Diagonale africana

Dal Mediterraneo al Golfo di Guinea in pick-up, attraversando Tunisia, Libia, Niger, Mali e Costa d'Avorio. Un'avventura tutta da sognare, una prova riservata ai grandi viaggiatori del deserto, attraverso una realtà che "non è fatta solo di animali nei parchi più famosi e danze organizzate per divertire i turisti".

Indice dell'itinerario

E’ la fine di luglio e tutto è pronto per la partenza. Dopo lunghi mesi di preparazione, per l’ennesima volta ci apprestiamo ad attraversare il Sahara: un itinerario davvero impegnativo in un periodo così sfavorevole (e del resto l’unico che siamo riusciti a ritagliarci), ma quando l’Africa chiama non riusciamo a resistere. Ben tre sono le cause principali che rendono estremamente rischioso il viaggio che stiamo per iniziare: il grande calore diurno al limite della resistenza fisica nostra e del veicolo che ci trasporta, viaggiare da soli con un unico mezzo e infine, giunti nella zona del Sahel, il rischio di piogge che possono cadere abbondanti in questo periodo dell’anno, rendendo impraticabili le strade e le piste che dovremo percorrere fino alla nostra meta: Abidjan, in Costa d’Avorio. A volte penso che se non fossimo una coppia un po’ matta probabilmente non avremmo visitato così tanti territori inospitali in viaggi che comportano certamente dei rischi, ma come dice un vecchio adagio “Il gioco vale la candela”. Credo infatti che niente sia più appagante per un viaggiatore del muoversi con i propri mezzi a contatto diretto con culture che stanno lentamente scomparendo, in ambienti apparentemente ostili ma straordinariamente unici. In ogni caso i nostri itinerari non sono mai improvvisati ma preparati con estrema cura, e gli eventuali problemi che dovessero insorgere vengono valutati prima di ogni partenza.

Due nuovi compagni
Sbarchiamo a Tunisi nel porto di La Goulette, che ci accoglie con il solito caos di vetture e camper allineati in lunghe file per espletare le formalità doganali. Attraversata in un solo giorno la Tunisia, entriamo in Libia e puntiamo direttamente a sud in direzione Sabha-al Katrun, 1.100 chilometri di ottimo asfalto che percorriamo in altri due giorni. Arrivati all’oasi di Al Katrun, il nostro punto di riferimento si scorge su un’altura: è il vecchio forte costruito dagli italiani durante l’occupazione della Tripolitania e ora fruttuosamente utilizzato da un intraprendente beduino come area di sosta per i veicoli di turisti in visita o di passaggio. All’oasi sono possibili tutti i rifornimenti e si svolgono le formalità per l’uscita dal paese verso il Ciad o il Niger, la nostra prossima destinazione; può provvedere a sbrigare le pratiche anche il gestore del campeggio. Fate solo attenzione perché, una volta annullato il visto d’ingresso, non è possibile rientrare in Libia da sud.
Prendiamo a bordo una guida nigeriana di nome Sidi, presentataci dal solerte titolare del camping, e finalmente partiamo in direzione sud-ovest, diretti al posto di frontiera di Tumu costeggiando l’Erg Murzuq. Appena usciti da Al Katrun veniamo fermati da due motociclisti francesi che, arrivando dal Niger, si sono visti negare l’ingresso in Libia perché agli europei è consentito, come dicevamo poc’anzi, esclusivamente dalla Tunisia. Devono perciò tornare indietro, ma non hanno più l’auto d’appoggio che trasportava i loro rifornimenti e ci chiedono di venire in Niger con noi utilizzando il nostro veicolo come base: impossibile negare un aiuto nel deserto.
All’inizio la pista appare molto battuta dalle innumerevoli tracce dei mezzi che ci hanno preceduto, poi Sidi ci consiglia di uscirne per seguire una traccia che sembra persa nel nulla, ma che noi controlliamo costantemente con il nostro GPS caricato con dei punti di riferimento. Direzione deserto del Ténéré, l’unica direttrice che attraversa diagonalmente il Sahara e che ancora non abbiamo mai percorso, 1.200 chilometri di piste, più o meno impegnative, prima di ritrovare l’asfalto ad Agadez.
Il paesaggio che stiamo attraversando è piuttosto monotono, percorriamo lunghi tratti sabbiosi su cui il nostro pick-up procede lentamente ma con poco sforzo; dobbiamo solo prestare molta attenzione al termometro dell’acqua del radiatore che tende a salire verso il rosso. Incrociamo tracce di grossi camion che Sidi attribuisce a veicoli adibiti al trasporto degli immigrati clandestini i quali, attraversato il deserto e giunti sulla costa, cercheranno tutti i modi possibili per arrivare in Europa.
Un centinaio di chilometri dopo la partenza i nostri due compagni francesi ci fanno cenno di fermarci indicando una piccola altura da loro visitata all’andata, su cui si trovano le rovine di un piccolo forte e le tombe di tredici militari italiani morti durante l’ultima guerra: una sosta è d’obbligo, e il pensiero corre a questi poveri soldati che si trovarono a combattere in un luogo veramente dimenticato da Dio e dagli uomini. Alla base della collinetta, un copertone di camion segnala un pozzo di acqua leggermente salata ma bevibile.
Proseguiamo ora fuori pista in direzione ovest tagliando fuori dal nostro percorso l’ultimo posto di controllo libico, Tumu, che intravvediamo in lontananza sulla sinistra. Praticamente siamo già entrati in Niger, ma la frontiera di Madamà dista ancora un centinaio di chilometri. Riprendiamo la pista principale, segnalata saltuariamente da copertoni di camion, che attraversa una distesa quasi piatta e prevalentemente pietrosa; il caldo è soffocante, ma avanziamo senza eccessivi problemi. A Madamà incrociamo molti camion provenienti dalla Libia, carichi fino all’inverosimile: i nostri centauri chiedono un passaggio, ma nessuno ha spazio disponibile per prendere a bordo le due moto e sono costretti a proseguire con noi.

Le oasi del Ténéré
Ancora 250 chilometri di deserto senza grandi attrattive ci separano dalla prima vera meta di questo nostro impegnativo itinerario: Seguedine, il cui palmeto appare subito dopo aver oltrepassato il picco Zumri, punto di riferimento impossibile da mancare nella pianura divenuta ora molto sabbiosa. In questa piccola oasi senza risorse i motociclisti decidono di attendere un camion che vada in direzione ovest, verso Agadez, noi invece ripartiamo in direzione nord-ovest per visitare le rovine di Djado. Costeggiamo l’altopiano omonimo fino a questa città fantasma avvolta nel mistero: probabilmente fondata dai Garamanti, un popolo berbero che prosperò fra il 500 a.C. e il 500 d.C., fu per lungo tempo un importante crocevia sulle rotte delle carovane dei mercanti di schiavi fra il Niger e la Libia. Le rovine delle case costruite in mattoni di paglia e fango sono ora abitate da scorpioni e serpenti, quindi visitiamo la parte in condizioni migliori prestando molta attenzione agli animali e ai possibili crolli. La zona inoltre è circondata da stagni malarici, probabilmente ulteriore causa dell’abbandono da parte della popolazione Tubu. Lasciamo questo luogo desolato per andare a dormire a circa 4 chilometri di distanza, sotto un arco naturale di roccia di eccezionale bellezza modellato dal tempo e dal vento: sulle pareti di un riparo si scorgono incisioni raffiguranti animali.
Ripresa la pista, prossima fermata obbligatoria è l’oasi di Dirkou per nuovi controlli da parte dei militari che occupano il vecchio forte, dietro il quale un accogliente palmeto offre buone possibilità di campeggio. Nel piccolo abitato poco distante sono reperibili quasi tutti i rifornimenti e si trova anche carburante al mercato nero: è quello libico, venduto a un prezzo venti volte superiore. Un giorno di sosta ci ritempra e siamo pronti per ripartire, sempre con la nostra guida Sidi, in direzione dell’oasi più famosa del Ténéré, Bilma. Dopo 35 chilometri di pista notevolmente insabbiata ci troviamo improvvisamente di fronte a un paradiso in mezzo alla rena infuocata dal sole: piantagioni di palme da dattero, pozze di acqua limpida che sgorga dal suolo e che, grazie a un’accidentale fenditura della roccia, affiora creando laghetti popolati anche da pesci di modeste dimensioni. Da questi affioramenti si dipartono piccoli canali regolamentati da chiuse che vanno a irrigare dozzine di orti in crescono granoturco, manioca, tè, arachidi, sorgo e perfino alberi di arance e pompelmi. Ma tra i viaggiatori sahariani Bilma è famosa soprattutto per il periodo dell’azalai che va da dicembre a marzo, quando giungono le carovane venute a ritirare, con centinaia di dromedari, il sale prodotto facendo evaporare l’acqua che sgorga a una decina di chilometri dall’oasi e che presenta appunto un’elevata salinità. Dopo la raffinazione, viene versato in stampi scavati nei tronchi di palma per ottenere dei pani di forma cilindrica, molto più facili da trasportare.Per proseguire nel nostro itinerario dobbiamo ritornare a Dirkou, dove lasciamo la nostra guida Sidi e ci immettiamo sulla pista che attraversa il deserto del Ténéré per circa 600 chilometri. Lungo il tracciato segnato da balise, sorta di pali di ferro alti circa 3 metri e posti a una distanza di 5 chilometri l’uno dall’altro, sgonfiamo gli pneumatici di una buona metà perché così facendo il veicolo migliora il galleggiamento ed è più difficile insabbiarsi. Dopo una cinquantina di chilometri percorsi nella più completa solitudine ci fermiamo per la notte circondati da un mare di piccole dune, e appena fa buio usciamo dalla cellula per ammirare una maestosa parata di stelle in un silenzio irreale. Scorgo vicino ai miei piedi un gerbillo, piccolo topo del deserto, che ci saltella intorno per nulla intimorito dalla nostra presenza: questi momenti irripetibili sono certamente fra le ragioni che ci spingono a viaggiare.

Sessanta milioni di anni fa
All’alba, pronti per riprendere la traversata nel mare di sabbia, procediamo senza grosse difficoltà fino all’Arbre du Ténéré, luogo mitico segnato anche sulla carta 953 della Michelin. Purtroppo l’acacia che dà il nome al sito non esiste più, sradicato da tempo da un camionista libico, e una scultura di tubi metallici la dovrebbe ora ricordare. Il luogo ha perso così molta della magia di un tempo, anche a causa della montagnola di rifiuti abbandonati vicino al pozzo.
Da Al Katrun ad Agadez, proprio al centro del Niger, abbiamo percorso circa 1.800 chilometri e consumato 490 litri di gasolio. Ci meritiamo dunque un paio di giorni di completo relax, e decidiamo di sistemarci presso un minuscolo hotel gestito da italiani. La città, capoluogo della regione dell’Air, fu probabilmente fondata verso il 1450 ed è ora abitata prevalentemente da tuareg sedentarizzati. La sua immagine più conosciuta, classico esempio di architettura del Sahel, è il minareto piramidale della grande moschea che, originariamente eretta nel 1515, fu poi ricostruita interamente nel 1844. Da non mancare la visita del Grand Marché dove si possono acquistare, dopo lunga contrattazione, oggetti in cuoio e argento, specialità dell’artigianato locale.
Ingaggiamo una guida del posto, Abdoulaye, perché il nostro programma comprende la visita di alcuni luoghi impossibili da trovare senza l’aiuto di qualcuno che conosca bene la zona. Nel numero di settembre 1999 del National Geographic avevo letto un articolo che illustrava il lavoro di una squadra di restauratori, i quali eseguivano calchi in pasta di silicone di un gruppo di giraffe ritrovate incise su delle rocce in un punto sperduto del deserto del Niger: gli oggetti così ottenuti erano destinati ad essere esposti in vari musei, ritenendo quelle incisioni dei veri capolavori dell’umanità da far conoscere e preservare. Il luogo del ritrovamento non veniva precisato, ma dopo alcune ricerche avevo capito che si doveva trovare nei dintorni di Agadez: mostrato l’articolo in giro, riesco subito a localizzare il luogo nel Kori Dabous. Qui giunti, scopriamo con stupore che un guardiano stipendiato dalla rivista controlla il sito e ci fa capire che una mancia sarebbe molto gradita. Iniziamo finalmente la visita di questi singolari panettoni di roccia fino a trovare lo splendido gruppo di giraffe, inciso con una maestria impensabile per un artista di circa 7.000 anni fa. Nei nostri viaggi abbiamo ammirato innumerevoli esempi di arte nel Sahara, sia pittorici che graffiti su roccia, ma quest’opera si colloca senza dubbio ai vertici dell’arte rupestre. Capisco anche per quale motivo il fotografo del National Geographic avesse utilizzato un braccio metallico per le riprese televisive: è possibile fotografare interamente la scena solo dall’alto, e io mi debbo accontentare del mio obiettivo supergrandangolare.Terminata la visita chiediamo ad Abdoulaye di condurci nella zona di Tazolé, dove si trova un cimitero di dinosauri tra i più importanti del mondo. Ci risponde che ultimamente ne è stato scoperto un altro vicino al villaggio di Merendet, 100 chilometri a sud di Agadez. L’abitato si trova sotto una falesia, leggermente rialzato sul letto di un antico fiume ora asciutto, dove l’acqua scorre soltanto nel periodo delle grandi piogge riportando alla luce enormi ossa sparse sul terreno per centinaia di metri. La guida ci indica dei rigonfiamenti nel suolo che a prima vista sembrano grosse pietre ma che, ripuliti dalla sabbia e scavati nei margini, si rivelano appunto parti di uno scheletro. L’emozione che ci prende è indescrivibile: mai avremmo pensato di poter vedere e toccare memorie di un passato così lontano, scomparso misteriosamente circa 60 milioni di anni fa. Ripuliamo e identifichiamo anelli di colonna vertebrale, costole, pezzi di femore, passando l’intero pomeriggio a scoprire e a ricoprire testimonianze di una specie vivente che dominò la Terra e che ora non esiste più.

La città felice
Prossima meta il massiccio dell’Air e le sue oasi di montagna più belle. La pista inizia a salire, piuttosto sconnessa, tra cime di scura roccia vulcanica in uno dei paesaggi più spettacolari dell’Africa Occidentale: la nostra destinazione è l’oasi di Iferuane, detta anche la perla dell’Air. Vi giungiamo nelle prime ore del pomeriggio, ma forse anche per il caldo implacabile sembra semiabbandonata; rinunciamo perciò alla visita proseguendo per l’oasi di Timia. Qui la fortuna ci assiste: eccoci coinvolti in un rumoroso matrimonio tuareg al quale partecipa tutto il villaggio. Suoni e colori si fondono in uno spettacolo che difficilmente è dato vedere agli estranei, ma a noi fortunatamente è concesso perché la nostra guida è originaria dell’oasi e conosce un po’ tutti. Prima di ripartire da Timia andiamo ad ammirare le numerose incisioni eseguite su una parete di roccia: anche qui sono riprodotti soprattutto animali e una strana figura simile a un folletto, il jinn, che serve a tenere lontani gli spiriti maligni.
Riportata la nostra guida ad Agadez, ci dirigiamo ora verso la capitale Niamey. La strada è asfaltata e il traffico aumenta soltanto quando siamo alla periferia di questa tipica metropoli africana, con il centro e i quartieri residenziali caratterizzati da edifici di livello quasi europeo e una cintura esterna assediata da baraccopoli, che ospitano una grossa fetta della popolazione venuta a cercare lavoro e ora costretta a vivere di espedienti. Visitiamo il museo nazionale che ospita le riproduzioni a grandezza naturale di abitazioni e costumi tradizionali dei vari gruppi etnici che popolano il paese; un padiglione contiene invece lo scheletro completo di un iguanodonte, risalente a circa 80 milioni di anni fa, ritrovato nei dintorni di Agadez. Ci fermiamo anche a vedere il gazebo che ospita il famoso albero del Ténéré, conservato qui dopo essere stato sradicato. Il nostro programma comprende la visita di una delle ultime aree protette ancora visitabili in questa parte dell’Africa, il Parc National du W, così chiamato per la sua forma ed estensione che si incunea in quattro stati diversi. E’ però più il tempo che perdiamo per arrivare di quello dedicato alla visita, una vera delusione: la vegetazione è molto fitta, le piste in pessime condizioni, gli animali rari e difficili da vedere.
Tornati a Niamey, prendiamo la direzione nord: prossima tappa Gao, in Mali. La strada costeggia per lunghi tratti il fiume Niger ed è asfaltata sino alla frontiera, poi diventa una pista fangosa che attraversa il territorio abitato dalla popolazione dei Songay. Il paesaggio circostante è di una bellezza selvaggia, e con un po’ di fortuna si possono avvistare ippopotami e giraffe. La prima volta che facemmo tappa a Gao nel 1987 dopo aver attraversato il Tenezrouft, il deserto dei deserti, lo choc fu così violento che mi vennero le lacrime agli occhi: era il coronamento di un sogno che inseguivo da tempo. Poi sono iniziati gli attentati in Algeria e non è stato più possibile seguire quella direttrice per arrivare in Mali. Gao, una volta soprannominata “la felice”, non è cambiata molto in questi vent’anni: la globalizzazione e il consumismo non l’hanno nemmeno sfiorata, la popolazione sopravvive ancora con la pesca e l’agricoltura, sembra quasi in attesa di un risveglio che non si vede all’orizzonte. Slanciate piroghe solcano le acque melmose del Niger, trasportando un’umanità sorridente perché quest’anno le piogge sono state copiose e il raccolto abbondante.

Verso l’oceano
Attraversato il fiume su una chiatta, prendiamo la direzione di Mopti. La strada attraversa ora uno strano paesaggio di montagne piatte con ripide pareti rocciose: a sinistra si intravvede la cima frastagliata soprannominata “mano di Fathma”, a destra si lambisce l’enorme formazione rocciosa dell’Hombori Tondo che si erge sulla pianura raggiungendo i 1.155 metri di altitudine, il punto più alto del Mali. A differenza di Gao la città di Mopti è molto cambiata dalla nostra prima visita, ma ci siamo tornati più volte perché da qui partono le più belle e importanti escursioni del paese. Le strade del centro urbano sono ora tutte asfaltate e anche illuminate, è stato realizzato uno stadio di calcio e ampliato il porticciolo fluviale dove attraccano decine di piroghe che partono verso Djenne o Timbouctu, cariche di merci e persone. Da qui si effettuano inoltre piccoli in auto di vari giorni alla falesia di Bandiagara abitata dall’etnia più nota del Mali, i Dogon.
Ci sistemiamo al campement e contattiamo Ibrahim Konè, che ci ha sempre accompagnati nei nostri itinerari in questa zona: abbiamo deciso di ritornare a Timbouctu nonostante sia piovuto molto e prevedibilmente la pista si trovi in cattive condizioni, ed effettivamente è così, con lunghi tratti talmente allagati da dover mantenere la direzione a intuito. Proviamo ad uscire dal tracciato ma ci ritroviamo impantanati nel fango sino alle portiere, e dopo numerosi tentativi a vuoto riusciamo a fermare un fuoristrada che trasporta turisti a Timbouctu, il quale ci tira fuori utilizzando la cinghia di traino. Ci accordiamo per percorrere la strada insieme, a maggiori garanzia di sicurezza per ambedue i veicoli, e infatti un paio d’ore dopo è la loro vettura a rimanere bloccata nell’acqua. Questa è l’Africa, un continente difficile per chi ci vive ma anche per dei viaggiatori come noi; i disagi però fanno parte della conoscenza, e ci ricordano che la realtà di questi luoghi non è fatta solo di animali nei parchi più famosi e danze masai organizzate per divertire i turisti.
Al termine della pista attraversiamo nuovamente il fiume Niger su una chiatta e sbarchiamo nella mitica Timbouctu. Le prime notizie sulla fondazione della città risalgono al 1100, ma il periodo di massimo sviluppo fu tra il 1500 e il 1600 quando arrivò a contare quasi 100.000 abitanti. La sua ricchezza e importanza erano dovute ai mercanti che vi transitavano portando schiavi, oro e avorio verso l’Europa; in quel tempo era anche divenuta quasi pari alla Mecca per le sue prestigiose scuole coraniche e le numerose moschee. Tutto ciò non esiste più: oggi Timbouctu è abitata da circa 7.000 persone che diminuiscono costantemente perché è un luogo senza futuro e prospettive. Passato il turbolento periodo degli anni ’90, quando è stata teatro di violenti scontri fra i Tuareg e l’esercito, ora la situazione è ritornata tranquilla e vi circolano numerosi turisti: se ne sono accorte anche le autorità locali, mettendo una tassa d’ingresso equivalente a circa 3 euro a visitatore.
Riprendiamo la pista che ci riporterà a Mopti, questa volta senza problemi perché prima di rimetterci in viaggio abbiamo montato sul nostro pick-up lo snorkel che consente guadi di oltre un metro, al contrario del fuoristrada nostro compagno in questo tratto che recuperiamo in panne dal letto di un fiume in piena. Salutato il caro amico Ibrahim, è il momento di far rotta verso sud per entrare in Costa d’Avorio. La prossima tappa è Yamoussoukro, la nuova capitale amministrativa, una sorta di città fantasma voluta dal defunto presidente Boigny per ricordare il suo luogo di nascita. Il monumento più importante è la basilica di Notre Dame de la Paix, copia fedele in scala della basilica di San Pietro a Roma nonché prova evidente di una delle peggiori disgrazie dell’Africa: i suoi governanti megalomani e sperperatori di denaro pubblico.
Il nostro lungo e impegnativo viaggio è ormai al termine: siamo arrivati ad Abidjan, nel piccolo campeggio in riva al mare dal nome esotico di Copacabana, e ci godiamo un bellissimo tramonto sul Golfo di Guinea. Da Tunisi abbiamo percorso in 35 giorni quasi 10.000 chilometri tra strade e piste, non è stato un viaggio né monotono né riposante ma certamente pieno di nuove esperienze e grandi emozioni. E poi, quando l’Africa chiama… .

PleinAir 438 – gennaio 2009

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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