Dove finisce la strada

Qual è il limite di un itinerario in Marocco per un camper a due ruote motrici? Ecco la risposta, anzi più d'una, in questo appassionante invito al viaggio che mescola i ricordi delle avventure pleinair di ieri alla cronaca di un'esperienza di oggi.

Indice dell'itinerario

L’incontro con gli Uomini Blu, l’amichevole rapimento fino al loro campo per l’acquisto di pugnali o quant’altro, lo scambio con prodotti occidentali era il racconto classico dei primi viaggiatori che in Marocco si spingevano oltre la catena dell’Atlante. Poco importava si trattasse di storie in parte o del tutto inventate: il loro fascino induceva altri ad avventurarsi per strade o piste più o meno battute verso i confini dell’ignoto, rischiando magari di essere rapiti, e stavolta sul serio, non già dai tuareg ma dagli esponenti del Fronte Polisario nell’eterna guerra per la liberazione dell’ex Sahara Spagnolo.
Noi fummo colpiti in particolare da una storia nella storia, quella dell’uomo (un capo o una guida) che indicava il cielo notturno brulicante di stelle come può esserlo solo nel deserto: ce la raccontò un tale Alex in viaggio con un veicolo attrezzato che all’epoca, non esistendo il termine camper, tutt’al più si chiamava pulmino. Stavamo tornando dalla folgorante scoperta di questo paese meraviglioso, e l’episodio fu come un sigillo alla nostra avventura. Già Marrakech con la sua piazza e il suo souk ci aveva sbalordito al punto da farci pentire, nei successivi viaggi fuori dall’Europa, di averla visitata per prima: qualunque altro mercato ci sarebbe sembrato deludente e occidentalizzato. E poi quel cielo stellato… Dovevamo provarci anche noi a piantare la tenda nel deserto e immaginare le rotte delle carovane verso l’orizzonte, au fond du ciel. Eravamo però su una comunissima Fiat 128 e quando fummo a Ouarzazate oltre l’Atlante, pronti ad affrontare la strada che vedevamo segnata sulle carte verso sud, ci dissero trattarsi di una lunga e impervia pista sterrata. Forse non era vero, perché quando tornammo qualche anno più tardi, stavolta col glorioso Estafette (quindi ancora con due ruote motrici) trovammo l’asfalto sin oltre Zagora, dove fu la polizia a ricacciarci indietro: in Algeria c’erano disordini e il confine distava pochi chilometri.

Confini di sabbia
Noi che non siamo turisti occasionali abbiamo quasi il dovere di rivedere i posti già visitati per controllare cos’è rimasto e cos’è cambiato, anche a rischio di rovinare qualche bel ricordo. E così siamo tornati in Marocco ancora una volta, cercando di ripetere l’itinerario delle precedenti e ritrovando identiche molte cose, a cominciare dalla frontiera. La sponda d’Africa dove sbarca il traghetto è ancora Spagna, l’enclave di Ceuta e Melilla. In poche centinaia di metri si varca il confine marocchino e si entra davvero in un altro mondo: donne velate, uomini intabarrati nel jellaba, camioncini stracolmi, asini di ogni stazza e colore che tirano carretti e portano carichi o persone, perfino dromedari ai margini della strada, anche se qui siamo ancora al mare e si tratta di quelli a noleggio per i tour cittadini dei villeggianti.
Famosa per le moschee e le fonti, Chechaouen deve la sua fortuna alla posizione: troppo vicina al confine spagnolo e poco fuori dalla principale direttrice, viene regolarmente ignorata da chi all’andata ha fretta di raggiungere le mete più importanti, e al ritorno pensa di aver visto abbastanza del Marocco. Raggiungibile con una deviazione di soli 8 chilometri dalla statale Fès-Tétouan, si presenta come una cascata di case bianche contro il fianco di una montagna. Ma la sorpresa è al suo interno: la medina è tutta intonacata di azzurro, ricordo degli spagnoli che con tale rivestimento intendevano mantenere il fresco nelle case e allontanare gli insetti. Ci si inerpica per vicoli e scalinate fino a raggiungere la porta Bab-el-Khadem, oltre la quale la fonte Ras-el-Ma alimenta un piccolo mulino ad acqua e un lavatoio tuttora in funzione. Ci si può arrivare anche dalla strada, risalendo il torrente per 2 chilometri: il parcheggio è un riferimento per una notte in un contesto davvero straordinario.
Marrakech è sempre affascinante, malgrado le nuove costruzioni che hanno oscurato la nota visione delle mura e del palmeto a chi giunge da lontano, e la famosa piazza più o meno la stessa, malgrado le truppe d’assalto dei turisti d’agenzia. Quanto al souk, se si vuole acquistare roba genuina al prezzo giusto bisogna inoltrarsi saltando le insistenti offerte delle prime botteghe.
Ma ci aspettava il deserto: scavalcato per la terza volta l’Atlante ci siamo ritrovati a Ouarzazate e da qui con una sola tirata a Nhamid, oltre Zagora, dove l’asfalto finisce davvero. Strada facendo si attraversano paesaggi fuori dal tempo che sono stati scoperti e utilizzati dal cinema per film storici e non, da Lawrence d’Arabia a Il tè nel deserto, al punto che proprio alle porte di Ouarzazate si visitano gli studi della Atlas Films con finte statue egizie e tailandesi, un aereo da combattimento, antiche macchine da guerra. In primavera la distesa marrone, ocra, rosso, giallo è interrotta, oltre che dai palmeti, da qualche macchia di verde e di fiori. I villaggi, tirati su con la stessa terra che li circonda, se non hanno a fianco edifici moderni possono letteralmente rendersi invisibili. La costruzione al proposito più caratteristica è la kasbah, il cui nome evoca ancora una volta ricordi letterari e cinematografici: un dedalo di vicoli, scalette e passaggi più o meno segreti, dove la polizia non riesce a catturare Pépé le Moko o, dove fra tetti e terrazze, si combatte La battaglia di Algeri. La kasbah di un villaggio nasce invece come un granaio fortificato, con mura spesse, pochi accessi e all’interno il previsto labirinto per confondere l’eventuale invasore; la struttura chiusa, inoltre, anche per il materiale impiegato, permette di vivere al fresco in pieno deserto. Cessata la loro funzione, però, questi complessi sono stati in gran parte abbandonati: se ne incontrano dappertutto oltre l’Atlante, in particolare lungo le valli del Dadès e del Dràa. Se la più famosa è quella di Ait Benhaddou, protetta dall’Unesco, ne abbiamo scoperta una davvero suggestiva, meritevole della deviazione dalla statale che collega Marrakech a Ouarzazate: circa 40 chilometri fra andata e ritorno su una stradina decisamente stretta e dissestata (in caso di pioggia la tintura del camper con l’acqua rossa delle pozzanghere è assicurata), ma il premio è la scoperta, all’interno di una struttura malmessa, di due stanze assolutamente straordinarie con stucchi e decorazioni che ricordano l’Alhambra di Granada. Nhamid sarebbe una piccola oasi tranquilla se non fosse per il passaggio di gente come noi, camperisti curiosi di incontrare il deserto pur avendo solo due ruote motrici. All’arrivo si è letteralmente circondati da sedicenti guide che a tutti i costi vogliono condurvi in un accampamento per dormire sotto le stelle (o à la belle étoile, come dicono loro). Sì, ma com’è la pista? Sicura, naturalmente, e sono solo 2 chilometri! Scesi a piedi per controllare, ci è bastato l’incontro con 10 metri di sabbia per desistere. Fine del sogno? Nient’affatto. Se passare alle quattro ruote motrici è piuttosto complicato (e poi, per un solo capriccio!), per una volta e senza troppi patemi non resterà che lasciare il camper a casa e comprare un pacchetto in fuoristrada e tenda, ivi compresa la rassegnazione di non potersi scegliere i compagni d’avventura.

La guerra dimenticata
Con l’Estafette avevamo tentato di spingerci più a sud possibile anche lungo la costa atlantica. Oltre Guelmim ci voleva un permesso per raggiungere almeno la città seguente, Tan Tan, il cui solo nome evocava il Grande Sud: tirava una brutta aria da quelle parti a causa della guerriglia condotta dal Fronte Polisario, comunque il permesso era possibile ottenerlo (a nostro rischio) solo che il funzionario predisposto alla firma tornasse dal weekend… Non avevamo troppo tempo, così rinunciammo.
E siamo tornati anche qui. Oggi nessun permesso è richiesto, ci hanno detto, ci si può spingere fin dove si vuole. E la guerra dimenticata (come la chiamano) è stata davvero rimossa o si è conclusa con un qualche accordo di cui abbiamo perso la notizia in una delle nostre assenze da casa? Fatto sta che, raggiunta rapidamente Tan Tan (risultata un’anonima cittadina a dispetto del bel nome), abbiamo proseguito verso sud. Sulla strada abbiamo cominciato ad incrociare dei camper francesi, un po’ troppi perché non ne fossimo incuriositi, finché tre equipaggi si sono fermati in una piazzola: la carovana stava tornando dalla Mauritania, dove si entra semplicemente procurandosi un visto nell’ultima città marocchina prima della frontiera… Non solo, ma poi abbiamo trovato una coppia di cicloturisti olandesi che, a pieno carico, arrivavano dal Ghana. Ce n’era abbastanza per non sentirci beffati nel nostro tentativo di arrivare fin dove si può . Raggiunte le prime dune, abbiamo girato il camper ed eletto la sosta pranzo a capolinea: poco più avanti ci sarebbe stato il confine con l’ex Sahara Spagnolo, una linea sulla carta che il Marocco non riconosce. Più realisticamente, siamo riusciti a tornare in tempo a Guelmim per il famoso mercato dei cammelli del sabato, che pensavamo di aver sacrificato per inseguire le nostre chimere. E senza alcun rimpianto: tra i futuri progetti c’è già l’ennesimo ritorno in Marocco per raggiungere la Mauritania, e qui davvero scendere fin dove si può.

Dove il Marocco è verde
In Marocco c’eravamo stati sempre e solo d’estate, un ricordo di gran caldo e terre bruciate. Ma qui ci si viene in tutte le stagioni: questa volta, tornati in aprile, abbiamo trovato fresco e anche freddo ai valichi, con la neve bassa sui monti e tanto, tanto verde. Gli inattesi scenari sono diventati frettolosi appunti sul diario di bordo che, riletti in fila, formano da soli un itinerario nella primavera marocchina.
Salita tra pini e querce, sottobosco in fiore, cereali e pascoli con mucche (si vendono asparagi) da Tétouan a Lixus. Campi coltivati a cereali e vite, con fichi d’india a far da recinzione, da Mehdia a Marrakech. Piana coltivata a oliveti, poi dolci colline punteggiate da argania, dai cui frutti ricavano un olio prelibato, da Marrakech a Essaouria. Grandi boschi di eucalipti ad Agadir. Terrazzamenti con mandorli da Tafraoute verso Tighmi. Tipico bosco ad argania verso Taroudant. Aranceti protetti da filari di pini verso Taicouine e Ouarzazate. Bellissimo oued con palmeto ad Aid Benhaddou e ancora immensi palmeti da dattero verso Agdz. Roseti a perdita d’occhio da El Kahlea verso Tinehir. Palme, olivi, fichi, e tamerici nella valle del Ziz. Piscine contornate da palme alla Source Bleu di Meski. Estese pinete verso Meknès e i primi contrafforti dell’Atlante. Colline a cereali, poi monti con lecci e qualche cedro verso Ifrane. Abetaie verso il Rif. Distese di aranci a Chechaouen… . Per non parlare del giardino Majorelle di Marrakech, un miracolo di equilibrio fra arte e natura.
Ma è nelle oasi che il Marocco è più verde. Scegliete l’ora più calda del giorno per visitarne una: sotto l’ombra delle palme si scopre un mondo di tranquillità in cui il verde dei piccoli appezzamenti di cereali, limitati da canali e canalette, si raccorda ai tronchi delle palme con cespugli fioriti di rose, melograni e oleandri. E tra fave, piselli, viti, albicocchi, olivi, le infiorescenze della palma maschio volano nell’aria a fecondare i fiori della palma femmina per dare origine a quella delizia che sono i datteri.

PleinAir 438 – gennaio 2009

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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