbria, e sciolse una porzione di una delle sue lingue, lo Skeidharárjökull, formando un lago nascosto che due settimane più tardi provocò un’inondazione in grado di spazzare via la strada e sradicare un ponte di oltre 300 metri di lunghezza, piegandone i piloni di acciaio come fossero bastoncini di burro, fortunatamente senza fare nessuna vittima. Eppure gli islandesi sembrano convivere senza problemi con questa precarietà così radicale, che farebbe impazzire dalla preoccupazione la gente di qualunque altro posto sulla Terra.E nacque un’isola
D’altro canto, quella non è stata certo la prima volta che si verificavano fenomeni eccezionali. Mettetevi nei panni, per esempio, degli uomini dell’equipaggio del peschereccio Ísleifur II: il 14 novembre 1963, mentre erano in navigazione verso l’Islanda sud-occidentale, si accorsero di una colonna di fumo che saliva dal mare e manovrarono per avvicinarsi, credendo di scorgere da un momento all’altro un’imbarcazione in difficoltà. Invece, quello che stava accadendo aveva dell’incredibile: sotto di loro un vulcano sommerso aveva cominciato a eruttare. Ovviamente spinsero i motori a tutta forza e se la diedero a gambe, temendo di lasciarci la pelle. E fecero bene perché, poche ore dopo, la coltre di fumo e detriti toccava i 3 chilometri, che divennero 15 nei giorni successivi. Era così alta che potevano vederla fino a Reykjavík, la capitale, distante oltre 100 chilometri. Due settimane dopo, dagli abissi era emersa un’isola che in pochi mesi raggiunse 2 chilometri e mezzo di lunghezza e 150 metri di altezza: era nata Surtsey. Nuda e completamente priva di vita, è diventata subito un’occasione irripetibile per studiare in che modo una landa desolata venga colonizzata da piante e animali. Se si escludono funghi e licheni, le cui spore sono state trasportate dai venti, il primo a prenderne possesso, nel 1970, fu un fulmaro che iniziò a nidificare su una scogliera. Un anno dopo erano già una decina, e non è un caso.
L’Islanda, infatti, è un paradiso ornitologico. Finito l’inverno, le falesie rocciose si trasformano in affollati condomini per centinaia di migliaia di uccelli. Per rendersene conto basta raggiungere Vík, il villaggio più grande della costa meridionale, e di qui proseguire per una decina di chilometri fino a Dyrhólaey, l’Isola della Porta, così chiamata per la presenza di un imponente arco di pietra sospeso nelle acque schiumose. Per ammirare questo monumento naturale in tutta la sua scenografica bellezza bisogna recarsi alla spiaggia di Reynisfjara con la sua nera sabbia vulcanica, i faraglioni e le colonne basaltiche che sembrano grandi canne d’organo. La soluzione migliore per osservare gli uccelli, invece, è a bordo di uno dei mezzi anfibi delle escursioni organizzate che si avvicinano alle colonie. Sulle sporgenze rocciose nidificano a centinaia fulmari, urie, gazze marine e gabbiani tridattili.
Dyrhólaey è un vero santuario per i birdwatcher, ma nulla a confronto delle Vestmannaeyjar, una manciata di isole al largo di Hvolsvöllur. Il traghetto che parte da Dhorlákshöfn per Heimaey, l’unica abitata dell’arcipelago, prima dell’ingresso in porto sfila tra le levigate scogliere stracolme di uccelli marini. Da queste parti il vero spettacolo sono i pulcinella di mare: ogni anno, circa otto milioni di esemplari di questa specie raggiungono l’isola per riprodursi (una bella colonia si trova sul promontorio di Stórhöfdhi dove c’è una piattaforma in legno per le osservazioni). Dopo essere stati per secoli una fonte di cibo, sono ora tutelati dalla regolamentazione della caccia ma vengono ancora serviti come piatto tradizionale nei ristoranti locali, anche se fortunatamente sono sempre meno gli avventori disposti a considerare i buffi clown delle scogliere come una prelibatezza. Oggi, inoltre, i pulcinella hanno un importante alleato: i bambini di Heimaey. Nella seconda metà di agosto sono loro a salvarne a centinaia, andando in giro per le strade della cittadina alla ricerca dei piccoli che abbandonano i nidi per il loro primo volo verso il mare, forse attratti dalle luci del porto, ma sbagliano direzione e atterrano nelle vie e nei giardini delle case. Li raccolgono, li mettono in scatole di cartone e li portano a destinazione.
Anche Heimaey, naturalmente, ha una storia di eruzioni da raccontare. Nel 1973 una fessura si aprì nella zona di Kirkjubæir e cominciò a vomitare lava. L’intera popolazione fu evacuata e non ci furono vittime, una parte dell’abitato venne sepolta ma il grosso delle colate andò verso il mare e solidificandosi spostò la linea di costa di oltre 2 chilometri quadrati.

In fatto di vulcani l’Islanda vanta un poco invidiabile record: sono almeno una cinquantina i crateri attivi. La ragione è semplice: l’isola è tagliata in due dalla dorsale medio-atlantica, una fossa tettonica che separa la placca nordamericana da quella europea. Da queste fratture della crosta terrestre, che scendono negli abissi marini, il magma fuso sale verso la superficie: un flusso continuo che forma nuovi fondali oceanici e provoca la deriva dei continenti.
Nella vallata di Thingvellir, una parte emersa di questa faglia si manifesta con una fessura larga 4 chilometri, lunga 26 e profonda 40 metri. Per uno strano scherzo del caso, questo è anche il principale sito storico della nazione. Qui, a partire dall’anno 930, ogni estate per due settimane si riunivano i trentasei clan islandesi discendenti dei Vichinghi che dalla Scandinavia, un centinaio d’anni addietro, avevano cominciato la colonizzazione dell’Isola. Per gli otto secoli successivi i capi piantarono a Thingvellir le loro tende, gestirono faide e discussero le leggi. Per questo, nel 2004, in occasione del sessantesimo anniversario dell’indipendenza islandese l’Unesco ha inserito il sito tra quelli considerati patrimonio dell’Umanità.
Thingvellir è anche la prima delle tre tappe del famoso Anello d’Oro, un itinerario nell’itinerario che comprende Geysir e la cascata di Gullfoss: una deviazione di poche decine di chilometri rispetto alla Ring Road che catapulta il viaggiatore nella parte turisticamente più sfruttata di tutto il paese, e non bisogna quindi meravigliarsi di incontrare più gente qui che nel resto di tutto il viaggio. A una quarantina di chilometri di distanza da Thingvellir si trova dunque Geysir (il luogo ha dato il nome al fenomeno), dove una decina di pozze ribollenti sono una delle maggiori attrazioni d’Islanda: l’acqua sotterranea viene scaldata dalle rocce rese incandescenti dal magma, supera la temperatura di ebollizione arrivando fino a 125 gradi centigradi e, una volta raggiunta la pressione necessaria per superare la resistenza dell’acqua superficiale, esplode in un enorme getto che dura alcuni secondi. Oggi il più attivo in questa zona è lo Strokkur: ci vogliono pochi minuti perché, preceduto da un insistente borbottio, scagli verso il cielo una colonna bollente di acqua e vapore che può arrivare a oltrepassare l’altezza di un palazzo di sei piani. Per completare il periplo dell’Anello d’Oro, a 6 chilometri da Geysir bisogna poi visitare Gullfoss che, con i suoi due salti di 11 e 21 metri, è una delle cascate più belle del paese se non del mondo.Passaggio a nord-ovest
Ormai Reykjavík è a un tiro di schioppo, e una sosta nella capitale più settentrionale del mondo è d’obbligo. Anche se la città appare piuttosto curiosa con i suoi bassi palazzi intervallati da casette colorate, ci si accorge presto che non è certo questa la ragione di un viaggio in Islanda. Giusto il tempo di ammirare la cattedrale, il Parlamento, la casa in cui Reagan e Gorbaciov si incontrarono nel 1986 per discutere sul disarmo, il Museo delle Saghe con i diorami che raffigurano le tappe della colonizzazione del paese da parte dei Vichinghi, e dopo una passeggiata in centro riprendiamo la marcia.
Nostra prossima meta è la penisola sud-occidentale di Reykjanes alla volta della Blue Lagoon, uno specchio d’acqua calda di colore verde-azzurro (nota soprattutto per le sue proprietà curative nei confronti dei disturbi cutanei) che risalta in modo decisamente scenografico tra le nere rocce vulcaniche. La centrale geotermica sullo sfondo ricorda quanto sia importante questa risorsa per gli islandesi, che hanno imparato a fare buon uso del calore immagazzinato sotto la crosta terrestre trasformandolo in energia per il riscaldamento, le industrie e l’agricoltura. Un’immersione ristoratrice e benefica nelle piscine termali è quello che ci vuole prima della tappa successiva, forse la più impegnativa di tutto il viaggio: siamo diretti nei fiordi dell’ovest, per l’esattezza al promontorio che segna l’estremità occidentale non solo dell’Islanda ma di tutta l’Europa. Raggiungere questo luogo remoto comporta una lunga risalita della Ring Road e poi una deviazione su diverse decine di chilometri di sterrato; per evitare almeno una parte di questo trasferimento ci si può imbarcare con il camper sul traghetto che collega Stykkishólmur a Brjánslækur, poi dirigersi verso Patreksfjördhur e deviare seguendo la statale 612 fino al faro di Bjargtangar. Qui si trova la scogliera di Látrabjarg, una mastodontica opera della natura che arriva fino a 400 metri di altezza ed è letteralmente stracolma di uccelli, con la più grande colonia al mondo di gazze marine e una miriade di pulcinella di mare talmente confidenti che si lasciano avvicinare a pochi metri di distanza. Lo spettacolo è davvero di quelli da mozzare il fiato, ma chi ama osservare gli animali troverà altre occasioni per soddisfare questa passione.

La costa delle balene
Tornati sulla Ring Road, ci dirigiamo verso est fino ad Akureyri, la seconda città islandese per dimensioni e numero di abitanti. Ma anche in questa parte dell’isola non è un centro abitato a costituire il principale motivo di attrazione, bensì la costa e il mare di fronte al villaggio di Húsavík. In queste acque tra il Mar di Groenlandia e il Mar di Norvegia, durante la bella stagione si svolgono le uscite in battello per avvistare le balene, un’altra delle specialità degli operatori turistici islandesi. L’assortimento non lascia certo a desiderare – megattere, balenottere comuni, balenottere minori, capodogli, iperodonti, globicefali, orche – e l’emozione di un contatto ravvicinato con i giganti del mare ripaga mille volte l’impegno e il costo dell’escursione (gli avvistamenti non possono essere garantiti ma le probabilità di successo, almeno secondo le compagnie che si occupano di portare i turisti, pare siano intorno al 95 per cento).
Prima di chiudere l’anello che ci ricondurrà all’imbarco di Seydhisfjördhur, l’ultima tappa del viaggio è il lago Myvatn. Ci dicono che la prima parte del nome significa “moscerino”, e per capirne il motivo basta scendere dal camper: nugoli assatanati dei minuscoli insetti ci seguono come fossero inostri angeli custodi, e si sfugge con difficoltà alle loro attenzioni anche se si decide di noleggiare una bici per pedalare intorno al lago. La zona, però, è davvero interessante, e qui più che altrove si ha l’impressione che le viscere della Terra siano quasi allo scoperto: pozze di fango grigio dall’odore penetrante, solfatare e crateri sono un po’ dappertutto. Merita certamente una visita la zona del Krafla, uno dei vulcani più attivi d’Islanda (ha eruttato già una trentina di volte) con il suo paesaggio surreale formato da scure colate di lava e fratture fumanti, poi la vicina Hverarönd, una vasta area di solfatare.
Fumo, fuoco, acqua e ghiaccio: i Vichinghi credevano che l’Islanda fosse la porta per gli inferi. E invece è il paradiso, l’ultima delle terre estreme di un’Europa che mai come qui significa natura.

PleinAir 405 – aprile 2006

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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