Cuor di Maremma

Andiamo a conoscere Grosseto e il suo entroterra, ma per vie secondarie, borghi e castelli solitari. Un bagno nella memoria e nei segreti della Maremma più antica.

Indice dell'itinerario

Un palazzotto non privo di qualche pretesa per essere in aperta campagna è l’antica dogana al confine tra Stato Pontificio e Granducato di Toscana, alle soglie di quella che per ampiezza e tradizione è sempre stata la maremma per eccellenza: la Maremma di Grosseto.
Siamo sulla Via Aurelia, dalla cui destra abbiamo scelto di raggiungere Grosseto seguendo un itinerario alternativo per cercarvi oggetti, luoghi, paesaggi, un passato dimenticato o semplicemente sottinteso. Ci eravamo posti la domanda se tralasciare il paese di Capalbio, portato a notorietà verso gli anni Ottanta dalla frequentazione di politici eccellenti; ma i tempi cambiano e i personaggi d’allora, se pur continuano ad avervi discretamente casa, non sono più sotto le luci della ribalta. E così Capalbio è tornato un paese che vale proprio la pena di visitare per quello che è, un silenzioso borgo di austeri edifici medioevali serrati nel duplice giro di antiche mura tra archi, buie volte, prospettive inattese. Suggestiva la piccola e turrita porta senese dai forti battenti di legno. Dal cammino di ronda, oltre la macchia e il verde che assediano il poggio, lo sguardo corre lontano su mare e terra. Quel che resta del torrione della struttura castellana, fresco di restauro (in estate è permesso salirci), ha il solo torto di sapere ancora troppo di nuovo. Di fronte ci sono da vedere, nella pieve di San Nicola, affreschi di varie scuole recuperati con recenti interventi.
Qualche vecchio vi parlerà della banda di Tiburzi, il brigante di fine ‘800 che si nascondeva nei boschi circostanti, tuttora pieni di quei cinghiali che sono protagonisti della cucina di queste parti (vedi PleinAir n. 367). Era il tipo di bandito che magari «stendeva i cristiani» ma, dice la leggenda, toglieva ai ricchi per dare ai poveri. I carabinieri lo fecero secco in una sparatoria al casale Forane; ma quando si trattò di inumarlo il prete non voleva saperne di metterlo nel piccolo camposanto di Capalbio e la popolazione si divise. Intervenne il pretore che salomonicamente ordinò: «La parte superiore del corpo dentro, le gambe fuori». Giunti a Capalbio di sabato, abbiamo trovato posto per la notte nel parcheggio antistante il Municipio, all’inizio dell’abitato. Per altri spazi di sosta occorre salire verso il centro storico: un parcheggio è segnalato sulla sinistra, poco più avanti altre piazzole si trovano imboccando la circonvallazione (che è a senso unico). Per strade interne fra poderi, tombe etrusche e lembi di bosco, ecco tra i cipressi la bella veduta della Marsiliana, tenuta agricola appartenente a una vecchia famiglia che mostra oggi una villa con torre sul sito del castello distrutto nel 1382 ‘infin’a’ fondamenti’ dalle armate senesi. Più avanti occorrerà tenere gli occhi aperti per non perdere i solitari resti del monastero di San Bruzio, ovvero Tiburzio: appena oltre una fattoria sulla sinistra, s’imbocca a destra (con una manovra) uno sterrato di alcune centinaia di metri. Asportazioni di nuovi barbari non impedirono alla chiesa, del Mille o giù di lì, di restare una delle reliquie architettoniche più suggestive di queste terre. Ciò che resta oggi della sua struttura a croce latina in liscio travertino è, oltre alla parte absidale, un cospicuo settore del transetto con il tamburo che sosteneva la cupola. Su un impianto di ispirazione romanico-lombarda si riconoscono decorazioni e altri elementi di gusto francese, effetto forse del passaggio di artigiani e pellegrini francigeni. Ma sulle vicende della badia mancano notizie, a parte una citazione del 1356: che il suo abbandono fosse dipeso dal flagello della malaria’
In un paesaggio punteggiato d’ulivi, Magliano in Toscana non tarda a mostrarsi sul crinale di un colle con un’alta cortina di mura e torri restituite alla loro bellezza da recenti lavori. Gli edifici più interessanti si trovano quasi tutti lungo la strada principale del paese: la semplice quanto armonica facciata rinascimentale di San Giovanni Battista, la chiesa romanica di San Martino, il Palazzo del Capitano cui non ci sembra faccia complimento l’intonacatura adottata poco tempo fa a nascondere la sottostante pietra viva. Il palazzetto, detto di Checco il Bello, appartenne in antico ai Monaldeschi che volendo ottenere un terzo livello nei due piani originali inserirono tre belle bifore del ‘400 (ora incredibilmente murate, e la facciata imbruttita da banalissime finestre). Commentiamo queste cose con uno di quegli anziani contadini autodidatti che capita a volte d’incontrare in Toscana, coscienti delle regole del gusto e con una discreta infarinatura della storia: Vasco ci spiega che questo Checco era semplicemente un tale che visse al principio del Novecento e fu padrone del palazzetto (ma lui non c’entra con le bifore murate); gli dettero il soprannome perché era uomo aitante e impenitente dongiovanni. E mentre mi accompagna all’Annunziata, antica chiesa e convento che si trova in basso fuori porta, racconta altre storie di Magliano. Come quella del parroco di tanti anni fa, che quando in San Giovanni c’era bisogno di riparazioni si faceva i lavori con le proprie mani. Don Giacomo era un vero prete maremmano, amante talvolta del mezzo toscano e che spesso la sera non rinunciava alla partita a carte all’osteria. Ma era di scarsi mezzi e si capiva che gli rimordesse di non potersi fare mai avanti a pagar lui da bere; finché una sera come per improvvisa decisione si allontanò e tornato al tavolo fu finalmente lui, per una volta, ad offrire saldando il conto in monetine da pochi centesimi.Ora con Vasco si va a bussare sul retro dell’Annunziata, romanica di origine, dove abita l’attuale parroco che ci dà la chiave della chiesa. Ricoperta da molti affreschi anche di una certa qualità, recuperati in tempi recenti rimuovendo l’imbiancatura, presenta all’altare maggiore una tavola quattrocentesca di Maria Lactans del maestro senese Neroccio di Bartolomeo, un capolavoro. Su uno degli altari laterali Vasco mi mostra anche alcune decorazioni murali che, essendosi del tutto scolorite, furono ricreate prima dell’ultima guerra dal farmacista di Magliano, un ebreo amico di don Giacomo (all’esterno della chiesa si vede ancora dipinta una piccola stella israelitica a sei punte). Ma la vera amicizia si vede nel momento del bisogno: avendo saputo che i tedeschi stavano per deportare il farmacista, don Giacomo corse dal proprio vescovo e tanto fece da riuscire ad ottenerne l’intervento presso il comando germanico. Nell’uliveto presso la chiesa merita infine d’esser visto un mitico e supercontorto ‘ulivo della strega’ la cui vita si misurerebbe in millenni.
Lasciamo Magliano per raggiungere Pereta, un piccolo scenografico cono di case che risale all’incirca al Mille, quando gli Aldobrandeschi sfruttarono la felice posizione per innalzare un castello che controllasse i percorsi verso l’Amiata. Una chiesetta romanica è presente nel fitto abitato medioevale su cui campeggia un’altissima torre che, secondo la leggenda, avrebbe ospitato gli amori di un certo Nello Pannocchieschi, podestà di Volterra, con Margherita Aldobrandeschi. Ma sulla vicenda dovremo tornare nel visitare un più nascosto castello maremmano.
Il grosso paese agricolo di Scansano dovette in buona parte il proprio sviluppo urbano alla posizione elevata rispetto alla piana e quindi all’uso (praticato già nel Trecento dal podestà di Grosseto) dell’estatatura, cioè di spostarvi nei mesi più caldi i propri uffici. Nella seconda metà del ‘700 i Lorena che governavano in Toscana stabilirono il trasloco estivo a Scansano per tutti gli uffici pubblici di Grosseto: ancora afflitta dal clima caldo e umido delle vicine paludi, che acuivano il flagello della malaria, tra giugno e settembre la città si trasformava in un forno assediato dalle zanzare e Scansano acquistava un tono cittadino di capoluogo vicario. L’usanza venne soppressa nel 1897 con il lento miglioramento della situazione ambientale maremmana e richiese una decisione del Parlamento nazionale, ricordata da una lapide sotto i portici del Comune di Grosseto. Nella parte antica di Scansano, accessibile attraverso una porta con torre, si trova l’antico Palazzo Pretorio un tempo adibito appunto a ospitare gli uffici del capoluogo.
Nel riprendere verso Grosseto abbiamo provato, all’altezza di Pancole, a deviare per la strada asfaltata di Polveraia dalla quale si stacca più avanti uno sterrato che scende al fondovalle del Senna e al castello di Montepò, di probabile fondazione duecentesca; ma poco più avanti abbiamo desistito per la cattiva qualità del fondo e per la sua ripidezza. Il castello, al centro di una tenuta agricola, è costituito da una villa signorile e altri fabbricati, il tutto fortificato da una cortina di mura con torri angolari: visto da lontano l’insieme appare suggestivo e ben conservato, e i buoni pedalatori potrebbero scendervi in bici. Scarsi resti troveranno invece del castello del Cotone, a qualche chilometro da quello di Montepò.
Nel discendere ora verso la piana maremmana il paesaggio si apre con limpida bellezza, finché al ponte di Istia d’Ombrone (qui un tempo si guadava) facciamo una prima conoscenza con il fiume di Grosseto, che scorre in un bell’ambiente verdeggiante ma da cui il paese sembra prendere, quasi timoroso, le distanze. Al di là dell’antica porta fortificata di forme senesi si arriva alla duecentesca chiesa del Salvatore, in mattoni, che al suo interno conserva tra le altre opere una quattrocentesca scultura in legno dipinto della Madonna col Bambino.

Tra i baluardi di Cosimo
Grosseto non ha certo la rinomanza turistica di altri capoluoghi toscani, ma è una città dal sapore antico che sarà apprezzata dal viaggiatore curioso dei luoghi del passato. Un passato che si può leggere nel nucleo originario di pianta quasi circolare, una città nella città, che bastioni e baluardi separano dalla dilagante edilizia moderna.
Per visitarla comodamente abbiamo trovato per qualche giorno uno strategico punto di sosta nel parcheggio illuminato di Via Alfieri, a qualche centinaio di metri dalla Porta Vecchia, dove è più agevole trovare spazi di buon mattino o verso sera.
Molto più antica di Grosseto, caposaldo del territorio fu la vicina Roselle, di origine etrusca, che successivamente divenne romana e più tardi sede vescovile; nel 935 fu saccheggiata dai Saraceni ed ebbe inizio il suo declino. Quale che fosse la causa immediata, sappiamo comunque che nel 1138 fu papa Innocenzo II a dare il segno del cambiamento spostando la sede episcopale a Grosseto, feudo degli Aldobrandeschi già munito da tempo di castello e proprie mura: queste avrebbero subito nei secoli svariate distruzioni e ricostruzioni finché nel ‘500 Cosimo de’ Medici, divenuto signore di quasi tutta la Toscana, decise che il caposaldo meridionale dei suoi territori avrebbe avuto una grande e seria fortificazione, al passo con i tempi e con l’impiego delle bocche da fuoco (c’erano ancora eserciti che scorrevano la penisola ed era ben presente lo stesso pericolo musulmano). La costruzione dei bastioni che tuttora circondano il centro storico fu iniziata dal successore Francesco I e durò trent’anni. Il complesso forma attualmente una sorta di giardino sopraelevato, una circolare fascia verde dalle tranquille atmosfere che ha un particolare punto di riferimento nella fortezza sviluppata dai Medici intorno a un fortilizio senese e, a sua volta, munita di angolati bastioni.
Ma anche la città storica, vero salotto pedonale, ha ritmi a misura d’uomo. Via Carducci è la strada dei passeggi e dei negozi, ma vi si aprono anche slarghi e piazze come quella in cui sorge la medioevale chiesa in cotto di San Francesco, affollata dagli studenti che frequentano l’adiacente sede universitaria. Nel 1220 la chiesa, dedicata allora a San Fortunato, a causa della malaria imperante venne abbandonata dai Benedettini cui si sostituirono alcuni decenni dopo i Francescani. Vi si ammirano vari affreschi venuti alla luce con la rimozione nell’800 degli altari barocchi; l’opera più significativa è però un grande quanto umile Crocifisso, raffigurato in una tavola attribuita a Duccio di Boninsegna (o ad altro artista che dipingeva alla maniera di Cimabue e dello stesso Duccio). Se proverete poi a bussare al cancello di fianco alla chiesa, il padre guardiano non avrà difficoltà a permettervi la visita del fiorito chiostro con il bel pozzo del ‘500.
Iniziando dal citato parcheggio la scoperta del quartiere non si potrà che dirigersi anzitutto, passata l’area del mercato con la porta urbica, verso Piazza Dante che rappresenta il cuore di questa Grosseto vecchia. Tra i portici si affaccia il Duomo a bande di marmo bianco e rosso, innalzato alle soglie del ‘300 sul luogo di una chiesa preesistente ma che subì nel tempo restauri non sempre appropriati. Al suo fianco, il merlato palazzo della Provincia esibisce quel neogotico che fu in auge agli inizi del ‘900. Neoclassico invece il palazzo del Comune, costruito poco dopo l’Unità. Il caso ci ha però fatto scoprire un ancor più sorprendente accostamento di stili: percorrendo Via Carducci fino a tagliare i bastioni, subito all’ingresso nella città moderna Piazza Fratelli Rosselli mette accanto neoclassico e liberty, stile del ventennio fascista e stile ultramoderno. E anche questo è storia del gusto.
Torniamo però a Piazza Dante dove merita attenzione, per il forte legame con la storia della città, l’ottocentesco monumento ricco di simboli dedicato a Leopoldo II di Lorena, chiamato affettuosamente Canapone per ll colore dei capelli. Ai grossetani dette più di un motivo per serbarne un ottimo ricordo, in primo luogo l’aver finalmente sconfitto il flagello della malaria (vedi approfondimento “Mille anni di bonifiche”).
Sempre nella città, entro i bastioni merita infine di essere visitato in Piazza Baccarini il Museo Archeologico e d’Arte della Maremma, che dopo sette anni di chiusura ha riaperto con una nuova aggiornata sistemazione ed è ora affiancato dal Museo d’Arte Sacra della diocesi di Grosseto. Ammirerete del primo le sezioni etrusca e romana dei ritrovamenti di Roselle (compresa una serie di espressive sculture d’età imperiale), del secondo le pitture di scuola senese che includono la Madonna delle Ciliegie del Sassetta, nonché una sezione di belle oreficerie liturgiche. Ma già all’inizio del giro risulta estremamente istruttivo un efficace plastico dal quale si vede come in epoca antica la Maremma grossetana fosse non ancora palude ma una grande laguna, chiamata lago Prile, in comunicazione con il mare.

Ricordando Pia
Un parcheggio sterrato a un passo dall’ingresso e un esauriente ciclostilato con topografia degli scavi, fornito con il biglietto, semplificano la visita dell’area di Roselle, aperta tutto l’anno e il cui circuito (di circa 2 chilometri) costituisce un’interessante passeggiata archeologica. Dalla sella che ospitava le principali strutture pubbliche della città si possono osservare gli ordinati poderi e i campi coltivati che furono laguna prima di divenire palude.
Una via secondaria ci permette ora di tagliar fuori un buon pezzo d’Aurelia prima di impegnare la salita di Montepescali, alto insediamento medioevale che tutti avranno notato percorrendo la nazionale. Diciamo subito che è sconsigliabile provare ad arrivarci spingendosi fino al termine della rotabile, dove la chiesetta di Santo Stefano fronteggia pochi posti auto spesso occupati; preferibile invece, lungo la salita, svoltare 600 metri prima dove si incontra un’indicazione di parcheggio che conduce fin sotto l’abitato a un’ampia piattaforma dotata di illuminazione. Per la miglior vista (il paese porta l’illuminante soprannome di “balcone della Maremma”) occorrerà poi arrivare alla chiesa e scendere alla terrazza sottostante.
Per i 300 abitanti di Montepescali oggi è abbastanza semplice raggiungere Grosseto: ben diversa la vita che bisognava fare una volta quando, per lavorare nelle tenute Guicciardini o Grottanelli giù alla piana, non rimaneva che scendere e risalire ogni giorno con i propri piedi. Questo dicono i vecchi, e raccontano pure che nelle colline a una certa distanza da Montepescali c’era una zona che non poteva essere bombardata giacché gli aerei trovavano dei vuoti d’aria; perciò, prima della guerra, i militari ci avrebbero costruito una polveriera. Il paese conserva la struttura medioevale, con un cassero in pietra a vista e una torre nella piazzetta più alta. Oltre a Santo Stefano, di fondazione romanica, si può andare a vedere San Niccolò, ritenuto dell’XI secolo, dove a causa di crolli e restauri avvenuti già in antico il campanile ruba curiosamente una porzione dell’unica navata. Entrambe le chiese possiedono affreschi, in parte venuti alla luce dopo la rimozione di sovrapposizioni barocche, ma è in San Niccolò che si conserva oggi una valida tavola di Matteo di Giovanni raffigurante la Madonna con Bambino e santi (tra questi è ben riconoscibile quel Guglielmo da Malavalle che fu eremita nella paludosa distesa tra Montepescali e il mare, chiamata in quel tempo appunto Malavalle).
Per trovare il Castello della Pietra dall’Aurelia occorre prendere la deviazione per Ribolla, senza arrivarvi ma svoltando dopo circa 4 chilometri a sinistra e continuando per quasi cinque. Ma a questo punto inutilmente cerchereste il castello come riportato sulla carta, ed essendo qui rari gli incontri difficilmente verreste a capo dell’enigma. Dunque non cercate a sinistra ma (poco prima della cava Bartolina) prendete a destra per la stradina asfaltata, al cui inizio una tabellina gialla porta scritto ‘Moscatello’, e seguitela per 2 chilometri fino a una fattoria sulla sinistra; alla vicina curva abbandonate la strada, continuate diritto sullo sterrato e, oltrepassato un ponticello, proseguite per strada bianca salendo fino agli sparsi fabbricati di una fattoria. Oltre questa, andate avanti per 700 metri e qui lasciate la strada bianca prendendo lo sterrato in salita sulla sinistra; quest’ultimo, dopo aver sfiorato un casale abbandonato, raggiunge in 600 metri un deposito d’acqua in cemento nascosto in una rientranza della quale potrete servirvi per la conversione. Lasciato qui il veicolo, a noi sono bastati una decina di minuti di pista per arrivare ai resti del castello, sulla piccola altura calcarea detta appunto La Pietra. Il ponteggio accanto a una parete mostra che vi furono iniziati dei restauri conservativi, mentre accanto sono riconoscibili i vecchi scavi di qualche ricerca. “Ricordati di me che son la Pia: Siena mi fé, disfecemi Maremma”, questi i versi che portano fin quassù chi accetta l’identificazione di Pia de’ Tolomei fatta dagli antichi commentatori di Dante. Quanto all’uxoricida, fu il conte Paganello Pannocchieschi, padrone del castello della Pietra, che abbiamo già incontrato a Pereta insieme a Margherita Aldobrandeschi. Dovette bastar poco, in quel 1297, a buttare Pia giù per il dirupo sotto l’isolata torretta che si scopre girando intorno al maniero. Ma più che a gelosia o a vendetta per un’infedeltà – cui Dante non fa il minimo riferimento – è più facile pensare che il Pannocchieschi si ripromettesse importanti conseguenze da un apparentamento con la potente famiglia degli Aldobrandeschi che, a dire della gente, aveva tanti castelli quanti i giorni dell’anno. E qui potrebbe essere istruttivo conoscere i motivi per cui le nozze con Margherita si conclusero pochi anni dopo con la separazione: è un altro dei misteri di questa Maremma nascosta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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